Svetlana Aleksievič e Vladimir Putin
È stato in primavera, quando Alessandro Della Casa per conto del Festivaletteratura di Mantova mi scrisse per propormi di intervistare Svetlana Aleksievič, che sentii parlare per la prima volta di una sua ipotetica designazione al premio Nobel. Non esistono candidature in quel settore, ma la voce continuò a circolare anche in settembre, durante le giornate del Festival.
La notte precedente l’incontro, Homo Sovieticus era stato il titolo scelto per l’evento, fu per me molto agitata. La lettura sistematica di Tempo di seconda mano su cui avevo deciso di concentrami, le molteplici pagine di appunti presi per registrare possibili domande, mi avevano portato a identificare una troppo ricca serie di argomenti, problematiche, ambiti di irrinunciabile interesse. Il timore era di non essere all’altezza, di non riuscire a concentrare nel tempo a disposizione la varietà di discorsi che si sarebbero potuti intessere con un compendio di storia culturale, sociale e politica come quello a cui mi trovavo di fronte. A questo si aggiungeva un’ulteriore inquietudine: che l’incontro con l’essere umano Svetlana non corrispondesse alle aspettative che mi ero fatto leggendo la Svetlana autrice. Bastarono pochi secondi per fugare queste ultime paure. Scese da un taxi, accompagnata dall’interprete Nicola Nobili, di fronte alla Basilica Palatina già completamente gremita. Le andai incontro e mi presentai salutandola in russo. Pochi istanti dopo già si dialogava con piacevole rilassatezza e intesa. Teneva sul capo l’ampio collo sciallato della maglia che indossava. Aveva freddo, nonostante la giornata fosse più che tiepida, e paventava l’umidità dell’antica chiesa. Semplice, direi addirittura modesta, senza arie di sorta né spocchie intellettuali o divistiche.
Fummo d’accordo a non “prepararci” all’intervista, lasciando alla spontaneità e al naturale evolversi del discorso la responsabilità del taglio da seguire. Mi colpì la sua richiesta all’interprete, che bene conosceva visto che già avevano lavorato insieme, “traduci l’umanità delle domande e delle risposte”. E così fu. Le storie narrate ed evocate, come succede nelle pagine dei sui reportage-romanzi, fluivano nelle sue parole di introduzione e commento, con pacatezza e olimpica serenità.
Nonostante tragici e terribili fossero molti dei temi che venivano affrontati. Apprezzai, anche nella donna storyteller, nella giornalista politica, nella storica attenta e raffinata, l’estrema onestà intellettuale che avevo identificato nei suoi libri, in cui lasciava spazio ai punti di vista più diversi e lontani tra loro. Si è parlato non a caso di polifonia rispetto al suo stile. Procedeva senza giudicare, condannare, esaltare o altro. Mantenendo la corretta distanza dai problemi, che mai scadeva nel cinismo, esplicitando sempre con chiarezza ineccepibile le proprie posizioni ideologiche ma non usandole per privilegiare certi interlocutori rispetto ad altri o per isolarne alcuni al rango di contributi secondari. Senza mai perdere di vista i collegamenti tra la storia passata e quella contemporanea, integrando le risposte anche con esperienze personali mai prevaricanti rispetto a quelle che aveva raccolto, montato e raccontato con estremo coraggio nei suoi volumi. Era riuscita a dare voce a categorie che la Storia con l’iniziale maiuscola spesso trascura: donne, vecchi, reduci, umiliati e offesi dalle più diverse situazioni e circostanze.
A far emergere con le sue domande, con le sua capacità di ascolto, condivisione e scrittura, rimpianti, rivendicazioni, rimorsi, nostalgie, dolori e compiacimenti profondi. A una domanda dal pubblico su cosa avrebbe potuto fare l’occidente per contrastare la politica putiniana, rispose suggerendo che non si compisse ancora l’errore già commesso in passato nell’aver dato fiducia a Hitler considerandolo un politico serio. Una voce femminile dall’inconfondibile accento russo si levò a contestarla: “Non è vero!”. Restò impassibile e si dichiarò disponibile a proseguire nel dibattito, ma quel dibattito non ebbe seguito. Si affrontò l’impenetrabile quesito della coesistenza nell’era staliniana di terrore ed euforia, del rifiuto delle purghe e delle epurazioni in paradossale parallelo alla loro esaltazione e approvazione. Si commentò il rischio che quel tempo “di seconda mano” potesse riproporsi nella contemporaneità. Tempo in cui non c’era stato modo per pensare, né per porre o porsi domande. Commentammo il ruolo delle canzoni nelle sue interviste (e dunque nella storia), costanti citazioni che infarcivano le narrazioni con rimandi a versi, melodie, testi riportati e cantati integralmente. Narrò delle passeggiate per Minsk, la capitale bielorussa dove era tornata a vivere dopo l’esilio parigino “in tempo per assistere allo scempio putiniano”, con la nipotina che le chiedeva a chi fossero intitolate le vie della città e del suo imbarazzo nel non poterle rispondere esplicitamente che erano stati quasi tutti dei boia. Quando il tempo a disposizione, che aveva già abbondantemente sforato quello previsto, giunse davvero al termine, molte mani erano ancora alzate tra il pubblico. Si formò immediatamente la classica lunga fila per la firma delle copie e poi si compì il rito delle interviste per radio e televisioni. Non ultima quella realizzata dai giovani collaboratori volontari del Festival. Anche al ristorante per i rituali tortelli di zucca arrivò imbacuccata. Il freddo continuava a tormentarla anche nel soleggiato pomeriggio mantovano.
Immancabili, appena la notizia del premio si è diffusa, sono fioccate reazioni che sollevano obiezioni sulla scarsa “letterarietà” della sua produzione. Come se i suoi lavori, non rientrando a pieno titolo nei generi canonicamente riconosciuti come letterari, non meritassero questo riconoscimento. Altri commenti banalizzanti vogliono leggere questo Nobel come esclusivamente politico. Innegabile è che il momento si presti a suscitare reazioni anche su quel piano. Non inutile è forse ricordare come analoghi riscontri avessero segnato il Nobel del 1958 a Boris Pasternak e quello del 1987 a Josif Brodksij, come se la letteratura, accreditata o meno sul piano accademico, in Russia non potesse mai essere scissa dal dibattito politico né prescindere dal coraggio intellettuale e civile di chi ci si dedica. La notizia, neanche a farlo apposta, è arrivata a due giorni di distanza dall’anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja e dopo una mattina in cui sui social network, tra colleghe e colleghi addetti ai lavori, si erano commentate, tra il motteggio e la preoccupazione, le inquietanti “facezie” relative alle celebrazioni per il compleanno di Putin [1]. Tra la ormai famosa partita di hockey e i missili lanciati sulla Siria.
Per il 63esimo compleanno del leader del Cremlino Vladimir Putin, il marchio di gioielli italiano Caviar ha realizzato una collezione “presidenziale” di iPhone6s: realizzate in titanio, le cover sono decorate con un’incisione in oro raffigurante il profilo del capo di Stato russo. In totale sono solamente 63 gli esemplari realizzati, ciascuno del costo di 199mila rubli.
Allo stadio di Groznyj, capitale cecena, lo hanno festeggiato così:
Il rischio di cadere in un rinnovato culto della personalità ha trovato ulteriori riscontri.
Canzoni scritte e dedicate al Presidente sono state composte ed eseguite un po’ dovunque, dalla Russia all’Italia. Immancabili, tra questi ultimi, gli auguri di Al Bano e Toto Cutugno.
Non è con queste poche citazioni che si risolve un problema di portata estremamente delicata. Non escludo di dedicare loro un’attenzione più specifica e approfondita. Le ho inserite in questa forma superficiale soltanto per segnalare macroscopicamente l’abisso di stile che separa le due realtà a cui ho fatto riferimento. I punti di contatto e contrasto tra queste sono ovviamente numerosi e serissimi. Dal 8 ottobre 2015 la storia avrà una importante occasione in più per affrontarli e riconsiderarli. Magari alla luce di una delle tante valutazioni dell’autrice premiata. “La guerra tra Russia e Ucraina non è fra nemici. Comunque finirà non ci saranno vincitori ma soltanto perdenti.”
Qui il video dell'intervista a Svetlana Aleksievič fatta dalla redazione del Festivalletteratura di Mantova al termine dell'incontro con Gian Piero Piretto.
I libri:
Tempo di seconda mano, 2012 (trad. Nadia Cicognini e Sergio Rapetti)
Ragazzi di Zinco, 2003 (trad. Sergio Rapetti)
Preghiera per Cernnobyl, 2002 (trad. Sergio Rapetti)
[1] Li ringrazio per le segnalazioni che hanno condiviso e alle quali ho fatto ricorso per questo breve commento: Stefano Aloe, Milly Berrone, Marinella Combi, Maria Candida Ghidini, Massimo Tria.