Su Sigmund Freud / Ama il prossimo tuo
“Amaci, delinquente!”
(Voi)
Nel quinto paragrafo del saggio intitolato Il disagio della civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1929), Sigmund Freud prende in esame una di quelle che chiama “pretensioni ideali della società incivilita”, il precetto “Ama il prossimo tuo come te stesso”, e propone di adottare verso di esso “un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta”. L’analisi critica che ne discende ha provocato in me, fin dalla prima lettura, un’alternanza di inquietudine, entusiasmo, riso, spavento. Con quel passo, e con le mie reazioni, ho cercato nel corso degli anni di fare i conti. Vorrei provare, qui, a ripercorrere le mie riflessioni. Non avendo io alcuna competenza in materia di psicanalisi, esse avranno un carattere del tutto personale e risulteranno – temo – persino più ingenue di quelle che l’autore auspicava.
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A conquistarmi, mentre leggevo quel passo, era la capacità di Freud di affrontare la solennità del precetto come farebbe un bambino impertinente, lasciando emergere le domande e le obiezioni che il rispetto o la vergogna ci impediscono abitualmente di formulare, o persino di concepire.
Ama il prossimo tuo come te stesso. “E perché dovremmo farlo?” ribatte il bambino sfacciato. “Che vantaggio ce ne deriva?”. E prosegue:
Ma soprattutto come arrivarci? Come ne saremo capaci? Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi, e devo essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare.
Il ragionamento – in apparenza pacato – costituisce in effetti uno sprezzante rifiuto dell’alta idea di amore implicita nel precetto. In questa prospettiva “realista” e disincantata, l’amore è un impegno gravoso, che non ci si può accollare alla cieca.
Dopo avere serenamente bestemmiato la veneranda idea di una agàpe senza limiti, Freud approfondisce e argomenta la presa di distanza dal sacro fantasma del Prossimo, e detta una lista di condizioni:
Egli lo merita se mi assomiglia in certi aspetti importanti, tanto che in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso (…) Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, mi sarà difficile amarlo. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei un segno di preferenza; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo alla pari con loro.
Quanto bruciavano, mentre le leggevo per la prima volta, queste argomentazioni; quanto mi erano familiari. Non potevo trattenermi dal ridere (un riso nervoso, come quello che scuote a volte i bambini). Al riso, però, presto subentrò un’inquietudine: il senso di liberazione che quelle rasoianti considerazioni mi infondevano aveva un retrogusto amaro. In quel modo di pensare – così ragionevole, per certi aspetti persino banale – presentivo una trappola.
Ma l’inquietudine derivava soprattutto da un senso di rispecchiamento. Nei discorsi “sfrenati” che Freud metteva in scena riconoscevo quelli che da sempre covavano in me, senza osare manifestarsi:
Se osservo più da vicino, trovo ancora delle difficoltà. Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma onestamente devo confessare che ha più diritto alla mia ostilità e persino al mio odio. Sembra non avere il minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione. Se ciò gli reca vantaggio, non esita a danneggiarmi (…) Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “Ama il tuo prossimo come il prossimo tuo ama te”, non avrei niente in contrario.
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Del mio turbamento di fronte alla dissacrazione del santo precetto, io stesso mi meravigliavo. Non avevo letto cose ben più scottanti, ad esempio, nella Genealogia della morale di Nietzsche, dove i valori a cui sono stato educato venivano addirittura bollati come “spirito del gregge” e “morale da schiavi”?
Il fatto è che mentre Nietzsche attacca i valori correnti con il piglio violento del profeta, Freud sembra ragionare senza animosità, senza sdegni apocalittici. Il suo smascheramento procede con tono sobrio, sereno, apparentemente imparziale. Era proprio questo, forse, a spaventarmi. Le sue considerazioni hanno l’aria di fare appello al comune buon senso, di fondarsi su verità risapute, addirittura ovvie. Da questa ragionevolezza mi ero lasciato conquistare; ora, però, sentivo che la logica che sulle prime mi aveva affascinato, e che mi sembrava di condividere, andava prudentemente vagliata. Quali erano i suoi presupposti, i suoi fondamenti?
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Ripercorrendo i ragionamenti di Freud (o, sarebbe meglio dire, dell’“ingenuo” a cui Freud dà voce), cercavo di mettere a fuoco l’orizzonte in cui si colloca la sua critica al precetto che sta alla base della nostra convivenza civile, e di confrontarlo col mio. Fino a che punto corrispondevano, quelle obiezioni, a ciò che sentivo? Da dove venivano, e dove portavano?
Chi, di fronte al comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”, domanda “Che vantaggio me ne deriva?” parte evidentemente dall’idea che una certa condotta possa essere considerata giusta solo quando essa ci assicura un tornaconto, materiale o morale che sia. È un tema cruciale dell’etica, sul quale si potrebbe ragionare a lungo chiamando in causa l’intera filosofia occidentale, da Socrate fino a Kant, a Schopenhauer e oltre; ma non mi sembra questo il punto centrale della lucida “antimorale” con la quale Freud ci sfida. Decisiva mi pare invece l’idea di amore che è implicita nelle diverse affermazioni (è Freud stesso a sottolineare – se ce ne fosse bisogno – che ciò di cui si discute non è il rapporto affettivo tra due individui determinati: è il mio amore verso gli altri, verso i miei simili genericamente intesi).
Per il candido immoralista che parla in queste pagine si tratta, innanzitutto, di una risorsa scarsa (“Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho diritto di gettar via sconsideratamente”).
L’amore è – potremmo interpretare – una determinata quantità di bene, o di energia, che io possiedo e di cui dispongo; è un tesoro che posso elargire o non elargire, dare a uno e negare a un altro. La sua elargizione dipende in tutto e per tutto dalla mia libera volontà.
Questa volontà, a dire il vero, è libera solo in parte: a condizionarla non sono tanto altre volontà esterne, contrastanti, quanto i vincoli che essa stessa si pone.
Il primo – lo abbiamo visto – è quello del tornaconto, del risultato. Un altro è quello del merito (“Se amo qualcuno, se lo deve meritare”). L’amore per gli altri – in questa visione “ingenua” – non conosce gratuità: come ogni spesa importante, deve sempre essere adeguatamente giustificato, motivato. Un terzo principio è quello della reciprocità: è ragionevole che io doni solo a chi garantisce di restituirmi il dono, almeno in parte. In questo spazio morale vige un principio di simmetria: amo l’altro se l’altro mi ricambia, o comunque suscita in me qualche interesse; se mi odia, mi ostacola, mi ignora, ho tutto il diritto di ripagarlo con la stessa moneta (va da sé che il precetto evangelico che comanda di amare anche i propri nemici risulta – in questo contesto – assurdo e incomprensibile).
La volontà che muove l’amore per il prossimo, nella prospettiva che ho cercato di delineare, è una volontà sempre raziocinante, calcolante. Unità di misura per i suoi calcoli è l’amore – questo sì incondizionato, assoluto, indubitabile – che ognuno prova per se stesso. La quantità di amore che io concedo o non concedo agli altri dipende di volta in volta dal loro rapporto – oggettivo o soggettivo, consapevole o inconsapevole – con quel valore primario. Amo il mio prossimo “se mi assomiglia in certi aspetti importanti, tanto che in lui io possa amare me stesso”, etc. Dato che l’amore più forte e certo è quello che nutriamo per noi stessi, è chiaro che al precetto che ci ingiunge di amare il prossimo altrettanto intensamente obbedire è impossibile, e provarci sarebbe insensato.
Quello che Freud mette in scena, insomma, è un egoismo perfettamente giustificato dalla ragione, un egoismo innocente.
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A entusiasmarmi, a una prima lettura, era questa clamorosa legittimazione dei nostri impulsi primari: ecco – espressa finalmente senza ipocrisie, con meravigliosa franchezza – la verità che si cela dietro le convenzioni, i “valori”, le petizioni di principio; una verità che nessun monito, nessun divieto può cancellare.
Il mio stesso entusiasmo, però, mi preoccupava. Secoli di civiltà non trascorrono invano; la condanna che colpisce l’egoismo non si cancella con un gesto. Io stesso faticavo a non vergognarmi della mia istintiva adesione al punto di vista del “bambino sfacciato”.
E d’altra parte – riflettevo poi – non è, quell’egoismo, già implicito nel precetto che l’“ingenuo” messo in scena da Freud contesta? L’autorità che prescrive “Ama il prossimo tuo come te stesso” non muove anch’essa dal presupposto che l’amore per se stessi costituisca un primum indubitabile?
“Tu ami certamente te stesso” – sottintende il precetto. “Ebbene, ama anche gli altri con pari intensità”.
Date le premesse, quanto vale quell’imperativo? Per amare noi stessi non abbiamo bisogno di esservi esortati; se per contrastare, per controbilanciare il nostro egoismo, è necessario un comandamento, questo significa che l’amore per gli altri è nell’uomo il sentimento meno naturale, il meno spontaneo che ci sia. Anche il nobile comandamento che lo prescrive, a ben vedere, non fa altro che ribadire il primato dell’amore di sé. E dunque?
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Se l’amore per se stessi è l’inclinazione più autentica dell’uomo, la più immediata e genuina, un’“etica dell’egoismo” come quella polemicamente delineata dai ragionamenti “ingenui” di Freud dovrebbe essere la più adatta a realizzare la nostra felicità (sempre che la felicità sia lo scopo dell’etica). Ma – mi chiedevo – è davvero possibile liberarsi dai vincoli imposti dalla civiltà, e – come Don Giovanni – farsi guidare sempre e soltanto dall’amore per se stessi?
E se pure fosse possibile: è davvero desiderabile? Quali sarebbero le conseguenze di una tale condotta? A che cosa andremmo incontro?
Se assecondassimo senza freni le nostre pulsioni, dice Freud, perderemmo l’amore degli altri.
“E con ciò?”, replicherebbe il “bambino sfacciato”.
La perdita sarebbe più grave di quel che può sembrare. È dall’amore degli altri, infatti, che dipende la nostra stessa sopravvivenza:
Se l’uomo perde l’amore degli altri da cui dipende, ci rimette anche la protezione contro molti pericoli e soprattutto si espone al rischio che la persona più forte mostri la sua superiorità punendolo. Pertanto il male è originariamente tutto ciò a causa di cui si è minacciati della perdita d’amore; è per timore di una tale perdita che bisogna evitarlo.
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Prima che un dovere morale, la repressione del nostro naturale egoismo è una necessità vitale. Di questa necessità, l’Io non è perfettamente cosciente. È il Super-io a metterlo in guardia; è lui a difenderlo dagli impulsi negativi che lo muovono (negativi – si badi – non in sé, ma in quanto potenzialmente dannosi per l’Io), spingendolo a limitare la sua spontanea aggressività e a ricercare per quanto può l’amore degli altri. A questo, in ultima analisi, sembra finalizzato lo stesso precetto “Ama il prossimo tuo come te stesso”: è bene che io ami il prossimo (o, se non altro, che faccia mostra di amarlo) nella speranza che esso mi ricambi, e mi conceda così la sua protezione. Ma le cose non procedono tanto tranquillamente. Il Super-io che regola la civiltà infatti, dice Freud, non si preoccupa abbastanza degli elementi di fatto nella costituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si chiede se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rende infelice.
Da un lato l’etica dell’egoismo, impraticabile; dall’altro il comandamento che impone di amare gli altri, irrealizzabile: il dilemma che le pagine di Freud mi prospettavano era paralizzante. Amare noi stessi quanto ci verrebbe naturale non possiamo, e d’altra parte non possiamo nemmeno amare autenticamente il prossimo. Per proteggerci dalla nostra e dall’altrui aggressività, il Super-io che regola la civiltà è costretto a tenerci in questo vicolo cieco. Lì noi viviamo (relativamente) sicuri e protetti, senza però poter fare fino in fondo né il bene nostro, né quello degli altri.
È davvero questa – mi chiedevo – la situazione dell’uomo, la mia situazione? Sarei dunque, io, un potenziale delinquente a cui solo la paura di un castigo, o del biasimo altrui, impedisce di mettere in atto i suoi crimini? Sarei un egoista che la sorveglianza del Super-io ha reso innocuo, ma anche gelido, indifferente, incapace di veri slanci verso i suoi simili, di compassione, di generosità?
Qualcosa, in me, rifiutava di accettare quelle conclusioni.
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Il rifiuto non derivava da una sbrigativa autoassoluzione a seguito di un moralistico “esame di coscienza”: non presumevo – figuriamoci – di essere innocente. Il fatto è che l’esperienza del bene, in me, era una certezza.
Con questo non voglio dire di averlo fatto, il bene, ma – in diverse circostanze della mia vita – di averne avuto esperienza, di averlo sentito circolare tra me e gli altri.
Parlarne non è facile. A rappresentarmelo nella memoria, mentre cercavo di pensarlo, era l’ombra di una circostanza, di un luogo, l’eco di un dialogo, il riflesso remoto di uno sguardo, di un’emozione. Tracce vaghe, imprecise. Sempre più chiare, però, mi apparivano le differenze tra la mia personale esperienza e l’idea di amore implicita nei calcoli dell’“innocente egoista” freudiano, da un lato, e nel precetto “Ama il prossimo” dall’altro. In entrambi, si parte dall’idea che al centro di tutto ci sia un io che ama innanzitutto se stesso. Per sua natura, questo io è contrapposto agli altri. Il suo compito (o il suo problema) è quello di amarli. Tanto nella prospettiva disincantata di Freud quanto in quella (assai più edificante) del precetto, questo amore è concepito come un fare: è l’operare di una volontà in grado di realizzare ciò che chiamiamo bene (inteso come altruismo, o come calcolato egoismo, poco importa). Il bene dipende, insomma, dalla mia volontà individuale. Era questo schema a lasciarmi in dubbio. Nella mia personale esperienza del bene, volontà e individualità avevano un ruolo molto marginale. Certo, nelle circostanze che cercavo di richiamare alla mente qualcosa facevo, e quel qualcosa ero io a volerlo; ma una cosa in me era sempre più chiara: il bene che sentivo nascere mi precedeva, non era qualcosa che io avessi prodotto. Nessun merito me ne veniva. Più che farlo, sentivo di esserci entrato, come si entra in una casa, o ci si immerge nell’acqua. A muovermi non era stata una scelta morale, una strategia pulsionale; non era stato un calcolo egoistico, né l’obbedienza al comandamento “Ama il tuo prossimo”.
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“Ama il tuo prossimo”. Si può poi obbedire a un simile comandamento? Ha senso prescrivere a qualcuno di amare questo o quello? Non è l’amore, per definizione, un libero impulso, un trasporto incondizionato? Che merito può avere, la volontà che ama il proprio simile per obbedienza a un volere più potente? Ciò che è giusto, in sostanza, è la volontà superiore a farlo, non quella che le obbedisce.
In effetti, a pensarci, le rare volte in cui ho sentito di avere fatto il bene – ma sarebbe più giusto dire: di stare nel bene, di abitarlo – io non agivo in base al dovere, impostomi, di amare gli altri. Potrei dire che agivo per una sorta di inerzia; o, se si vuole, per una irresistibile inclinazione.
Gli altri, non potevo dire di amarli. Come si può amare una mera negatività, un’astratta, generica differenza, che non ha corpo, né volto? Di volta in volta, mi trovavo ad amare – quasi senza rendermene conto – la persona, le persone che mi capitava di avere di fronte. Ma a conquistarmi era soprattutto quello che ci metteva lì, nella stessa luce, a guardare e ad essere visti, a parlare e ad ascoltare, a salutare e a ricambiare il saluto, era quello che accendeva il nostro incontro, il nostro dialogo. Una impersonale maestà mi teneva nelle sue mani.
Sfuggiva ad ogni calcolo, quella maestà. Non prescriveva nulla. A muovermi, a spingermi irresistibilmente verso le presenze dei miei simili, non era il timore di un castigo, la ricerca di un risultato, di un tornaconto, non era la realizzazione di un valore, né il conseguimento della mia personale felicità.
Se dovessi dare un nome a ciò che mi attraversava, lo chiamerei gioia.
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Mi fermo. Rileggo le ultime righe, e provo un senso di disagio. Non sto correndo troppo? L’immagine di me che emerge da questi appunti – me ne rendo conto – può risultare urtante. Voglio forse far credere di essere un’anima bella, tutta pervasa dall’amore per gli altri? Chi mi conosce sa che non è così. Io sono – e ne sono ben conscio – la persona più scostante, più diffidente, più chiusa che si possa immaginare. Verso il prossimo provo innanzitutto fastidio, sospetto; spesso – troppo spesso, ahimè – un’invincibile, tormentosa estraneità. I miei simili – tranne poche eccezioni – mi disturbano; a volte mi fanno paura, altre volte una pena insopportabile; nei casi meno gravi, mi annoiano. Eppure, l’esperienza di cui ho cercato come potevo di dar conto –l’esperienza del bene, della gioia – è in me più forte di ogni altra. È lei a dare un senso a tutto il resto. L’insofferenza, la paura, la diffidenza, io le sento come uno strato di nebbia, cupo e ribollente, sotto il quale ridono, fermissimi, i colori del suolo che mi sostiene. Ma quando, e come, quella nebbia si dirada? Che cosa mi fa rivedere quei colori, mi fa risentire la cara pressione di quel suolo?
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Se ci penso, la chiave di tutto sono le parole. È nelle parole che io ritrovo – a volte – la gioia che mi spinge verso gli altri. Quando, scrivendo, devo misurarmi con la mia lingua, quando la sento suonare in me e in chi ho davanti, quando in una conversazione ognuno dice (o si sforza di dire) ciò che va detto, e lo fa senza formule rifritte, con cautela, con vera meraviglia, cercando dentro di sé la fonte immemorabile del nostro parlare, io sto bene. Sto nel bene.
Questo dipende, certo, dal fatto che sulle parole si fonda il mio mestiere; a loro mi sono sentito chiamato fin da bambino; in loro – attraverso di loro – realizzo, come posso, ciò che sono. Ma la gioia che dico non è la soddisfazione personale, il privato piacere che può venirmi dalla pratica dello strumento a me più congeniale (la gioia in effetti precede la mia inclinazione alla parola: ne è la fonte). Se cerco di mettere a fuoco gli attimi in cui mi sono sentito nel bene, mi accorgo che la sensazione prevalente era quella di essere liberato dalla mia individualità più ovvia e superficiale. Quella che chiamo gioia è un’esperienza impersonale. Non la felicità di un determinato individuo: l’esultanza di qualcosa che ci precede e ci attraversa. Questo non significa che in quei momenti non fossi più io: non sto parlando di un’esperienza mistica, soprannaturale. Ero la persona che sempre sono, ma una parte più profonda di me si affidava al linguaggio, con l’abbandono di cui solo i bambini sono a volte capaci.
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Mi fermo di nuovo. A chi lo intende principalmente come sacrificio di sé, soccorso, cura, consolazione degli altri, il bene di cui parlo apparirà probabilmente come un alibi ridicolo, un comodo travestimento dell’egoismo, se non un’ipocrisia bella e buona. Altro che parole! Il prossimo bisogna amarlo nei fatti.
Lo confesso: non sono un medico, né un barelliere. Non sono una suora. Non so guarire, soccorrere, non so confortare. Il gesto che consola, la carezza che risolleva, non li ho imparati mai. Sono le mie dita, i miei muscoli, a non saperli. Quando cerco di imitare quella carezza, quel gesto, tutto prende il sapore di una mediocre commedia. E tuttavia, non posso dire di essere un egoista compiuto, del tutto indifferente alla vita dei miei simili. L’ho detto: ciò che mi lega a loro sono innanzitutto le parole. Le parole amano il prossimo, e amano l’io. Casa, albero, nuvola, cane: qui io e prossimo concordano e convengono, si abbracciano fino a confondersi.
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Fin da quando ho imparato a parlare, poi a leggere e a scrivere, le parole sono state per me delle potenze immortali: divinità raggianti che da un luogo remoto e inviolabile mi si paravano dinnanzi. Io non sapevo niente, ero piccolo, mi ero appena affacciato al mondo, e loro – eterne – mi conoscevano da sempre, meglio di quanto io stesso mi conoscessi. In loro ascoltavo e leggevo il mio segreto più intimo, ciò che ero; o dovrei dire: ciò che mi era. Quello che mi spingeva ad ammirarle, a venerarle, era vedere che – per quanto corressero da una bocca all’altra, da un libro a una scatoletta di carne, per quanto venissero stampate e scritte, urlate e sospirate, adoperate in mille modi da questo e da quello – non appartenevano a nessuno.
Certo, nella nostra esperienza le parole hanno per lo più un locutore. È questo a sviarci, a confonderci: qualcuno parla, e noi siamo portati a pensare che le parole siano sue, così come le nostre appartengono a noi. Di chi siano davvero, che cosa sia il bene che in loro opera, ho creduto di capirlo negli anni leggendo quelle che da tempo avevano perduto la loro fonte vivente: quelle da cui i poeti, i filosofi, i grandi narratori si erano separati, per farmene dono. Senza conoscermi, senza aspettarsi da me una ricompensa, una lode, questi uomini avevano cercato le parole che mi dicevano, le avevano riconosciute, coltivate, le avevano fatte germogliare. Dalle loro pagine sentivo salire un amore che non conosceva calcoli, un bene che traboccava senza condizioni.
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Non è così che il bene si fa? Non è così che l’amore circola tra noi? Così come non posso impedirmi di capire una frase pronunciata nella mia lingua, allo stesso modo non posso evitare di dare amore al mio prossimo, e di riceverne. Quanto c’è di cosciente, di intenzionale, in questo bene che si finisce per fare? A maggio, l’ippocastano fa piovere i suoi fiori su di noi, ci benedice con il suo verde e coi suoi profumi. Non potrebbe fare altrimenti. Spesso – me ne ricordo – i miei simili mi hanno beneficato senza saperlo, per il solo fatto di rivolgermi la parola, di darmi ascolto, o anche solo di essere presenti, e di riconoscere che anch’io ero lì. Mi hanno regalato le loro belle facce, la grazia dei loro gesti, delle loro voci. E io? Se penso alle occasioni in cui mi è sembrato che l’amore scorresse da me verso gli altri, e che di là ripiovesse su di me, sono portato a escludere che questo fosse il frutto di un calcolo, o dell’obbedienza a regole e precetti. Il più delle volte, l’impulso che mi muoveva era paragonabile a quello che spinge la pioggia a cadere, il muro a star dritto. Donarsi agli altri è – in un certo senso – inevitabile. La prescrizione di amarli serve a mettere un limite alle offese che i peggiori tendono ad arrecare ai loro simili, ma il vero “amore per il prossimo” opera in noi – io credo – quando meno ce ne rendiamo conto. Il bene non è un tesoro che io detengo, e che posso decidere di elargire o di tenere per me: è un soffio inesauribile che sta alle spalle della mia e dell’altrui volontà, un’aria che spira tra noi, senza che l’abbiamo deciso. Il bene è troppo grande perché noi possiamo farlo. Al più, possiamo riconoscerlo quando ci passa accanto, sentirlo in noi e negli altri, lasciarlo scorrere. Ed è già molto.