Thomas Piketty, un amaro american dream

26 Maggio 2014

Sono pas­sati due mesi dalla pub­bli­ca­zione dell’edizione inglese del Capi­tale nel XXI secolo e in Ame­rica il trat­tato eco­no­mico di Tho­mas Piketty (696 pagine) può con­si­de­rarsi senza dub­bio il feno­meno edi­to­riale e poli­tico dell’anno. Il volume — dall’intenzionale asso­nanza col Kapi­tal di Marx — è volato in testa alle clas­si­fi­che delle ven­dite e da set­ti­mane viene dato «tem­po­ra­nea­mente esau­rito» da Ama­zon, nelle libre­rie non ce n’è trac­cia e nelle biblio­te­che pub­bli­che figura «in ordinazione».

 

Il lavoro è stato accla­mato da eco­no­mi­sti illu­stri come Paul Krug­man, il quale ha dichia­rato che l’opera dell’economista fran­cese già con­si­gliere di Sego­lène Royale, rap­pre­senta una ricerca di por­tata «epo­cale». Il New York Times lo ha affian­cato a Susan Son­tag e ad Allan Bloom e lo ha defi­nito un «feno­meno raro»: un auto­re­vole trat­tato acca­de­mico capace di inqua­drare la macro­ten­denza di un’era e, allo stesso tempo, di cat­tu­rare l’ineffabile ten­denza del momento cul­tu­rale. Piketty ha preso resi­denza nel cir­cuito ame­ri­cano dei talk show, facendo spola fissa fra inter­vi­ste, inviti a con­ve­gni e rice­vi­menti con premi nobel. Nel com­plesso, una riso­nanza che l’edizione ori­gi­nale fran­cese certo non aveva avuto.

 

   

 

In parte, si tratta del risul­tato di un sin­go­lare tem­pi­smo. L’edizione ame­ri­cana è stata pub­bli­cata dalla Har­vard Press, poche set­ti­mane dopo il discorso nel quale — a dicem­bre — Obama aveva indi­cato la dise­gua­glianza come la sfida fon­da­men­tale del nostro tempo («the defi­ning chal­lenge of our time»). Durante quell’intervento, in un com­mu­nity cen­ter di Ana­co­stia, uno dei quar­tieri più poveri di Washing­ton, il pre­si­dente aveva dichia­rato che «il patto fon­da­men­tale alla base della nostra società si è eroso. L’effetto com­bi­nato di una cre­scente dise­gua­glianza e una dimi­nuita mobi­lità costi­tui­sce una grave minac­cia per il sogno ame­ri­cano, il nostro stile di vita e gli stessi valori che rap­pre­sen­tiamo nel mondo».

 

Benessere d'élite

 

Obama è poi tor­nato sull’argomento nello State of the Union e la divi­sione sem­pre mag­giore fra i pochi ric­chis­simi e il resto della popo­la­zione è diven­tata una tema­tica cen­trale e ricor­rente dei suoi discorsi, in ultimo — senza appa­rente iro­nia — del fun­drai­ser tenuto la set­ti­mana scorsa nella villa hol­ly­woo­diana dell’amministratore dele­gato dei Walt Disney Stu­dios, Alan Horn, al cospetto di Bar­bra Strei­sand e Ste­ven Spiel­berg (costo dei biglietti, dai 32mila dol­lari ai 64mila).

 

La tesi cen­trale di Piketty, sup­por­tata da una mole enorme di dati empi­rici, sostiene che il con­cen­tra­mento del capi­tale in poche mani sia la dina­mica sto­rica e natu­rale del capi­ta­li­smo stesso. Si tratta di uno stu­dio scien­ti­fico, il più esau­stivo finora intra­preso, sulla dise­gua­glianza sin­go­lar­mente adatto a un momento in cui que­sta sta emer­gendo (negli inter­venti di Obama ma anche, ad esem­pio, in quelli di papa Fran­ce­sco) come feno­meno social­mente dele­te­rio. Piketty ha sot­to­li­neato, inol­tre, la forza poli­ti­ca­mente desta­bi­liz­zante del disli­vello eco­no­mico, dichia­rando che «in Usa il diva­rio sta pro­du­cendo un con­cen­tra­mento del benes­sere simile a quello che pre­valse in Europa attorno al 1900-10.

 

La sto­ria sug­ge­ri­sce che que­sti livelli di dise­gua­glianza non solo siano inu­tili per incen­ti­vare la cre­scita, ma pos­sono por­tare all’esproprio del pro­cesso poli­tico da parte di una minu­scola élite con red­diti e patri­moni fuori misura. Ciò può costi­tuire un peri­colo con­creto per i valori e le isti­tu­zioni demo­cra­ti­che» Le sue con­clu­sioni si basano su dati dati rela­tivi a un periodo di tre­cento anni, dal 1700 ad oggi, un «data mining» di cui Marx non dispo­neva: Piketty stima un ritorno medio sugli inve­sti­menti del 4–5% l’anno, mag­giore rispetto alla cre­scita «reale», con l’effetto di una costante con­cen­tra­zione di ric­chezza nelle mani di chi ce l’ha già. Una con­sta­ta­zione che, nell’Europa della seco­lare ege­mo­nia della bor­ghe­sia mer­can­tile, potrebbe sem­brare la sco­perta dell’acqua calda.

 

 

Per­ché allora tanto rumore in Ame­rica? Intanto per­ché senza il bene­fi­cio degli ammor­tiz­za­tori sociali delle social­de­mo­cra­zie euro­pee — con gli home­less ammas­sati sui mar­cia­piedi vicini ai grat­ta­cieli in cui i mana­ger incas­sano asse­gni che nel 2000 erano giunti a valere fino a cin­que­cento volte quelli dei pro­pri dipen­denti — la tesi ha un’immediatezza empi­rica mag­giore che altrove. Soprat­tutto, la «teo­ria uni­fi­cata del capi­tale», pro­po­sta da Piketty, giunge in un momento di ine­dita crisi «iden­ti­ta­ria» riguardo alcuni pre­cetti fon­da­men­tali dell’«esperimento ame­ri­cano», fon­dato in gran parte sul rifiuto delle rigide gerar­chie eco­no­mi­che del vec­chio continente.

 

«L’innovazione ame­ri­cana» pre­sup­pone la mobi­lità eco­no­mica e sociale, ossia la pos­si­bi­lità di emer­gere e gua­da­gnare in base alle pro­prie abi­lità. Come ha scritto Paul Krug­man, «la vera novità di Capi­tal in the 21st Cen­tury, è il modo in cui demo­li­sce quel mito così caro ai con­ser­va­tori, (quello di) una meri­to­cra­zia in cui le grandi ric­chezze sono gua­da­gnate e meri­tate». Qual­cuno ha scritto che Piketty è un caso per­ché costringe gli ame­ri­cani ad ammet­tere che la loro rivo­lu­zione è fal­lita. Di certo la crisi ha indotto una spe­cie di psi­cosi del sor­passo, scan­dita da incal­zanti clas­si­fi­che nega­tive: il sor­passo cinese, la fine del pri­mato geo­po­li­tico, il declas­sa­mento della middle class da più ricca al mondo a seconda, die­tro la con­tro­parte cana­dese…

 

Quest’ultima sta­ti­stica, annun­ciata da uno stu­dio Pew, è signi­fi­ca­tiva. Nella mito­po­ie­tica Usa, la classe media non è la bor­ghe­sia bensì la wor­king class assurta a un benes­sere «con­su­mi­sta» attra­verso i frutti del pro­prio sudore ed è que­sto ceto ora – quello emerso nel dopo­guerra dalle fab­bri­che della Gm, dagli sta­bi­li­menti Coca Cola e negli uffici della Ibm — a mag­gior rischio di inghiot­ti­mento da parte della vora­gine che si è spa­lan­cata fra i super ric­chi e i «wor­king poor», la massa post-lumpen che, anche lavo­rando a livelli record di «pro­dut­ti­vità» non rie­sce a tenere il passo.

 

Dopo i grandi monopoli

 

Piketty esprime «scien­ti­fi­ca­mente» que­sta dif­fusa sen­sa­zione e lo fa soste­nendo che la grande espan­sione della middle class nella società del benes­sere pro­dotta nel dopo­guerra non sia stata tanto espres­sione di ope­ro­sità vir­tuosa e pro­te­stante etica del lavoro, ma un’anomalia tem­po­ra­nea, dovuta a cir­co­stanze veri­fi­ca­tesi all’inizio del ven­te­simo secolo (e ai mec­ca­ni­smi sociali pre­di­spo­sti in seguito alle guerre e la Grande Depres­sione). L’attuale con­tin­genza sarebbe dun­que un ritorno alla norma macroe­co­no­mica e alle dina­mi­che che prima dei sus­sulti moderni e del New Deal ave­vano pro­dotto le oli­gar­chie della «Belle Epoque».

 

In Ame­rica, i decenni dal 1870–1914 sono noti come Gil­ded Age un’«età dell’oro» in cui i metalli pre­ziosi, e vasti patri­moni in gene­rale, erano con­cen­trati nelle mani di poche fami­glie pro­to­ca­pi­ta­li­ste: i Rock­fel­ler, Van­der­bilt, Astor, Sch­wab, JP Mor­gan e gli altri «rob­ber baron» fau­tori dei mono­poli capi­ta­li­sti di ini­zio secolo fon­dati sullo sfrut­ta­mento delle risorse e del lavoro. Nell’analisi di Piketty si pro­fila oggi un ritorno ai disli­velli cal­ci­fi­cati di quell’epoca.

 

 

Si tratta di un vero e pro­prio ana­tema con­tro il van­gelo della ric­chezza «self-made» e spiega la rea­zione dei libe­ri­sti di area con­ser­va­trice che si sono sca­gliati com­patti con­tro Piketty. David Brooks ha defi­nito il suo libro un capric­cio della bor­ghe­sia intel­let­tuale moti­vato dalla gelo­sia verso le élite cui aspira. Il Wall Street Jour­nal ha deplo­rato «l’ostilità medie­vale verso gli inve­sti­menti di capi­tali». Il Finan­cial Times ha bol­lato il feno­meno come una moda sta­gio­nale dei salotti buoni di Man­hat­tan e dei cock­tail party, dove per fare buona figura è obbli­ga­to­rio snoc­cio­lare l’occasionale cita­zione, pur non avendo letto il libro. Gli scritti anti-Piketty sono ormai quasi un sot­to­ge­nere a se stante del gior­na­li­smo con­ser­va­tore: New Repu­blic, Natio­nal review, For­bes, hanno un desk fisso dedi­cato al rifiuto delle sue tesi e meto­do­lo­gie a cui repli­cano col man­tra della cre­scita illi­mi­tata e della mol­ti­pli­ca­zione dei mercati.

 

Ma si tratta di una bat­ta­glia di retro­guar­dia: la dise­gua­glianza è di fatto assurta a oggetto cen­trale del dibat­tito poli­tico. Nella con­tra­zione glo­bale, la for­bice sociale sem­pre più diva­ri­cata si è andata impo­nendo come para­digma pre­do­mi­nante di un sistema eco­no­mico incep­pato. Lo stesso crac dei sub­prime all’origine della crisi, coi suoi pac­chetti di mutui ven­duti ai poveri e rici­clati dalla finanza degli hedge fund è emble­ma­tico di un sistema eco­no­mico dispe­ra­ta­mente dise­qui­li­brato. Uno stu­dio di Five­Thir­tyEight, il «datalab»demoscopico di Nate Sil­ver rile­vava, qual­che giorno fa, come le men­zioni del ter­mine «ine­qua­lity» sul canale Msnbc siano pas­sate da 14 volte dell’intero 2008 alle 647 nei soli primi quat­tro mesi del 2014, e un simile aumento si è regi­strato anche nei pro­grammi all-news della Fox News.

 

Antagonisti «inglobati»

 

La «nuova ini­quità» è, insomma, una ine­lut­ta­bile realtà. Nel fare della dise­gua­glianza un tema pro­gram­ma­tico cen­trale della sua policy, Obama ha in parte coop­tato l’argomento che era stato la base della cri­tica di Occupy. Il movi­mento anta­go­ni­sta è stato rias­sor­bito, ma la dia­let­tica del 99% e dell’1% è entrata a far parte del les­sico eco­no­mico e poli­tico main­stream ed eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti del cali­bro di Krug­man e Robert Reich arti­co­lano la loro cri­tica pro­prio in base al peri­co­loso dise­qui­li­brio interno dei capi­ta­li­smi maturi occidentali.

 

È un tema che pro­mette di domi­nare le pros­sime ele­zioni mid­term di novem­bre sia per le ini­zia­tive di Obama sull’aumento del minimo sin­da­cale e la parità dei salari, sia per il cre­scente numero di poli­tici demo­cra­tici che hanno fatto della dise­gua­glianza un cavallo di bat­ta­glia elet­to­rale. Espo­nenti emer­genti come Elisabeth Warren (che prima di diven­tare sena­trice demo­cra­tica aveva pre­sie­duto l’authority sulle pra­ti­che ban­ca­rie e per la pro­te­zione dei con­su­ma­tori) deve la sua popo­la­rità all’ampio spa­zio che ha dedi­cato all’argomento. Fatto sta che anche i repub­bli­cani, dopo aver accu­sato i demo­cra­tici di «fomen­tare la guerra di classe» sono stati costretti ad affron­tare il pro­blema.

 

Paul Rayan

Paul Rayan

 

Nel Gro­wth and Oppor­tu­nity Pro­ject, il pro­gramma del comi­tato cen­trale repub­bli­cano sti­lato l’anno scorso, si legge che «se vogliamo cre­scere come par­tito non pos­siamo igno­rare che la middle class ha sof­ferto molto e che troppi dei nostri cit­ta­dini vivono in povertà». Espo­nenti di spicco del Gop, come Lamar Ale­xan­der, Paul Ryan e Marco Rubio, hanno ten­tato di for­mu­lare ini­zia­tive sull’inconsueto ter­reno dell’«assistenza alla classe media» (fermo restando l’appoggio incon­di­zio­nato alle cor­po­ra­tion e la resi­stenza a oltranza alle tasse sui capi­tal gains).

 

La verità di una classe media in peri­colo di estin­zione è masche­rata dalla dif­fu­sione di un «benes­sere dei con­sumi» ali­men­tato da beni (in par­ti­co­lare, tec­no­lo­gici) i cui prezzi sono con­te­nuti dalla glo­ba­liz­za­zione men­tre i veri stru­menti di mobi­lità sociale, in primo luogo l’educazione, sono alla por­tata di una parte sem­pre più esi­gua della popo­la­zione. La ten­denza è espli­ci­tata in una sta­ti­stica rile­vata ancora una volta dalla Pew research: negli ultimi dieci anni in Ame­rica il costo dell’università è salito del 40%, nello stesso periodo il prezzo dei tele­vi­sori è dimi­nuito del 110%.

 

A que­sto riguardo, Piketty sostiene che una delle mag­giori forze per l’equiparazione sociale «è stata sto­ri­ca­mente la dif­fu­sione di sapere e di peri­zie, un mec­ca­ni­smo che può fun­zio­nare solo con con­ti­nui inve­sti­menti pub­blici per garan­tire l’accesso all’educazione». Sarà una delle grandi sfide per molti paesi alle prese con una peri­co­losa e cre­scente diseguaglianza.

 

Questo articolo è uscito in precedenza su il manifesto

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