CCCP a Berlino: 40 anni dopo
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Aspetto un’emozione sempre più indefinibile
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Aspetto un’emozione sempre più indefinibile
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In-de-fi-ni-bi-le
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In-de-fi-ni-bi-le
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CCCP, Emilia paranoica, Italia 1986
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Cambiamenti esigono i nostri cuori,
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Cambiamenti esigono i nostri occhi
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Nel nostro riso, e nelle nostre lacrime, e nelle pulsazioni delle vene
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Cambiamenti, aspettiamo cambiamenti
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Kino (Viktor Tsoj), Voglio cambiamenti, URSS 1987.
Inevitabile è cominciare dalle sigle: questo concerto ci è immerso fino al collo. Tralascio, per ovvi motivi, la storia dei CCCP trasformatisi in CSI. È di dominio più che pubblico. Oggi (24, 25, 26 febbraio 2024) il gruppo è tornato a suonare a Berlino, dopo quarant’anni, come CCCP con l’aggiunta di un nuovo acronimo: DDDR.
La D extra nella sigla della ex Deutsche Demokratische Republik (DDR) sta per dismantled (smantellata), verbo che fa pensare all’operazione compiuta con il più eclatante (e forse ingombrante) simbolo della Germania Est che Berlino avesse conosciuto, il Palast der Republik (Palazzo della Repubblica), edificato tra il 1973 e il 1976 e demolito, ufficialmente per l’alta percentuale di amianto che conteneva, tra il 2006 e il 2008. In realtà non abbattuto ma smantellato, appunto, come se, in una visione fantapolitica, un giorno potesse essere rimontato in stile lego recuperando i pezzi bonificati e accuratamente affastellati in attesa, chissà, di risorgere in un qualche parco a tema della sedicente memoria. Più difficile è immaginare che venga ricostituita la RDT (Repubblica Democratica Tedesca), per dirla all’italiana, quella più frettolosamente cancellata che smantellata, quella la cui iconografia fa da sfondo alle scritte nella locandina in questione. Si manifesta attraverso lo stilizzato drappello di soldati con l’inconfondibile elmetto sagomato che di fronte alla Neue Wache di Berlino Est cambiavano la guardia col loro passo dell’oca per la gioia di turisti e visitatori. Immaginario visivo del socialismo reale tanto presente nella storia del gruppo, nelle loro canzoni e oggi, forse un po’ appannato e meno convinto, protagonista nel loro ritorno. Ritorno a Berlino Est, almeno territorialmente, se non geo-politicamente. Dopo Punkow (Pankow), dopo gli anni (Ottanta) di Kreuzberg, il quartiere “turco” più “alternativo” e vivace di Berlino Ovest ai tempi del Muro, oggi arrivano a suonare al Raw Gelände a ridosso del Warschauer Brücke, in pieno Est, a Friedrichshain, quartiere in odore di gentrificazione (la Torre di Amazon già svetta con i suoi 35 piani sul vistoso centro commerciale East Side) che mantiene, proprio sul territorio di un ex scalo ferroviario, una discreta aura di ruspante autenticità punk-proletaria. RAW, ennesima sigla, sta per Reichsbahnausbesserungswerk, una delle terribili parole composte tedesche: officina di riparazioni delle ferrovie del Reich. Fu operativa dal 1867, sopravvisse, pur con distruzioni, a due guerre mondiali. Il 31 ottobre 1991 ne fu annunciata la chiusura graduale, che durò fino al 1995, a causa della sua “alta capacità di riparazione e manutenzione nella Germania riunificata”. La prima presenza di artisti sul territorio risale al 1999. Il sito RAW è l’ultimo grande territorio industriale semi-abbandonato a Friedrichshain. Oggi la maggior parte dell’area è dedicata a strutture culturali e sportive, sale da concerto, studi e gallerie, club, punti di ristoro. Non manca un mercato delle pulci e persino un mercatino natalizio (ovviamente un sacco alternativo). Molti degli edifici sono sotto la protezione delle belle arti, compreso il famoso “cono da arrampicata”, uno dei 200 ex bunker costruiti in Germania tra le due guerre mondiali.
Lo spaccio di droga che fa da contorno alle nottate della movida berlinese ha creato non pochi problemi, le molte petizioni da parte dei residenti che chiedono la bonifica dell’area e l’appetibilità della zona da parte degli speculatori costituiscono una continua minaccia alla sopravvivenza dello spazio, ma il nuovo proprietario, la società immobiliare Göttingen Kurth, pare aver dichiarato di non voler cambiare nulla dell’orientamento fondamentale del luogo. Proprio al club Astra Kulturhaus che opera su questo territorio hanno deciso di suonare i CCCP. In quel pezzo di DDR smantellata ma non del tutto distrutta che, con diverse fortune, ancora trova cose da dire nel panorama delle sempre più omologate notti berlinesi.
Come è noto i biglietti per i due concerti previsti a Berlino si bruciarono nel giro di pochi minuti. Fu aggiunta una terza data, quella del 24 febbraio, a sua volta andata esaurita in pochi click di computer. Il ragazzo della cassa teatrale berlinese a cui si ritiravano i biglietti era stupito e curioso: chi è questo gruppo che ha scatenato tutti gli italiani di Berlino? E non solo quelli, gli avremmo spiegato, in tantissimi giungeranno appositamente dall’Italia. I CCCP sono arrivati a Berlino sostenuti dall’aura di successo della grande mostra di Reggio Emilia, freschi dall’aver annunciato un nuovo tour italiano, attesi e scortati da un pubblico di irriducibili ammiratori, stigmatizzati da alcuni ostinati censori (ancora portano il nome di un regime crudele), sfiorati dall’ostentata indifferenza degli immancabili “superiori a tutto” (non li ho mai considerati, era tutta una posa), sfidati dai delusi per l’imperdonabile “tradimento ideologico” di Ferretti. Cosa aspettarsi dal concerto berlinese? Un bis del Gran Galà Punkettone tenutosi al Valli di Reggio Emilia l’ottobre scorso? Qualcosa di assolutamente nuovo? E quale sarà l’atteggiamento 2024 nei confronti delle varie sigle che li contraddistinguono e della Storia che in questi quarant’anni ha fatto il suo corso?
La mia non è una recensione musicale, non ne ho le competenze. È, invece, la narrazione di una serata berlinese vissuta insieme a un’immensa folla mossa da un denominatore comune. Apparentemente la nostalgia, forse addirittura la Ostalgie di chi rimpiange DDR e URSS (CCCP), più realmente la volontà di ritrovarsi e fare i conti. Con sé stessi, con il proprio passato e, sempre in prima linea, con la Storia. Al suono di una banda che ancora mette in scena provocazione, ironia, intelligenza.
Riprendo la tastiera la mattina successiva al primo concerto. Le aspettative e le ipotesi sono state parzialmente smentite: nessuna concessione da parte della band a facili atteggiamenti nostalgici o strizzatine d’occhio al più scontato. Caso mai qualche traccia di passatismo è da cercarsi in alcune reazioni del pubblico. Pubblico molto meno anziano del previsto: dai trenta ai sessantenni, con sprazzi di vent’anni e addirittura alcuni bambini. Una lunghissima coda in cerca di biglietti si era formata già nel pomeriggio ed è continuata per l’ingresso fino a sera.
Il benvenuto in DDR, nella ex casa della cultura Astra, è stato dato da una serie di lampadari “smantellati” (anche loro) proprio da quel Palazzo della Repubblica a cui si accennava in precedenza.
Con una quindicina di minuti di ritardo sull’orario indicato un tonante boato ha accolto l’ingresso dei CCCP sul palco, arricchiti nell’organico da un violinista, un bassista e alcuni percussionisti. Si sono succeduti i pezzi più storici e attesi, ripresi coralmente da tutto il pubblico in un’alternanza di momenti lirici e crescendo emotivo-frenetici. L’urlato: “Produci, consuma, crepa” e poi il trascinante Oh, battagliero (da pelle d’oca) fino al raccolto e profondo Libera me Domine. Ferretti, subito “perdonato”, non si è risparmiato e ha offerto soltanto conferme. Zamboni, sempre più Petja Trofimov nel čechoviano Giardino dei ciliegi, ha dato il benvenuto in impeccabile tedesco e ha suonato facendo dimenticare che fossero passati quarant’anni. I linguaggi paralleli, non descrittivi ma performativi, di Fatur e Annarella si sono intrecciati con la musica e i testi. Il primo ha continuato a far dialogare con la consueta surreale disinvoltura il proprio corpo, mutato e considerevolmente accresciuto, con i dispositivi e gli attrezzi di sua creazione che maneggia e a cui infonde vita. Alla destrezza un po’ grottesca e modulata dei suoi tempi classici si è aggiunta una forte carica di (auto)ironia. Panza debordante compresa. La sempiterna eleganza della Soubrette Emerita si è manifestata e confermata nei suoi passaggi, andature marziali o eteree, a proscenio, nei frequenti cambi d’abito-costumi che parlavano di atmosfere, espressioni, idee-ideologie. Grandiosi i suoi passi di danza, in nero con cappellino d’antan, con Ferretti sul fondo del palcoscenico, immersi nella nebbia.
All’improvviso appare l’annunciato (e paventato) Andrea Scanzi. Bordate di fischi ininterrotti costellano il suo breve e incomprensibile (tra musica e urla dalla platea) monologo. Con ammirevole aplomb portato fino in fondo nonostante l’evidente non gradimento da parte del pubblico. Ferretti commenta recitando: “quanta voglia di poter odiare qualcuno perché ti sta sui coglioni, e lui sta qua, perché vi sta sui coglioni… non sono come tu mi vuoi, non sono come tu mi vuoi”. E mostra il dito medio.
Come per fare ammenda, subito dopo la fugace non apprezzata comparsata del giornalista, parte Emilia paranoica e la sala impazzisce. E c’è stato di che. Poi tocca a Fatur abbandonare le sue deambulazioni per recitare un monologo, interrotto da un black out elettrico. Ferretti, nel commiato finale, avrebbe commentato più o meno così: “la nostra tensione per il ritorno a Berlino era tale che anche la luce se ne è accorta ed è andata via”. Situazione più o meno prontamente risolta ed è arrivato il momento di Islam Punk e, tra gli altri, l’emozionante passaggio da Bang Bang a Spara Jurij. Si poga, si poga. Personalmente non ho apprezzato l’inserimento in Radio Kabul della citazione russofila al Donbass, ma non può e non deve esserci adesione totale. Dulcissimus in fundo una sublime versione acustica di Annarella, con tutte le storie che si porta dentro, eseguita da Zamboni. Amandoti chiude la serata cantata assieme a tutti, schierati e commossi. Ringraziamenti finali letti da Annarella, Zamboni che canta ancora Kebab Träume, cover dei D.A.F. (Deutsch Amerikanische Freundschaft), gruppo anni Settanta, commenti di Ferretti che esprime gratitudine al pubblico per aver cantato con loro e anche per i fischi. La cellula è ancora viva. Si replica a Berlino domenica 25 e lunedì 26.
In copertina, La silhouette di Annarella con Zamboni sullo sfondo (foto mia).