Speciale

Warscapes: droni nello spazio globale

11 Giugno 2015

1) L'effetto convergente della mondializzazione e del progresso tecnologico conferisce alle società una mobilità sempre più elevata. Non solo le emancipa dal loro quadro territoriale mettendo loro a disposizione molteplici risorse per eluderlo, ma produce anche nuove strategie d'azione. Più che La fine dei territori diagnosticata da Badie, dovremmo pensare all'insorgenza di nuove geografie dettate dall'eterogenea spazialità dei flussi di interconnessione transnazionale: flussi che, è vero, trascendono frontiere e territori, risultando perciò privi di estensione, ma che poi determinano sui territori ricadute spaziali tanto significative da produrre inediti paesaggi socio-economici o antropologici, e con essi nuove linee globali di sconnessione e conflitto. Sto evidentemente parlando il gergo di Arjun Appadurai, la cui fenomenologia dei Global scapes ha fornito un essenziale contributo alla comprensione della metamorfosi spaziale che prende il generico nome di "globalizzazione". Il maggior pregio della sua ricerca è probabilmente di aver mostrato, contro ogni tesi circa la presunta omogeneizzazione del pianeta, la complessità dell'attuale logica dei flussi, dalla quale discende appunto la formazione di "paesaggi" (scapes) difformi, compatibili o incompatibili tra loro, sempre in tensione con il territorio che ne subisce, a misura dei diversi contesti, gli effetti distorsivi. L'utile mappa concettuale di Appadurai si incentra come si sa sull'analisi di cinque paesaggi (ethnoscapes, technoscapes, mediascapes, finanscapes e ideoscapes). Ma non dedica alcuna attenzione a quelli che nel suo stesso lessico potremmo chiamare warscapes (o anche nomoscapes, pensando alla sfera del diritto internazionale). Se invece crediamo importante ragionare sulle forme spaziali in cui si è evoluto il "paesaggio bellico" contemporaneo, ciò è perché la guerra è sempre stata un laboratorio paradigmatico per la sperimentazione di assemblaggi socio-spaziali innovativi e, per certi versi, rivelativi del tempo storico. Per dirla con una felice intuizione di Jünger, «lo stile di un’epoca si manifesta in battaglia con la stessa chiarezza con cui si rivela in un’opera d’arte o nel volto di una città. Per tale ragione nessuna guerra è uguale all’altra, in ciascuna si combatte in nuove forme e con nuovi mezzi in vista di nuovi obiettivi, e in ciascuna fa la sua entrata sulla scena cruenta degli eventi un nuovo tipo d’uomo».

 

 

2) È legittimo ipotizzare che l'impiego bellico dei droni rappresenti qualcosa di più dell'evoluzione dell'aeronautica tradizionale, poiché in esso si manifestano gli effetti più maturi della scomposizione spaziale indotta dai media elettronici nei sistemi della contiguità territoriale, politica e militare. Nato come ricognitore con compiti di sorveglianza, segnalazione e riconoscimento degli obiettivi, il drone americano Predator cambia natura durante la guerra del Kosovo del 1999, quando sperimentalmente armato di un missile anticarro Hellfire AGM-114C riesce a centrare un obiettivo al primo tentativo. In questa nuova funzione realmente predatoria i droni saranno ufficialmente arruolati dall'esercito statunitense solo 2004, in Pakistan, nel Sud Waziristan, contemporaneamente all'uso militare del GIS (Geographical Information System): il sistema di mappamento digitale connesso alla formazione di giganteschi database e all'elaborazione tridimensionale delle informazioni provenienti dai satelliti e dall'aviazione.

 

Dietro l'acronimo di UAV («Unmanned Aerial Vehicle», ovvero "veicolo aereo senza equipaggio") si nasconde un'arma metafisicamente complessa, un ibrido ontologico tra un aereo e un missile telecomandato: come un missile (armato di telecamera) il drone viaggia senza che nessuno lo conduca; come un aereo è invece in grado di tornare alla base e ripetere la missione infinite volte. Ancor prima di entrare nella seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano già cominciato a pensare il loro stesso territorio insulare alla stregua di un'immensa portaerei dalla quale irradiare nel mondo il proprio potere senza invischiarsi nelle vecchie logiche coloniali dell'invasione e dell'occupazione. Ma l'essenza del drone non incarna solo questo sogno, in fondo quello di proiettare nel mondo il potere senza proiettare la vulnerabilità di chi lo detiene; esso riesce infatti in un'operazione più raffinata: interrompere ogni nesso di reciprocità col nemico, in senso esistenziale, spaziale e (dunque) giuridico. Per i piloti dei droni che svolgono il loro quotidiano telelavoro comodamente seduti nelle poltrone di un ufficio della base militare di Creech, nel Nevada, morire in combattimento è metafisicamente impossibile. Per contro, la possibilità di uccidere attraverso il potere dello sguardo (mediato da un monitor) rientra molto più nella logica allucinatoria dell'onnipotenza infantile teorizzata da Melanie Klein che nella tradizionale fenomenologia dei combattenti, qualificati, per Hegel, dalla condizione iniziale dell'uguaglianza di fronte al rischio concreto della morte. Nella rimozione assoluta della reciprocità dei combattenti rispetto al tempo e allo spazio occorre riconoscere l'esito della più radicale desincronizzazione e delocalizzazione mai tentata nella storia militare. Certo fin dalla sua origine l'aviazione ha agito nel tentativo di infrangere la reciprocità della guerra terrestre, finita nel drammatico stallo della prima guerra mondiale. Con l'arma aerea si è rapidamente affermata una terza dimensione, volumetrica, nella quale l'alto e il basso, la terra e l'aria, non formano più un teatro d'azione simmetrico. Ma l'unione di mezzi volanti, informatica e sistemi satellitari ha ora consentito di scardinare anche lo spazio volumetrico tradizionale, che sostituiva alla geometria piana del conflitto quella verticale, contenuta in un’unità spaziale tridimensionale. L’impiego bellico dei droni ha disarticolato anche questo residuo. L'impossibilità di definire la linea del fronte (divenuta insieme terrestre, aerea, extraterreste e intercontinentale, pur avendo significato essenzialmente locale) è un paradosso geografico di tale portata da giustificare per certi versi persino la provocazione di Virilio circa la "fine della geografia".

 

 

3) Ma oltre a una nuova dimensione, anche un nuovo elemento ha fatto la sua comparsa nei campi di battaglia solcati a bassa velocità dai droni. Dire che un drone militare si muove nello spazio è tanto ovvio quanto limitativo: esso si muove innanzitutto in una spazialità simulata, una sorta di quinto elemento elettronico posto tra la terra e il cielo dei satelliti.

 

Un tecno-elemento grazie al quale non scompare solo la simmetria tra i combattenti, e persino la loro compresenza o coappartenenza a un comune teatro di guerra, per quanto esteso possa essere, ma, oserei dire, la guerra in quanto tale. Un punto su cui Carl Schmitt, credo giustamente, ha sempre insistito è che non ogni combattimento, per quanto violento e sanguinoso possa essere, rientra nel concetto giuridico e filosofico della guerra. La guerra è per definizione qualcosa che riguarda esclusivamente i rapporti tra Stati nella cornice del diritto pubblico internazionale, il quale stabilisce un set di norme da rispettare (distinzione tra civili e militari, uso proporzionato della forza, possibilità di stabilire trattative, armistizi, rese condizionate e incondizionate). Rispetto a tutto questo il drone immette un elemento d'eccezione. Per eliminare ogni residuo della guerra giusta, esso ha dovuto eliminare la guerra come tale. Non a caso il suo impiego in missione è stato coniato sulle operazioni di omicidio mirato sperimentate con successo dagli israeliani nei territori palestinesi. Se i territori occupati sono stati per Weizman (Architettura dell'occupazione, Bruno Mondadori 2009) «il più grande laboratorio del mondo per le "tanatotattiche" dell'aeronautica», lo si deve al fatto che non essendo uno Stato i territori palestinesi non godono delle tutele del diritto internazionale. Israele può far dunque valere il diritto a praticare il concetto di omicidio, del tutto estraneo alla più elementare logica della guerra, e apertamente contrario al diritto pubblico.

 

A sua volta, ciò che legittima l'uso dei droni è in fondo una sorta di sillogismo spurio volto a riequilibrare l'asimmetria del conflitto apertosi con l'attacco al World Trade Center: se il terrorismo è di per sé una forma di violenza irregolare e anomica, ovvero priva di nomos (di legge, di limite, di delimitazioni geografiche), il potere pubblico che lo combatte non può che agire anch'esso fuori dal diritto pubblico interstatale, cioè assumendo surrettiziamente i poteri di polizia con cui uno stato combatte al suo interno la criminalità. Il che significa poi, dato il carattere internazionale del terrorismo, assumere fittiziamente il mondo come lo spazio interno a uno stato mondiale virtuale o "eccezionalmente già presente". Dopo aver sperimentato a proprio danno, con l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, l'ossimoro della "guerra al terrore" (dove alla parola guerra corrispondeva ancora un significato perspicuo), gli Stati Uniti hanno in tal senso rinunciato a ogni visione strategica per governare il disordine internazionale: come dispositivo di sicurezza, flessibile e aleatorio, lo spettrale potere dronico può ora teoricamente insorgere in qualunque momento e in qualunque luogo si verifichi una situazione d'emergenza quale strumento di «law enforcement». Come ha giustamente sostenuto Grégoire Chamayou (Théorie du drone, La fabrique éditions, Paris 2013) anche in questo senso il drone stabilisce però una condizione eccezionale: fuor di metafora, nessun potere di polizia può decidere di uccidere (se non come diritto di autodifesa) senza incorrere in un reato. L'azione della polizia contempla anch'essa precise regole d'ingaggio, l'obbligo dell'uso proporzionato della forza e il principio generale della cattura degli indagati, la cui colpevolezza dev'essere provata dal potere giudiziario. Nessuna di queste restrizioni appartiene però all'utilizzo militare del drone, libero, per altro, di agire anche fuori dalle zone implicate nel conflitto, come è accaduto in Pachistan o nello Yemen.

 

 

4) Il drone è innanzitutto uno straordinario strumento decostruttivo: pur volando non è un aereo, il suo impiego non implica necessariamente la guerra, le sue vittime non sono nemici, l'assasinio mirato non è né un atto di guerra né di polizia internazionale. Guerra e pace cessano di essere semplicemente contrari: divengono piuttosto differenti. Meno paradossale è forse che, spacciati dagli Stati Uniti come un'arma umanitaria, i droni trovino oggi quali unici fieri ma impotenti oppositori lo Human Rights Watch, che li considera incompatibili con le leggi umanitarie internazionali, e le Nazioni Unite, secondo cui il loro utilizzo starebbe «distruggendo la possibilità che il sistema legale internazionale mantenga un minimo di ordine mondiale». La tesi può sembrare eccessiva solo se si ignorano o disconoscono i due capitali principi che hanno retto il senso del diritto internazionale europeo: quelli della "distinzione" e della "proporzionalità". Il primo significa saper distinguere tra civili e nemici (quest'ultimi riconoscibili nella figura nemico pubblico, dell'hostis, non dell'inimicus). Il secondo presuppone l'esistenza di una proporzione volta a limitare il rapporto tra gli obiettivi militari e i danni inflitti, diretti o collaterali. A regola, l'"intelligenza" dei missili scagliati dai droni dovrebbe essere misurata più che sulla loro precisione nel colpire obiettivi limitati e predefiniti, sulla loro capacità di distinguere tra una nebulosa di concetti pre (o post) politici: resistente, rivoltoso, partigiano, fiancheggiatore, terrorista, criminale, agitatore, ideologo.

 

Ma sarebbe ingenuo non comprendere che la specificità dell'arma dronica consiste esattamente nella possibilità di aggirare e neutralizzare entrambi i principi, ovvero nel fatto di muoversi, forse innanzitutto, in un vuoto giuridico-spaziale, nello stato d'eccezione generato dalla loro stessa specificità. La logica spaziale del drone incarna perciò alla perfezione quella della "macchina di guerra" di Deleuze: come prima di lui la nave e poi, nel moderno, l'aereo, essa conduce i suoi effetti, ben prima che nella disseminazione puntuale del potere imperiale, in quello della sua deterritorializzazione ubiquitaria e cieca alla normalizzazione del diritto. Se una nuova figura imperiale adeguata allo spazio dei flussi sta sorgendo, può darsi che si renda visibile, almeno in questa fase storica, solamente in negativo, nella disgiuntura tra spazio e diritto in cui sprofonda il significato della guerra. È probabilmente ciò a cui allude Drone Shadow, l'interessante opera dell'artista James Bridle che dal 2012, attraverso immagini tratte da Google Earth, ha cominciato a rivelare al pubblico ciò che è ignoto e invisibile, vale a dire i luoghi fantasma colpiti dai droni americani, rendendoci spettatori remoti di quegli stessi warscapes che prima di allora solo pochi militari e agenti CIA, nel lontano Nevada, avevano avuto sotto i loro occhi.

 

 

 

Leggi anche su doppiozero: Teoria del drone, di Marco Belpoliti.

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