Pop Lenin 100 anni dopo
La morte clinica di Vladimir Il’ič Uljanov (Lenin) sopravvenne il 21 gennaio 1924. La sua morte politica, in termini di assenza dalle scene, risale però agli anni precedenti, quando una serie di ictus lo aveva immobilizzato su una sedia a rotelle compromettendo le sue facoltà mentali. Una foto, che avrebbe circolato nel Paese dopo il crollo dell’URSS, lo ritrae ammalato e smagrito già nel 1923.
Un palazzotto di Gorki, sobborgo di Mosca, espropriato dopo la Rivoluzione, divenne la sua residenza da dove continuò a tenersi informato sull’operato del Politbjuro, in particolare attraverso Stalin che lo visitava regolarmente. La propaganda nel 1921 lo mostrava ancora attivo nella lettura del giornale. Nel dicembre 1922 subì un secondo ictus, che segnò la fine della sua carriera politica e gli paralizzò il fianco destro. Nel marzo del 1923 un terzo ictus lo privò definitivamente della parola.
I suoi funerali, il 27 gennaio 1924, furono un capolavoro di organizzazione e strategia politico-diplomatica. L’ansia e la disperazione causate dalla prematura perdita di un leader carismatico, quando il giovane Stato ancora ne avrebbe avuto un grande bisogno, furono strenuamente affrontate e trasformate in politica performativa. Partì l’operazione mediatica che trasformò la scomparsa del capo in un’occasione che stimolava a raccoglierne l’eredità e a lottare con forze sempre crescenti per vederla realizzata. Ho ampiamente trattato altrove la cronaca e l’analisi di quei giorni e rimando a quei testi per chi volesse approfondire. Vladimir Majakovskij, dalle pagine della rivista LEF, si scagliò contro l’iniziativa promossa su giornali e riviste che reclamizzava la vendita di busti di Lenin disponibili in diverse dimensioni per chi li volesse tenere in casa. “Non fate commercio di Lenin!” tuonava il poeta, novello Cristo tra i mercanti nel tempio, ma non fu ascoltato. La riproduzione di immagini e simulacri leniniani proliferò, a dispetto anche della volontà della moglie, Nadežda Krupskaja, e la ragione di Stato assieme alla necessità di contrastare l’angoscia causata dalla scomparsa, vinsero sul desiderio di sobrietà e privacy che erano stati caratteristici di Lenin e del primigenio bolscevismo.
Si diffusero ritratti, statue, oggetti di ogni genere che riproponevano l’immagine e l’ideologia del leader pur contrastando con i suoi principi estetici ed etici. Ritratti in stile da stampa popolare, con infiorettature e colori sgargianti, presero piede e vennero inseriti in quello che, sul modello dell’antico angolo delle icone sacre, era diventato, nelle case sovietiche, l’“angoletto leniniano”.
Anche i bambini furono coinvolti in questa operazione e il mito di “nonno Lenin” proliferò assieme a giochi ispirati alla figura del leader scomparso (compreso il gioco al “funerale di Lenin”) e a una serie di narrazioni e trastulli divulgati dalle riviste per l’infanzia.
Nel corso dei decenni successivi la costruzione del mito proseguì senza mai arrestarsi. L’iconografia leniniana conobbe molte fasi, fu raccolta da Stalin per legittimare la propria ascesa al potere, temporaneamente dallo stesso accantonata a metà degli anni Trenta per essere ripescata alle soglie della Seconda guerra mondiale (Grande guerra patriottica per i russi), quando a Stalin fu necessario il supporto ideale di grandi figure del passato, Lenin compreso, per affrontare la problematica situazione. Lenin venne classicamente rappresentato nella sua più specifica posa: in piedi, con il cappotto mosso dal vento, nell’atto di arringare una folla con il braccio proteso a indicare il cammino. L’origine di questo gesto è stata identificata nell’icona della Vergine detta Odigitria, quella in cui regge con un braccio il bambino, senza contatto fisico tra le guance (icona della tenerezza), e tiene l’altra mano protesa in avanti a benedire.
Molti furono i sottotesti religiosi utilizzati nella costruzione dell’immortalità leniniana e del suo culto, fino alla cristologica differenziazione tra la sua natura umana (Lenin) e quella spirituale-ideologica (Il’ič) contando su una più facile acquisizione da parte delle masse abituate alla non ancora vinta tradizione religiosa.
Gli anni Settanta del XX secolo portarono a un progressivo disamoramento, soprattutto tra i giovani sovietici, nei confronti del regime e dell’ideologia. Ne percepivano l’obsoleta natura, l’incartapecorita estetica, il burocratismo dilagante. In quel momento fiorì una forma d’arte detta sots-art (sots stava per socialističeskij – socialista in russo- mentre art rimandava all’America, all’estero, al mondo altro). Il procedimento di analisi che avrebbe portato a nuove forme estetiche (fino agli anni Duemila successivi al crollo dell’URSS), non ne avrebbe create di nuove, ma avrebbe sfruttato quelle già pronte nel mondo così com’era. Prime vittime di questa operazione sarebbero stati quegli “oggetti” grafici e verbali che in mancanza di altri reali e concreti avevano colmato la vita, i pensieri, la spiritualità dei cittadini sovietici per tanti decenni. Alla pop art americana, giocata sulla moltiplicazione e storicizzazione di cose materiali e luoghi comuni (i barattoli di minestra di Andy Wharol o le sue immagini di Marylin Monroe) i concettualisti sovietici avrebbero risposto operando analogamente sugli unici “oggetti” di cui la cultura sovietica fosse sovrabbondante: la retorica, gli slogan, le immagini di propaganda. Lenin, ovviamente, non fu tralasciato. Molti quadri, soprattutto di Komar e Melamid, di Kosolapov, di Bulatov lo ritrassero in atteggiamenti inediti e provocatori.
La consueta statua leniniana con la mano protesa in avanti venne risemantizzata e inserita in un contesto del tutto nuovo, dove a dialogare con il pluridecennale peso del mito compare l’altrettanto discutibile mito americano di McDonald’s.
Nel caso di Kosolapov, che abbina Lenin e la Coca Cola, si delinea più chiaramente un altro procedimento: la progressiva trasformazione del mito leniniano in icona e brand. Non solo irrisione, dunque, nelle scelte estetiche di questi artisti, ma riconoscimento dell’acquisizione da parte della storica figura di un nuovo status, gradito o meno ai suoi seguaci e sostenitori, ma innegabile. Lenin era diventato icona pop.
Negli anni successivi Kosolapov si spinse ancora oltre arrivando ad accostare tre “icone” di portata molto diversa tra loro, ma tutte responsabili di ideologie, atteggiamenti comportamentali, fedi, devozioni, passioni, odio e molto altro ancora, colte mentre stanno entrando in un bar, in un gesto molto quotidiano, decostruttivo e desacralizzante allo stesso tempo.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica si scatenò la mania dei gadget, privi di portata artistica o ideologica di sorta e puramente finalizzati al commercio. Lenin candela, Lenin custodia del cellulare, Lenin mouse pad, Lenin accendino ecc. Subendo la sorte comune a molti altri personaggi pubblici, politici o meno. Il culto procedeva e si articolava in nuove diramazioni.
La pubblicità non restò certo indifferente all’immagine del leader e se ne appropriò prontamente. Una campagna polacca per un operatore telefonico dovette fare marcia indietro visto la scarso gradimento del pubblico per il personaggio prescelto. Il Museo del comunismo di Praga ricorse a sua volta a un’immagine non convenzionale di Lenin (in sauna mentre si percuote con i tradizionali rami fronzuti) e molti altri casi ancora lo immortalarono in versione di sponsor suo malgrado.
Cito, tra le molte, un’installazione del 1998 di Jurij Šabel’nikov e Jurij Fesenko, realizzata per una galleria moscovita: la torta Lenin morto. Una gigantesca torta raffigurante la mummia leniniana conservata nel Mausoleo fu fatta a fette e distribuita tra i visitatori che ebbero l’opportunità di “divorare Lenin”, con tutte le implicazioni subliminali che quel gesto poteva racchiudere.
In parallelo presero a circolare impietose immagini del cadavere, o di ciò che restava della mummia di Lenin, nudo durante uno dei bagni che ne dovevano preservare l’integrità. Il popolo russo e mondiale poté vedere ciò che si nascondeva dietro l’apparenza impeccabile della salma composta nella semi oscurità del Mausoleo.
Nel Mausoleo si trova oggi solo una parte dei resti di Lenin, circa il 20%: testa, braccia e collo. Le gambe e parte del busto del leader sono state rimosse al fine di prevenire processi di decomposizione irreversibili. Tuttavia, sono stati anche conservati come biomateriale con l’aiuto del quale si possono ripristinare i frammenti di pelle perduti. I materiali biologici vengono ogni anno sempre più sostituiti da elementi artificiali, mentre la forma esterna del corpo rimane invariata. Procedimento non dissimile da quello applicato a tante realtà a noi più vicine, papi e santi in prima istanza.
Più prorompente che mai viene riposta la questione della sepoltura definitiva di quei resti. Il costo del mantenimento è altissimo e da parte di molti, Chiesa ortodossa in testa, si chiede a gran voce l’eliminazione del problematico reperto. Gli anni successivi allo smantellamento dell’impero sovietico hanno portato a molti esempi di iconoclastia anche nei confronti dei simulacri leniniani. Mirco Carrattieri e Antonella Salomoni parlano di Leninopad (stagione della caduta di Lenin) nell’Ucraina del 1991 e dei successivi anni di rivoluzione.
Oggi assistiamo, nella Russia putiniana, a un caso che definirei di iconofobia, la paura che un simulacro può causare. Da alcuni anni, in occasione delle parate sulla piazza Rossa, il Mausoleo viene dissimulato con una struttura che lo copre quasi interamente. Come se decenni di memoria collettiva e iconografia condivisa non avessero lasciato ben chiara nelle menti l’immagine e il ruolo che ha ricoperto per decenni. Il Mausoleo e il suo contenuto creano oggi imbarazzo e disagio. Putin è arrivato ad attribuire a Lenin e al suo operato la responsabilità della sedicente “operazione militare speciale” (guerra) in Ucraina e da anni privilegia, nella sua mistificante rilettura della storia, l’immagine e il ruolo di Stalin rispetto a quelli del leader bolscevico. Dunque, Lenin fa ancora paura e nemmeno l’ardito Presidente russo si è finora preso la responsabilità dei rimuoverne i resti del cadavere dalla sua postazione. Non resta che concludere, con un pizzico di retorica a dispetto dell’oblio e delle demonizzazioni, con Majakovskij che aveva scritto, tra i molti versi dedicati al capo del bolscevismo: “Lenin ha vissuto, Lenin vive, Lenin vivrà”. La storia non si ferma e scriverà nuove pagine.