Speciale
Tradurre Aleksandr Blok
Osservando a volo d’uccello le edizioni italiane di poesia tradotta, ci si accorge che nella maggior parte dei casi i volumi raccolgono un certo numero molto variabile di liriche messe insieme in base al criterio e al gusto della persona a cui è affidata la cura. Per quasi tutte le produzioni poetiche originali, viceversa, si può dire che una parte era stata pubblicata con l’autore in vita, e quindi i volumi erano stati assemblati dall’autore, e solo la parte stampata dopo la morte segue criteri dei curatori.
Quando mi sono accostato alle liriche del primo Novecento russo, mi sono reso conto che mancavano sia volumi italiani con opere complete di un’autrice o un autore, sia volumi che riproducessero nel titolo e nella composizione raccolte pubblicate in vita da poete e poeti. La mia reazione impulsiva è stata dapprima quella di tradurre tutte le poesie di Anna Achmàtova: ne è venuto un volumone di oltre cinquecento pagine fitte fitte senza interruzioni tra una poesia e l’altra e senza testo a fronte, che ho proposto a vari editori e poi, dopo i loro rifiuti, ho pubblicato in proprio. Poi ho cominciato a tradurre Aleksandr Blok dai volumi da lui ideati, Ante Lucem e Poesie sulla bellissima dama.
Nel 2023 ho conosciuto Gerardo Mastrullo, editore di La Vita Felice, che mi ha proposto di fare quello che stavo già facendo, però in combutta con lui: volumi ideati dalle autrici e dagli autori oppure, per le poesie non comprese in queste raccolte, volumi che avessero una precisa delimitazione cronologica, per esempio 1936-1941, e che però contengano tutta la produzione poetica di quel periodo.
Un altro elemento che spesso ha caratterizzato la traduzione di poesie in italiano è che talora la curatrice o il traduttore non dichiaravano quale fosse secondo loro la “dominante” del testo. Dato che nella traduzione in generale, e nella poesia in particolare, è impossibile tradurre tutto, è consigliabile scegliere uno o più aspetti del testo – la metrica, la rima, il contenuto semantico, l’ironia, il suono, i giochi di parole, le parole chiave, il ritmo eccetera – considerati fondamentali per la resa di un determinato testo in una determinata cultura ricevente e concentrarsi su quelli, possibilmente rendendo questa scelta trasparente per editore e lettori. Quando non sia già il committente stesso a dichiarare una preferenza e a chiedere la traduzione in funzione di una certa dominante.
Per quanto riguarda il simbolismo russo e la poesia di inizio Novecento, una parte molto importante è svolta dal ritmo e dal metro, oltre che dalla rima. La mia opinione è che le traduzioni italiane che hanno come dominante la rima tendono facilmente a sembrare delle filastrocche per bambini alla Gianni Rodari – quanto di più lontano dalla poesia ci si possa immaginare. Per questo motivo io scarto a priori la dominante della rima, per concentrarmi invece sul metro e, soprattutto, sul ritmo.
Le poesie russe di questo periodo hanno sempre una regolarità di ritmo: possono per esempio avere l’accento sulle sillabe 3 6 9 12 o, più spesso, 3 5 7 9, oppure 2 6 10 o 2 5 8 o 2 4 7. In questi casi mi pongo come regola la riproduzione di tali sillabe accentate, se possibile conservando anche lo stesso numero totale di sillabe e, se non riesco, creando versi con accenti giusti ma un numero di sillabe magari lievemente inferiore o superiore.
A me sembra che le versioni italiane in verso libero di queste poesie manchino di un tratto essenziale e caratterizzante.
Su questo mi sono trovato in piena sintonia con La Vita Felice e abbiamo avviato una serie di volumi che seguono questa impostazione. Negli ultimi dodici mesi sono usciti Pietra di Mandel’štàm, Sera di Achmàtova, Verste di Cvetàeva e, proprio in questi giorni, Città di Blok Città ([Górod], La Vita Felice, 2024), tutti con testo a fronte accentato, di modo che chi vuole possa seguire la dinamica degli accenti in originale e in italiano.
Città (Górod) è una raccolta scritta tra il 1904 e il 1908, nella quale la città stessa è appunto uno dei personaggi principali; un altro è la donna, che assume diversi aspetti: spesso è una prostituta, in una lirica è chiamata «Donna invisibile» (Nevidìmka), mentre in un’altra, la più famosa, è la Neznakómka, normalmente tradotto come «La sconosciuta», e che io ho invece preferito tradurre come «Donna inconoscibile». A giustificazione di questa mia scelta c’è il caso affine della donna invisibile, che in russo ha la stessa formazione (negazione ne + radice del verbo vedere/conoscere + suffisso -mka), e poi l’inconoscibilità della donna è un elemento essenziale della poetica blokiana – anche considerando che nella sua breve vita non ebbe mai rapporti carnali con la moglie Ljubóv’ Mendeléeva (figlia del celebre chimico inventore della tavola periodica degli elementi), mentre ne ebbe pare spesso con persone anche prezzolate. La prima poesia del volume, per esempio, descrive il risveglio in una camera d’albergo di una prostituta e di un uomo: «Presto all’alba, quando a muoversi la gente è pigra / sogno grigio capta dell’inverno i giorni ultimi, / la puttana e l’uomo nella camera si svegliano, / nell’etere stracarico in lentezza aprono gli occhi». «Sconosciuta» invece è una parola che rimanda più all’estraneità quotidiana, fattuale, a differenza di «donna invisibile» che ha una valenza mistica.
In queste liriche il ritmo costringe il testo a stare entro determinati parametri che aiutano a farlo percepire come poesia. Porto ad esempio una strofa:
Lontano, sulla polvere dei vicoli,
sulla noia delle ville suburbane,
s’indora la ciambella d’un fornaio,
e riecheggia un pianto infantile.
Da confrontare con:
Di su alla polvere dei vicoli,
di su alla noia delle dacie,
riluce d’oro il krendel' dolce,
e si risente un bimbo piangere.
Quest’ultima è la versione metrica mia.
Un’altra abitudine editoriale contro cui nel mio piccolo cerco di battermi è quello delle note alla traduzione: alla parola krendel’ è appósta la nota a piè pagina che dice: «Brioche di pasta dolce a forma di lettera B o di numero 8 oppure di doppia corona intrecciata. Questa della poesia è l’insegna di una pasticceria». Per quanto riguarda i “realia”, credo che lettrici e lettori siano interessati a questi sprazzi di linguacultura originaria da cui si intravede un mondo diverso e, per certi versi, indescrivibile, se non tramite un accesso diretto alla parola originale che, se non altro, evoca e incuriosisce, spingendo eventualmente a fare indagini in proprio.
La traduzione di poesia come la intendo io ha come obiettivo la creazione di poesia, che più possibile sia imparentata per suono e per senso con la poesia originale. Viceversa la traduzione della poesia in una “prosa che va a capo” è un’attività discutibile dal punto di vista editoriale – mi riferisco ai committenti: nella coscienza di lettrici e lettori questo prodotto colma in apparenza una lacuna («io quel poeta/quel testo l’ho letto»), ma non rende giustizia né all’autore né al testo, e produce la spunta di crocette che a ben vedere non sarebbero da spuntare.
Un esempio per tutti è il romanzo in versi classico dei classici Evgénij Onégin di Pùškin, che quando ero studente ci veniva propinato nella versione in prosa di Ettore Lo Gatto, laddove la sua caratteristica più evidente è ancora una volta il ritmo – in questo caso tetrametri giambici.
Un’altra tendenza alla quale cerco di oppormi è quella a usare forme metriche consuete nella cultura ricevente al posto di quelle originarie. Ma perché mai bisognerebbe usare l’endecasillabo dantesco per tradurre il tetrametro giambico? La risposta è di solito «perché il lettore italiano è abituato…» Ma proprio per quello non dobbiamo farlo: il testo tradotto è un testo nuovo, esotico, e se suona strano deve essere abbastanza evidente qual è la causa di tale stranezza. La traduzione (che come diceva Nabókov deve mirare sempre alla precisione) è per definizione un testo di secondo grado, con un’anima divisa in due. Una metà dice «io sono un testo!» e l’altra metà dice «io sono derivata da un altro testo!» Ecco, le traduzioni in prosa (o in verso libero) di testi metrici non sempre possono vantare la prima di queste due qualità.
Blok è un poeta mistico che tende a vedere in chiave simbolica qualsiasi fenomeno della quotidianità. Il vino gli serve per passare da uno stato razionale (ammesso che lui ci si possa mai trovare) a uno di fantasia o a volte anche di vaneggiamento. Le prostitute («Tempeste allora scatenavo. / Scateno ora la peggiore / di lacrime – al poeta ebbro, / di risa – all’ebbra prostituta»; oppure: «ballan le cosce di fuoco / della prostituta in piazza»; o ancora: «E irrompe nel nero covile / masnada di allegri e ubriachi, / nel buio ciascuno è attirato / dal mucchio di rosee puttane...») non sono decodificate come tali, ma come esseri soprannaturali forieri di un’estasi ultraterrena. Nella Neznakómka c’è la fusione di questi due elementi (il vino e la donna: «Confida a me segreti sordi, / mi lascia un sole invero esotico, / e tutte le anse del mio spirito / trafitte son dal vino brusco»), e forse per questo è la lirica che dà più sublime espressione alla visione del mondo di Blok.