Speciale

Est-Ovest. Il nodo di Gordio.

21 Maggio 2023

Esistono immagini che racchiudono svolte epocali e che inaugurano un incerto futuro. La fotografia che ritrae il brindisi tra i due grandi dittatori del nostro tempo, Putin e Xi Jinping, è certamente una di queste. Per valutarne il significato sul piano della storia politica occorrerà molto tempo, ma sul piano della teoria è diverso: detto semplicemente, quell’immagine manda in frantumi alcune idee che hanno accompagnato, e in parte legittimato, lo sviluppo dell’ordine del mondo sorto a partire dalla fine della guerra fredda.

La prima tra esse riguarda l’inevitabile allargamento al mondo intiero dell’economia liberale e della cultura liberale, considerate inseparabili tra loro e destinate a prevalere sopra ogni altra possibile organizzazione politico-sociale. Nella teoria che Francis Fukuyama aveva liberamente dedotto dal pensiero di Alexandre Kojève, questo significava che la storia (la storia politica dell’uomo) era sul punto di concludersi. Data infatti l’intrinseca desiderabilità del liberalismo/liberale non ci sarebbero più state guerre e rivoluzioni volte ad ottenere un mondo alternativo a quello che sembrava prossimo a realizzarsi ovunque, a Oriente come a Occidente. Ebbene, il brindisi non solo sconfessa questa idea con evidenza maggiore di qualunque evento del recente passato, ma rende soprattutto manifesto il fatto che il liberalismo economico non ha bisogno di uno Stato liberale e non comporta affatto, di per sé, lo sviluppo di una società democratica. 

La seconda idea è che il mondo sia stato unificato dall’economia globale, e che questa – attraverso la delocalizzazione della produzione, l’integrazione dei mercati finanziari, i sistemi internazionali di debito e credito, le reti infrastrutturali e telecomunicative – abbia in qualche modo vicariato l’assenza di un’unificazione politica della Terra. Nelle sue varie declinazioni, il concetto di globalizzazione si è dimostrato uno strumento efficace per decodificare le complesse dinamiche tecnologiche e capitalistiche che strutturano il mondo contemporaneo. Ma si è ingannato, oggi possiamo dirlo, nel credere che queste dinamiche avrebbero impedito o frenato la nascita di conflitti tra attori globali. Inoltre, diventa oggi impossibile credere all’idea di un mercato senza confini (The Borderless World, come Kenichi Ohmae lo ha chiamato) e al simmetrico declino dello Stato-nazione. In una parola, il “mondo piatto” di Thomas Friedman si è spezzato e nessuno sarà più in grado di ricomporlo com’era, nei fatti e nell’ideologia. 

La terza e ultima idea riguarda l’Occidentalizzazione del mondo (l’espressione è di Serge Latouche), ovvero la progressiva assimilazione e uniformazione del mondo ai valori occidentali: ai diritti umani, alla libertà di espressione, al laicismo, ai modi di consumo, ai costumi sociali.

Il brindisi tra i due grandi ditattori allude alla possibilità di una globalizzazione profondamente diversa, capitalistica ma illiberale, sovranista, anti-moderna e orgogliosamente avversa all’Occidente culturale.

Per usare il simbolo elaborato da Schmitt e Jünger nel clima plumbeo della contrapposizione tra i blocchi e sotto la minaccia della guerra nucleare, sembra così riproporsi in forma nuova il “nodo di Gordio”: l’atavica antinomia tra Oriente e Occidente che struttura la storia del mondo in termini di civiltà contrapposte ma inseparabili. In un certo senso, si potrebbe pensare che le idee prima richiamate abbiano occultato per lungo tempo la questione del nodo, con le sue profonde implicazioni storiche e politiche. Forse varrebbe anche la pena di rileggere alla luce del presente le tesi che Samuel Huntington aveva espresso proprio in risposta a Fukuyama. Non aveva forse previsto Huntington che le linee di faglia tra le civiltà – solo apparentemente neutralizzate dalle dinamiche della modernità capitalista e dall’integrazione dei mercati – sarebbero state le linee di battaglia del futuro? 

Proprio qui risiede a mio avviso il tratto che rende l’attuale conflitto irriducibile alla figura del nodo generata dalla guerra fredda. Quest’ultima era ancora una “Western civil wars” (come ha giustamente sostenuto Huntington, e prima di lui William Lind). Era un conflitto tra sistemi ideologici e apparati economici figli della civiltà europea, a loro modo ispirati dall’illuminismo scientifico, che si illudevano di rappresentare il mondo intiero. La faglia del conflitto attuale è più profonda, perché tende a trascinare dentro di sé elementi culturali, identitari, religiosi, simbolici. 

Le aspirazioni politiche della Russia di Putin mirano ad attingere a un universo di valori “post-illuministi” volti a recuperare la tradizione ortodossa, una cultura imperiale mai sopita, un metodo di produzione ancora ampiamente radicato nella tradizione asiatica (specie dopo lo smantellamento dell’industria nazionale a seguito del crollo dell’Unione sovietica), e una forma post-moderna del classico dispotismo orientale. Con Putin il potere orientale ritorna non come erede legittimo dell’Unione sovietica, ma come uno spazio spirituale (il russkij mir), come la rivendicazione della Santa Russia zarista e della sua missione universale, che consiste nel misurare la propria civiltà con l’Occidente, condannato a un inesorabile declino morale e politico. Il termine spia è quello di “Occidente collettivo” che la propaganda russa utilizza per rafforzare l’asse con l’Oriente (con la Cina innanzitutto, ma poi anche con l’India e l’Iran) e, simmetricamente, per screditare l’Occidente liberale, secolarizzato e coloniale.

Tirando con forza verso Oriente, Putin sta insomma cercando di restituire all’antico nodo gordiano la sua forma più classica, quella che non appartiene alla concorrenza economica, e neppure al contrasto ideologico, ma al conflitto politico tra forme di civiltà incompatibili. Ma il nodo non è uscito simmetrico. Paradossalmente, l’Occidente ha assunto una figura molto più compatta di quanto non fosse in precedenza, assumendo lineamenti politici che non si sarebbero mai palesati senza una guerra alle porte dell’Europa. Sul punto occorrerebbe però la massima cautela. Salutare la nascita di un grande Occidente politico sulla scena del mondo come il fallimento della scelta di Putin e Xi, potrebbe essere un grave errore. L’idea di civiltà richiama una cultura condivisa, una visione del mondo, un insieme di valori fondamentali. Politicizzare la civiltà significa spostare il conflitto dal piano degli interessi economici e geopolitici a uno molto più pericoloso, perché la civiltà non ha limiti e confini, e perché, a differenza degli Stati, non può cambiare governo o intavolare trattative. Infine, sul piano dei valori e delle visioni del mondo, non ci sono compromessi possibili. L'Occidente non è né uno spazio geo-politico né geografico. Anche immaginarlo come un'idea regolativa appare anacronistico, considerando che da tempo ha giustamente cominciato a dubitare della sua stessa universalità. 

Assumere un’identità politica unitaria ed esclusiva non è nell’interesse dell’Occidente, ma piuttosto in quello dei suoi nemici, che infatti gliela attribuiscono in base al loro proprio orientamento polemico, offrendo al resto del mondo, animato da buone o cattive ragioni storiche per odiare la civiltà occidentale (qualsiasi cosa questo significhi), un facile obiettivo. Non sempre però questa trappola identitaria viene avvertita come tale. Molti intellettuali e opinionisti si sono espressi nei termini di un conflitto (o persino di una battaglia per il dominio globale) tra società aperte e società chiuse, cioè tra le società democratico-liberali occidentali e quelle dispotico-illiberali orientali. Caricata di valenze simboliche legate al grado e al tipo di cultura e civiltà, questa dicotomia finisce inevitabilmente per sostanzializzare opposizioni classiche (e classicamente eurocentriche) come quelle tra libertà e dispotismo, cittadinanza e servitù, spirito e materia, concetto e simbolo, misura e dismisura, luce e tenebra, tellucrazia e talassocrazia, rischiando tra l’altro di disconoscere i processi che in Oriente (per esempio in India) hanno spontaneamente sviluppato orientamenti moderni e democratici.

Fortunatamente dall’altro lato del nodo l’Oriente stenta a prendere la forma di una coalizione politica o anche di una sorta di “commonwealth asiatico”. Come già detto, la Cina non sembra così propensa a tirare fino in fondo la fune che Putin le ha messo tra le mani, l’India di Modi è in forte imbarazzo, la Turchia non sa decidersi, forse non lo può fare. Da entrambi i lati, il nodo di Gordio ha assunto una forma indesiderata e incerta. 

Che una nuova contrapposizione tra Oriente e Occidente in termini di civiltà possa fungere come un criterio d’ordine globale, così come durante la guerra fredda la contrapposizione tra i blocchi era riuscita a tenere i conflitti ai margini dello scacchiere internazionale, a limitare la competizione economica tra gli stati associati a un grande spazio e a comprimere le differenze inconciliabili, è assai improbabile.

Se anche poi dovesse affermarsi la necessità di dare un nuovo ordine multipolare al globo, nei fatti e non nelle parole, bisognerebbe immaginare il modo di localizzare e territorializzare le diverse economie. Nessuno possiede però la capacità di farlo, e in primo luogo perché questo significherebbe agire contro la ratio capitalistica, e la spazialità che il capitalismo continuamente produce intorno al globo. Se la produzione dello spazio è un concetto tanto integrato alla logica del capitale quanto il profitto stesso (come Henry Lefebvre ci ha insegnato), non c’è potenza che al momento possa limitare la produzione dello spazio capitalistico globalizzato. Tuttavia ciò non significa che sulla longue durée, non si possano almeno produrre ordinamenti spaziali dotati di relativa autonomia politica su scala globale, e forse, come auspicava Kojève, l’Europa avrebbe qui la chance di elaborare una propria autonoma figura politica.  

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