Almost True: vero, quasi vero
Un serial killer, Jack the Second, all’opera nella Londra del 1981. L’attacco dell’Argentina, nella primavera del 1982, contro le isole Falkland e la decisa risposta della Thatcher che ingaggia una guerra – vittoriosa – per mantenere il predominio su un lembo di terra, dimenticato in mezzo all’Atlantico. E poi quel fantastico goal inflitto da Diego Maradona agli inglesi, battuti 2-1 allo stadio Azteca di Città del Messico il 22 giugno 1986: presa la palla da Héctor Enrique il campione saetta lungo tutto il campo, si lascia dietro cinque giocatori inglesi, tira. E segna il goal – il goal del secolo – che elimina gli inglesi. Cosa hanno in comune questi tre fatti?
Chi si è perso la puntata di Almost True andata in onda su Rai 2 la sera di lunedì 17 settembre la cerchi in rete e se la veda.
Perché lì si spiega come questi tre fatti fossero concatenati. Pianificati a tavolino. Frutto di una gigantesca manipolazione che arriva anche a mettere in scena una guerra – l’assalto alle Falkland-Malvine – con tanto di navi in fiamme, morti a centinaia, assalti crudelissimi che, in realtà, non ci sarebbero mai stati.
Tutta una finzione.
Le navi affondate erano modellini in miniatura, gli scontri sul terreno scene di battaglia girate con gran dispiegamento di comparse. E così continuando, come spiegano i testimoni che via via sfilano nella trasmissione con cui Carlo Lucarelli torna alla grande alla narrazione e alla riflessione su come viene ricostruita la Storia.
Poi, verso la fine della puntata - con tempismo – la finzione si rivela: è stata una finzione nella finzione.
E non pochi telespettatori, che non hanno seguito il tutto fino alla fine, potrebbero ora essere, in buona fede, portatori veritieri di ricostruzioni niente affatto reali. Ad esempio di una guerra delle Falkland mai accaduta e di un goal di Maradona patteggiato con gli inglesi a titolo di risarcimento dell’immagine dell’Argentina, lesa dall’esser risultata perdente nello scontro – verosimile ma non vero - sulle Malvinas-Falkland.
Quella dell’altra sera è stata – più di tante dotte riflessioni sulle dinamiche della Storia e sulla riscrittura degli eventi che la compongono – una provocazione intelligente, sapiente, di dosata ironia e anche di calibrata suspence.
La provocazione è andata a segno al di là della trasmissione stessa e ha messo a fuoco un tema centrale.
Quale?
Qualcuno (Baudino, sulla Stampa) ha detto: sulla potenza dei media nel falsificare la realtà. Nel porre i fatti, potenzialmente tutti i fatti, dentro quella zona grigia dove vero e verosimile, asseverato e ipotizzato, si confondono.
E ha paragonato – fatta la differenza del mezzo televisivo rispetto a quello radiofonico – la provocazione di Almost True alla celebre radiocronaca con cui Orson Welles, nel 1938, adattando per la radio La guerra dei Mondi di H.G. Wells, terrorizzò gli ascoltatori newyorkesi che pensarono fosse in corso un attacco dei Marziani alla Terra.
Il ruolo del “mezzo” – nel trasmettere ciò che sta accadendo a chi verrà dopo, a chi sta distante – è una questione sempre attuale.
Dalle ricognizioni con cui Erodoto, assemblando le testimonianze che gli giungono, delinea il profilo di qualche terra incognita, sino all’attacco che, con impressionante efficacia bellica, ha barbaramente eliminato a Bengasi l’ambasciatore Chris Stevens e tre funzionari USA.
Tanto più impressionante, questa azione, quanto più ha potuto svolgersi – protraendosi per ore – in una sorta di inspiegabile intervallo, di “buco spazio-temporale”, che si è aperto non solo nelle rissose ramificazioni di intelligence e di counter-insurgency della potenza USA ben presenti sia in loco sia a distanza ravvicinata dallo scacchiere libico. Buco “spazio-temporale” che verosimilmente ha coinvolto anche altri soggetti. A cominciare dalle forze speciali inglesi e di altri paesi d’Europa, che a Bengasi, dopo la “rivoluzione”, hanno impiantato – si dice – non poche bandierine.
Ma la provocazione di Lucarelli va oltre il mezzo, i media. Con l’aria di voler giustamente dissipare le ossessioni complottistiche, i venti dietrologici che spirano su ogni quadrante, arriva al nocciolo.
Ovvero stringe attorno alla questione centrale: in quali cucine viene preparato e come ci viene portato in tavola il racconto del mondo che ci sta attorno? Chi ci cucina quel passato che ci sta alle spalle e che definisce il presente in cui siamo immersi?
C’è uno chef supremo che col suo staff sovrintende alla preparazione dei diversi menù come era convinto Omero nel raccontarci la guerra nella piana di Troia e il ritorno a casa dell’intrepido Odisseo?
Oppure siamo alle prese con una cucina in coabitazione dove l’inquilino che arriva apre il frigorifero, dà un’occhiata in dispensa e mette sul fuoco e porta in tavola quello è disponibile più che ciò che è appetibile?
La ricostruzione della Storia, secondo lo scomparso presidente Cossiga – che di faccende sommerse ne aveva annusate – da sempre funziona più sul secondo modello che su quello di Omero. E Almost True sembra invitare a prenderne atto. A far sì che, sempre di più, essere cittadini significhi anche cominciare a guardare nel piatto degli eventi quotidiani. Sforzarsi, assaggiando e comparando, di capire chi è stato di turno in cucina.
Il compito non è facile. Era più semplice andare per ristoranti e stendere recensioni gastronomiche come faceva, per l’Espresso, Gault & Millau, vale a dire l’ex-capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato.
Eppure che sia tempo di guardare nel piatto e comparare ingredienti e cuochi non c’è dubbio. Lo insegnerebbe – pro domo sua, ovviamente – anche Cossiga, se fosse ancora qui e vedesse ad esempio la messa in scena attorno alla presunta trattativa tra Stato e Mafia, o dintorni e franchising di essa.
Chi incontrava l’ex-inquilino del Quirinale era stupito nel riscontrare, dentro una stessa conversazione dedicata a qualche evento passato, lo strabiliante affiancarsi nel suo discorrere di due, tre, molteplici versioni dello stesso episodio: con il rovesciarsi del ruolo, e magari delle responsabilità, degli uni sugli altri. Dai giocatori di una squadra a quelli di un’altra formazione. O di formazioni che neppure si supponeva stessero partecipando al torneo.
E quelle sfumature secondarie diventavano il fulcro su cui si “rivoltava” il canovaccio di una storia nella quale poteva accadere di tutto.
Anche che il finale apposto non fosse affatto il finale ma solo il non percepito inizio di un’altra narrazione. Come forse potrebbe essere accaduto a Bengasi. In quel lungo buco “spazio-temporale” che tutti hanno avuto fretta di dimenticare.