Altri profughi

25 Giugno 2015

“A Montecatini ai bambini quando non ubbidivano o facevano i capricci gli dicevano: stai zitto sennò ti faccio mangiare da un profugo!”

 “È doloroso che in questi momenti i profughi siano trattati come accattoni infliggendo loro l'umiliazione di rimanere pigiati per ore e ore davanti ad un ufficio per avere risposte simili”.

“In questo paese per noi tutto manca, il medico poco se ne cura dei profughi, le medicine mancano affatto, e quando se ne trovano costano enormemente, specie ai profughi. Porci, capre, asini, tutto frammischiato alla popolazione, strade ricolme di letame, senza spasini né fognatura. I profughi abitano vere topaie, magazzini adibiti a abitazioni, umidi, freddi, senza vetri o senza imposte”. (sic)

“I profughi qui sono classificati come un intruso, che venga a turbare la pace domestica, dobbiamo elemosinare di famiglia in famiglia per mangiare, le quali famiglie, quando trattasi di profughi, aumentano il prezzo ingordamente”.

“Era una stonatura quando si andava incontro ai profughi con musica e bandiere, ma è una dolorante ingiustizia, venir considerati come dei vinti mendicanti lo scarso pane altrui”.

 

Nonostante la cronaca di queste settimane possa far pensare ad altro, si tratta di voci italianissime che andrebbero pronunciate con accento veneto. Testimonianze di una pagina poco conosciuta della Grande Guerra, dei mesi successivi alla rotta di Caporetto, durante i quali la questione dei profughi veneto-friulani assume i contorni di un’autentica tragedia nazionale, definita da alcuni storici la “Caporetto interna”. L’invasione dell’esercito austro-germanico determinò infatti la fuga, lo sfollamento o lo sgombero di più di 600mila civili, costretti a vivere fino alla fine della guerra e oltre lontani da quella casa che molti, al ritorno, neanche ritrovarono. I più fortunati, in genere appartenenti ai ceti più abbienti, trovarono ospitalità nelle città del Nord, mentre a migliaia furono smistati nel Centro-Sud, anche nelle isole, dove per lo più dovettero affrontare condizioni di vita durissime. A chi fosse interessato ad approfondire, consiglio la lettura di Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra di Daniele Ceschin.

 

 

C’è però un’altra pagina di quella storia, ancora meno conosciuta, che oggi fa molto riflettere. Mi riferisco al destino dei “profughi interni”, decine di migliaia di residenti soprattutto lungo il corso del Basso Piave, e quindi in prima linea, evacuati su ordine del Comando Germanico e quindi profughi nei comuni più a est, magari a soli venti chilometri da casa. Don Antonio Riva, giovane vicario di Segusino, accompagna circa un migliaio di compaesani a Fregona, ai piedi dell’altopiano del Cansiglio. La gente vi parla lo stesso dialetto dei suoi parrocchiani, i nomi si assomigliano e si cucina la stessa polenta, tuttavia l’accoglienza sarà davvero faticosa. Ecco come ce la racconta Don Riva: “A Fregona inospitale ed egoista i miei profughi furono imposti dal Comando, che in qualche famiglia dovette usare anche le minacce perché fosse concesso loro un giaciglio strettissimo e senza fieno, od una stalla immonda ed umida. Fu detto anche che non conveniva seppellire i profughi nel cimitero, e che si provvedessero un campo”. Certo, bisogna ricordare le brutali requisizioni imposte dal nemico in quei mesi d’inverno a tutti i comuni della zona, ma quel rifiuto di seppellire i morti, insomma.

 

Storie simili si ritrovano in numerose fonti del tempo, memorie e diari privati, oltre che negli archivi comunali, se è vero che ormai a guerra finita, nel gennaio del ’19, il sindaco di Udine preme per l’immediato rimpatrio dei profughi rimasti, considerati “un mero aggravio” per la regione. Quei dodici mesi successivi allo sfondamento di Caporetto, per le genti friulano-venete furono davvero infernali. Accadde di tutto, oltre a quanto già ricordato: internamenti e lavori forzati, stupri e saccheggi generalizzati. Bisogna quindi guardarsi bene dal giudicare i comportamenti delle comunità che dovettero fronteggiare il compito di accogliere i profughi.

 

Il tema è controverso, lo dimostrano le reticenze e la difficoltà con cui è stato affrontato per decenni dalla comunità degli storici, non a caso si è fatto ricorso all’espressione “vuoto storiografico”. Ma di quel contesto vanno considerati alcuni fattori oggettivamente scomodi da trattare: un’intera classe dirigente laica in fuga, dai sindaci agli insegnanti, dai funzionari locali dello Stato agli impiegati postali, mentre – all’opposto – la grande maggioranza dei sacerdoti era rimasto vicina ai parrocchiani. Ne discenderanno polemiche accesissime, politiche e giudiziarie, accuse e controaccuse di collaborazionismo e antipatriottismo, dietro le quali possiamo ben leggere l’ancora irrisolta questione dei rapporti fra stato e chiesa. Poi ci sono occorrenze ancora più delicate, ancora più complicate da affrontare in sede storiografica: i rapporti fra civili ed eserciti occupanti, non sempre e non solo caratterizzati dalla violenza; la questione degli “orfani dei vivi”, centinaia di bimbi nati dalla guerra ma fuori dal matrimonio; il mercato nero dei generi di prima necessità e il rapido arricchimento di agricoltori e commercianti privi di scrupoli; e per finire, il pessimo funzionamento della macchina di soccorso ai profughi allestita dallo Stato, il sistema cervellotico dei sussidi, che privilegiava i dipendenti pubblici, l’impreparazione generale di tutte le strutture pubbliche coinvolte nella gestione dell’accoglienza…

 

Qui davvero emergono sconcertanti analogie con l’attualità, che certo non intendo approfondire. E’ di questi giorni, tuttavia, la pubblicazione (dei dati Istat sul bilancio nascite/morti del 2014: bisogna risalire proprio agli anni 1917/18 per registrare un saldo tanto negativo. Basterebbe questo per sentire meno lontana l’Italia di allora. Quanto alle recenti e deprecabili reazioni di alcune regioni del Nord di fronte all’arrivo dei profughi, mi verrebbe da dire che la minaccia della fame, della guerra e dei saccheggi, che ci aiuta a comprendere gli episodi di scarsa generosità di allora, oggi vale semmai a spiegare la disperazione e la fuga di chi bussa alle nostre porte.

 

Altre notizie utili e un’eccezionale documentazione fotografica sulla tragedia dei profughi veneto-friulani si possono trovare in un vecchio libro bellissimo, più volte ripubblicato: Inediti della Grande Guerra con un saggio pregevole di Gustavo Cormi da cui ho tratto numerosi spunti.

La triste storia dei profughi di Segusino si trova qui.

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