Un giorno sotto il Bunker
Bunker: Fare domani dentro Bunker, La Barriera, La trasformazione
Il bunker prima del Bunker era uno spazio dietro un muro e un cancello videosorvegliato, nascosto dentro la città. Un pugno di capannoni grigi senza troppe pretese, alcuni adattati a magazzini e depositi, altri ancora attivi: si taglia l’acciaio, si saldano ponteggi e strutture metalliche, si smontano e smontano pallet. A fianco, un triangolo verde. In mezzo, un altro muro, stavolta di alberi, cespugli e rovi, ingrassati dal fosso della bealera. Al centro, sul piazzale, uno scoglio verde. E un buco: dentro, un labirinto di otto stanze, le pareti pittate di lettere e numeri tra i segni degli arredi spariti e le macchie di sale, dicono sia il sudore del cemento, i soffitti che gocciolavano acqua tra le radici spesse come liane che pendevano fino al pavimento, dove arrivavano a mangiare i cumuli di terra, mattoni e detriti. Ragni e ragnatele a cercare una via di fuga nelle uscite murate dalle macerie, che ancora adesso non sappiamo dove sbuchino. Eravamo nel rifugio antiaereo dello Scalo Merci Vanchiglia durante la Seconda Guerra Mondiale: il bunker prima, e sotto, il Bunker.
Ci siamo trovati dentro senza saperlo. E quando l’abbiamo capito, stava già succedendo. Era l’inizio del 2011, Matteo Ferraresi stava cercando uno spazio per lavorare d’estate, un atelier. A marzo è venuto a sapere che l’ex fabbrica Aspira, in via Foggia, sarebbe stata demolita a settembre di quell’anno, così ha chiesto di poterla utilizzare in quei mesi. Ma una volta lì, ha scoperto di essere dentro qualcosa che si meritava di più, qualcosa che doveva essere messo a disposizione di tutti. Anche se per poco, o forse proprio per questo. Così con Eugenio Dragoni ha iniziato ad allargare il cerchio con il passaparola. Sono arrivati amici e i primi artisti, ognuno aggiungendo un pezzo di suo. Io all’epoca stavo a Mosca, su Skype mi raccontavano cosa stava succedendo, cercando di prepararmi a cosa avrei trovato al ritorno: sono state cene, fuochi, nottate di chiacchiere fantasticando su quella specie di colonizzazione dal basso. Non avevamo nessun progetto, non immaginavamo le conseguenze, non avevamo ambizioni di pubblico o attenzione mediatica. Era un gioco per l’estate. Poi con giugno è arrivata l’apertura al pubblico, e la comunità che intanto aveva continuato ad allargarsi senza sosta, è esplosa. Chiunque entrasse per la prima volta sembrava aver la sensazione di scoprire qualcosa in prima persona e in quello stesso momento di farne già parte. Quella cosa che era diventata la fabbrica cresceva e cambiava giorno dopo giorno. Quella cosa era un essere animato, un essere animale, un animale. Così, passata l’euforia, ci siamo resi conto che non vedevamo l’ora di rifarlo. Ed eccoci qua.
Ora stiamo provando ad abitare quest’animale. Un animale mitologico, ma di una mitologia ancora da farsi. Per metà sembra un dinosauro. I suoi spazi vuoti ci ammaliano con l’eco di giorni che non sono più i nostri, croste di asfalto e cemento, scaglie di ferro, cicatrici di muffa e ruggine. Ma sono anche la pelle dura e polverosa di qualcosa che si sta ancora facendo. È polvere di oggi, che si confonde con quella di ieri. È l’altra metà che si mostra, quella che sembra un camaleonte: ci sputa addosso una natura cruda, caotica. Questo sì, il rumore dei nostri giorni. Intanto l’animale sta già cambiando colore, segue cosa gli succede attorno e dentro. Guarda avanti e indietro, dove viene e dove va, senza stare fermo, mai. A volte va in città. Oppure chiama la città dentro di sé, come la balena di Sinbad o Pinocchio, attraverso la bocca di un vicolo cieco di Barriera.
Giulia Marra
(Architetto, tra i curatori del progetto)