Warhol a Milano

2 Gennaio 2014

Vorrei proporre un’interpretazione privata e a tratti “esoterica” di Warhol, solo in parte libertina. La mostra milanese della collezione di Peter Brant si presta bene a rinnovare l’immagine dell’artista (a Palazzo Reale fino al 9 marzo 2014).

 

 

Che ne è del divo distaccato e metallico del primo periodo della Factory, immancabilmente attivo dietro alla macchina da presa, nei disegni a china, foglia d’oro e nastro degli anni Cinquanta? O dell’istrione luciferino e scarmigliato negli affettuosi esercizi di copia dall’Ultima Cena di Leonardo di metà anni Ottanta (eh sì, proprio non prevedevamo di usare l’aggettivo “affettuoso” in relazione al produttore dei Velvet Underground...)? I biografi persuasi della religiosità di Warhol, cattolico di rito ortodosso, attribuiranno il gusto per l’immagine devozionale, agghindata da finiture lustre e sbalzate, alla familiarità con gli ex voto della fede popolare e le iconostasi delle chiese di rito ortodosso.

 

Partiamo dal gatto. Paffuto, ronfante e compiaciuto, è l’animale prediletto: popola i disegni giovanili svolgendo spesso il ruolo di alter ego dell’artista. Animale aspergico per antonomasia, devoto della ripetizione, ritualmente domestico, introduce l’elemento ludico, infantile e ossessivo che caratterizza stabilmente l’attività di Warhol. Leggiamo spesso, e la mostra ribadisce, che la predilezione dell’artista per i dollari, le bottiglie di Coca Cola o i barattoli di zuppa Campbell avrebbe a che fare con la celebrazione della società dei consumi e la sua radicale democraticità. È vero solo in parte.

 

 

L’affezione di Warhol a pochi e semplici oggetti d’uso comune ha tratti ironici e autobiografici, non del tutto (o addirittura per niente) comprensibili in termini sociologici. In primo luogo: Warhol ricorre alla tecnica del ready made solo in modo profondamente modificato e “artisticamente” corretto. Non dovremmo parlare, a suo riguardo, di meri ready made ma di ready made “assistiti”: “oggetti” fabbricati ad arte, a mano o attraverso procedimento seriale, tali da simulare le apparenze dell’oggetto industriale. L’enfasi cade sulla gratuità e sul capriccio, sulla gioia di disegnare e colorare (Matisse, Matisse!) e l’inesplicabile fedeltà alle tecniche tradizionali del disegno e della pittura: può sembrare paradossale, ma è così, e il modello (inequivocabile) è quello di Jasper Johns.

 

Che altro è la raffigurazione interminabile della lattina Campbell se non l’omaggio alla zuppa di cui Warhol davvero adora cibarsi, tributo a un piccolo feticcio individuale, a quelle che Tristan Tzara aveva decritto come “imbecillità elettive”? Warhol oppone le proprie “imbecillità elettive” alla retorica eroica dell’espressionismo astratto, e al culto per una virilità tragica e monumentale. Questo è. Che dire dell’interesse per la paglietta Brillo (quella per lavare i piatti) se non che è un’idiosincratica rivendicazione del piacere delle routine domestiche, tradizionalmente contrapposte agli ambiti dell’Arte e della Cultura? Una sfida di gender al dominio patriarcale? Sì, ma condotta in chiave individuale e prepolitica.

 

 

Warhol esoterico e libertino, dicevamo. Certo: nel senso che le immagini di Warhol non sono quasi mai quello che sembrano. Gli slittamenti metaforici sono presenti sin dall’inizio: così i coni gelato o le leggiadre scarpette d’oro del primo periodo nascondono qui e là, tra punte semirigide e tacchi, le forme del fallo. Anche le decorazioni zuccherine della torta di lamponi (o i fiori del bouquet) diventano nudi maschili, e la metamorfosi è tanto (forse troppo?) palese che finiamo per domandarci: ma cos’è che Warhol desidera davvero, un efebo svestito o (più semplicemente) un’indigestione di glassa? E qual è il suo nume: il candido Peynet, l’illustratore di colombe e fidanzatini, o il protervo marchese de Sade?

 

 

“Non preoccuparti. Non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire”. L’aforisma è tra i più popolari. In mostra lo troviamo stampato a grandi lettere su un pannello dedicato alla conferma del mito del Grande Artista Pop. Eppure Warhol ci inganna con un incoraggiamento che appare eccessivo e segretamente strumentale, sorretto forse dall’istrionico desiderio di conquistare il pubblico e diventare il blockbuster che (soprattutto a partire dagli anni Settanta) è diventato.

I neurobiologi potrebbero opporre all’opinione di Warhol che i processi immaginativi sono ancora oggi in larga parte misteriosi: disponiamo di un’incerta mappa corticale delle aree interessate all’“intuizione” e abbiamo appena iniziato a esplorare l’attività fluttuante della corteccia prefrontale. Ma sono soprattutto le immagini di Warhol a smentire Warhol: tacciono, dissimulano e sono tutto fuorché ovvie e trasparenti. Camouflage, una grande tela serigrafica del 1986 dipinta a motivi mimetici sul modello delle uniformi militari, fissa in allegoria il tema (sommariamente duchampiano) della “segretezza” del quadro. Un’immagine, suggerisce Warhol, non è quello che appare. È piuttosto un involucro tattico, reticente e protettivo: un “mascheramento” appunto.

 

Questo articolo è apparso precedentemente su Huffington Post

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