Navalny: cronaca di un funerale annunciato
Si è calmata la tensione che ha caratterizzato nei giorni scorsi l’attesa e lo svolgimento dei funerali di Aleksej Naval’nyj, il maggiore oppositore contemporaneo del regime putiniano (la qualifica di dissidente resta per me legata all’era sovietica e la evito consapevolmente) morto per cause non accertate nella colonia penale N. 3, sperduta nell’estremo nord della Federazione Russa. Ci si può concedere una riflessione meno frenetica, da aggiungere alle moltissime già pubblicate, sui fattori più significativi che hanno caratterizzato questa cerimonia funebre, tentando di interpretarne alcuni.
La notizia della morte era stata diramata dalle fonti ufficiali: “dopo una passeggiata si è sentito male” e “ha perso conoscenza quasi subito”. Il Servizio penitenziario federale aveva altresì comunicato che i medici erano ricorsi a misure di rianimazione, ma che “non avevano dato risultati positivi”. Molteplici illazioni si sarebbero susseguite portando a un denominatore comune: quale che sia stata la causa effettuale della morte il regime putiniano ne è responsabile. Note sono le trattative compiute dalla strenua madre del defunto per ottenere il corpo del figlio. Ha dovuto cedere su un punto soltanto, l’ammissione della sua scomparsa per cause naturali, ma ha fermamente rifiutato le proposte governative di una sepoltura sommaria, privata o di cremazione in loco. La concessione del corpo e l’autorizzazione a funerali pubblici da parte di Putin, che marcano indiscutibilmente una sua debolezza, sono interpretabili anche sulla base del valore che l’archetipo madre ha nella cultura russa. Le sempre più frequenti ostentazioni di adesione e ossequio alla Chiesa ortodossa da parte del Presidente, che tanto ulteriore favore gli hanno procurato all’interno del Paese profondo, sarebbero state in contrasto, prima di tutto all’interno di quello stesso Paese, con un rifiuto-affronto a una donna che, novella Ecuba-Antigone, sfidava il mondo del potere ferma nella volontà di voler seppellire il proprio congiunto. E Ljudmila Naval’naja, a fianco del marito, composta nel dolore, è stata abbracciata e ringraziata all’uscita della chiesa in cui si erano svolte le esequie da parecchie persone che le hanno anche chiesto perdono a nome della Russia. Assenti, per ovvi motivi, moglie e figli del defunto.
Il funerale di Aleksej Naval’nyj rientra senza alcun dubbio nella serie di cerimonie funebri che hanno fatto storia. Se di “spettacolo” in questo caso si può parlare, la spettacolarità è stata costituita, senza copioni predeterminati né capi-popolo a guidare il corteo, dalle migliaia di persone che vi hanno preso parte. Sul modello di analoghe e altrettanto problematiche esequie sovietiche, un’immensa folla si è data istintivamente convegno, a dispetto della delicatezza del momento, del timore di repressioni e vendette, della scomodità politica del defunto, per unire all’omaggio a un uomo coraggioso la propria dichiarazione di disobbedienza al regime. Tornano alla mente gli estremi commiati “sovietici” a figure quali Boris Pasternak, Anna Achmatova, Vladimir Vysockij, Andrej Sacharov. Quando partecipare alle cerimonie voleva anche dire dimostrare valore civile, intenzione di costituirsi come assemblea e, soprattutto, assecondare la propria esigenza morale di non poter mancare, di non voler tacere ancora una volta. La categoria della protesta in Russia, pre-sovietica, sovietica e post-sovietica, si è raramente mostrata secondo modalità e pratiche familiari all’occidente. Significativo è che nei giorni precedenti i funerali non pochi cittadini, in diverse città del Paese, avessero già coraggiosamente manifestato portando fiori ai memoriali spontanei sorti per Naval’nyj, venendo in alcune occasioni fermati e arrestati, e, particolare che mi ha colpito, cantando. Non dimentichiamo che nella Russia della servitù della gleba il canto era l‘unico diritto che il servo vessato dal potere, secondo il principio dell’affettuosa sottomissione tanto cara agli slavofili, concedeva a sé stesso. Attraverso il canto delle proprie sofferenze “protestava” senza inveire e senza aggredire, semplicemente narrando in musica l’infelicità della propria esistenza.
Nel fatidico 1° marzo 2024 (il giorno precedente, in cui Putin aveva rivolto un discorso alle camere unificate, non si erano “trovati becchini disponibili per scavare la fossa”) si sarebbe andati molto oltre. Migliaia di persone si riversarono nell’anonima periferia sud di Mosca, colmando strade, marciapiedi e cortili adiacenti alla chiesa della Madre di Dio in cui si sarebbe svolta la cerimonia, visto che in tutta la città non era stata trovata una sala in cui allestire la camera ardente per permettere alle persone di rendere l’ultimo saluto al politico che era consapevolmente andato incontro alla morte.
Non entro nel merito della sua contestata decisione di tornare in Russia rischiando grosso, invece di condurre una più comoda e prestigiosa esistenza da leader-emigrante. Mi piace considerare, a questo proposito, come la partecipazione popolare sia stata più dedicata all’uomo temerario e coerente che al politico le cui idee primigenie per molti non erano state di facile condivisione. La gente ha trovato la forza di gridare slogan, importanti per la loro pubblica esternazione prima ancora che per i contenuti. Il nome e il cognome del morto sono stati scanditi a gran voce, ritmicamente. Il suo motto: “Non ho paura”, fatto proprio e condiviso. Poi, sempre in solidale coro, “La Russia sarà libera”, “Putin assassino”, “Non perdoneremo”, “No alla guerra!”, “Russia senza Putin”, “Siamo in tanti”. Espliciti e manifesti. Ricordiamo che glasnost’ (trasparenza) era stata una delle innovative parole chiave delle riforme gorbačёviane. Uscire allo scoperto e dare pubblicità al proprio dissenso era stata una pratica che aveva sempre fatto paura al potere. Ed è ancora così. Le dirette in streaming, pur spesso interrotte dalle schermature della rete internet appositamente procurate per disturbare, hanno portato in tutto il mondo le immagini di Mosca che si solleva e si risveglia. Anche le solitamente vituperate riprese con i cellulari si sono questa volta connotate come raccolta di preziose testimonianze di una pagina di storia che sarà difficile mistificare e riscrivere pro domo sua da parte di chi negli ultimi decenni non ha fatto altro. Gli stessi cellulari si sono poi accesi con le luci delle proprie torce a costituire ennesimi segnali di partecipazione e protesta anche luminosi. E, assieme alle immagini del flusso ininterrotto di persone che brandivano mazzi di garofani e rose come se fossero fiaccole o aste di bandiere, hanno fatto il giro del mondo.
Quegli stessi fiori sono stati poi lanciati, dai pochi che avevano guadagnato accesso al sagrato della chiesa, a costituire un tappeto su cui il furgone funebre avrebbe proceduto il suo percorso verso il cimitero. La funzione, opportunamente riservata a pochi familiari e intimi, era stata accelerata nei suoi tempi su esplicita richiesta delle autorità. Come per voler abbreviare il più possibile quella cerimonia che non si era potuta evitare. Interpreto, forse troppo liberamente, la scelta di una celebrazione religiosa come ulteriore presa di distanza dalle posizioni putiniane: esiste ancora una chiesa ortodossa non connivente, non schierata per convenienza, lontana dal culto della morte promosso dai sermoni di Kirill e dai ridondanti segni della croce di Vladimir Vladimirovič.
I commossi commentatori del canale YouTube Aleksej Naval’nyj fornivano in diretta aggiornamenti sullo stato delle cose: aperture delle stazioni metro, tranquillità della situazione, inviti a non restare a casa, istruzioni su come raggiungere il cimitero. Per ovvi motivi, giorno feriale e orario di lavoro, la maggioranza dei partecipanti erano persone di una certa età. Resta l’immancabile obiezione degli irriducibili relativa ai numeri. Alcune, pur parecchie, migliaia di persone rispetto ai 13.000.000 di abitanti di Mosca possono sembrare poche, ma è necessario ribadirne la valenza. Non dimentichiamo i soli sette che nel fatidico agosto 1968 avevano ipotecato le proprie vite, dimostrando in piena Piazza Rossa, per condannare l’invasione sovietica a Praga. Anche allora lo spirito dell’iniziativa era stato: “non avevamo potuto fare altrimenti”. Contro ogni razionalità, contro ogni precauzione. Non tutti nascono coraggiosi, tanto meno eroi. E di eroi ed eroismo sarebbe auspicabile che non ci fosse più bisogno. I moscoviti che hanno rotto il cerchio magico di un decennio di silenziosa accettazione (era dalle manifestazioni in piazza Bolotnaja degli anni 2011-2013 che non si vedeva tanta gente in piazza) hanno segnato il rinnovo della speranza, del coraggio civile, del senso di responsabilità etico, nel nome di una figura, discutibile quanto si vuole, ma emblema oggi di coerenza e audacia. È stato sepolto al suono di un’orchestrina di volontari che aveva intonato My way di Sinatra e la colonna sonora di Terminator 2, il film preferito del defunto. Un po’ emblema di quella Russia ideale, difficile da immaginarsi, che Naval’nyj aveva vagheggiato. La bara fu chiusa al momento dell’interramento, secondo la tradizione russa, e calata nella fossa tappezzata, sempre rispettando la tradizione, con rami di abete. La folla, all’esterno della necropoli, scandiva: “fateci entrare”. I cancelli sarebbero stati chiusi, rispettando gli orari di funzionamento del cimitero, alle 17, pochi minuti dopo il termine della sepoltura. Pochissimi gli arresti, nessun disordine. Encomiabile l’auto disciplina della folla, attenta a rispettare le richieste, formulate con formale cortesia ai megafoni, dalle moltissime forze dell’ordine dispiegate su tutto il territorio. Il flusso di gente è continuato nei giorni successivi e la tomba di Aleksej è oggi stracolma di fiori.
Concludo con un doppio auspicio: che lo stimolo infuso alle persone da un funerale come questo non si esaurisca, ma sparga il contagio a non rinunciare al coraggio e, in parallelo, che le voci pesantemente nazionalistiche destroidi non approfittino di questa epopea per rialzare la testa.
In copertina, la tomba di Naval’nyj inondata di fiori.