Barbey D’Aurevilly: diari di un dandy

24 Novembre 2023

«Me ne vado a ricominciare un Diario. La cosa durerà il tempo che Dio vorrà, cioè a dire la noia che è il dio della mia vita». Inizia così, con quest'apertura implacabile, sbavata sottotraccia da un sottile cinismo, il primo dei cinque Memorandum scritti da Jules Barbey d'Aurevilly. È il 13 agosto del 1836. Siamo a Parigi. La noia, primo dio di Barbey, è una specie di metronomo che costella la sua esistenza. Le pagine di questi Diari vorrebbero lenirla, contrastarla. Il ritmo della scrittura si sviluppa, si arresta, è scossa da improvvise accensioni foglio dopo foglio. La mano scorre sulla pagina bianca mentre, sul fondo, riverbera il suono di questo sentimento importuno: una specie di basso continuo. Scrivere. Si ha l'impressione che Barbey non abbia fatto altro nella vita. Circondato dalla noia, cerca di tenersi impegnato: libri, diari, lettere. Un universo fatto di inchiostro fluttua e cerca di lenire, sovrastare, il tedio oceanico che lo circonda e lo assilla. Per tenersi impegnato, durante la sua esistenza si inventa pure commentatore politico. Lavora nella redazione di giornali e riviste, ad esempio il Nouvelliste – si documenta, studia, affronta con impegno tutte le questioni politiche legate all'attualità, giusto per vincere il suo dio, ma il risultato è scoraggiante, non prova alcun sollievo: «Hanno dunque mentito, quelli che dicono che la noia e lo scoramento sono la sorte degli oziosi, perché ora io sono occupato e attivo! No! c'è in me qualcosa di inguaribile e che la vita di primo ministro non mi impedirebbe di provare». L'ozio non è per tutti. 

Rampollo di stirpe nobile, nato nel 1808 sulla Manica, presso Saint-Sauveur-le-Vicomte (detesterà sempre la calma piatta del Mediterraneo: «mare d'oliva», lo definisce), è ancora giovanissimo quando viene respinto da una scuola militare. Pubblica il primo poema a sedici anni, nel 1824: Aux héros de Thermopyles. Studia a Parigi, dove stringe amicizia con Maurice de Guérin, colui che giocherà un ruolo decisivo nella sua decisione di scrivere i Memoranda, finalmente disponibili in lingua italiana grazie ai tipi di Aragno (Jules-Amédée Barbey D'Aurevilly, Memoranda, a cura di Vito Sorbello, Nino Aragno Editore, 2022). È tentato dalla carriera militare, ma il padre gliela nega. Studia Legge a Caen e continua a scrivere (Le Cachet d'onyx); ha una relazione con la sposa di suo cugino, Louise Cantru de Costils: ha un carattere impetuoso. Nel 1933, dopo aver sostenuto la tesi, lascia la provincia. Torna a Parigi. Si crogiola nella dissipazione. Sogna una carriera da diplomatico o politico. Fonda riviste insieme ad amici. Durano il tempo un numero, come “La Revue de Caen” (vi pubblica il suo Léa). Scrive incessantemente. Frequenta salotti, dimostrando una spiccata fascinazione per le donne, anzi, per la “donna” (il fratello lo chiama “anacoreta da boudoir”). Si atteggia a dandy (vale la pena recuperare il suo magnifico Del dandismo e di George Brummell, Marginalia, 1981). Roger Kempf, nel suo Dandies. Baudelaire e Amici (Bompiani, 1980), ricorda che: «Nel 1855, incarcerato per tre giorni essendosi rifiutato di servire nei ranghi della Guardia Nazionale, Barbey D'Aurevilly preferisce rinunciare a scrivere piuttosto che utilizzare la carta da droghiere che gli viene recata: “L'anima del vecchio Brummell si è levata dentro di me, impedendo che mi contaminassi con quegli orrori borghesi”». Dilapida fortune in capi d'abbigliamento. È un eccentrico che si diverte a combinare indumenti: oggi lo potremmo considerare un fanatico dell'armocromia. Consegna brevi manu a una baronessa il Brummell, stampato in una trentina di esemplari. Si premura di farle avere l'esemplare su carta d'Olanda con la copertina grigia. La rilegatura è fondamentale: offre il tocco finale all'eccentricità. Jules Renard menziona i libri che Barbey ha donato a Marthe Brandès, un'attrice teatrale: «belli come toreador, adorni di dediche vergate con sangue rosso e sangue blu». Ma ancora non basta. Quando le offre una copia delle Diaboliche sceglie una rilegatura in nero e si presenta con un abito intonato. Per il dandy, l'abito e la frase si muovono all'unisono. Va pazzo per le note. Quando corregge il Brummell, Kempf ricorda come le note «venivano redatte direttamente sul margine delle bozze. Era ciò che Barbey chiamava “dipanare la frangia”: “Avvertitemi, quando volete un po' di frangia, e ve ne spedirò senza indugio. Mi diverto a scrivere queste note, e poi completano validamente il testo”». Eppure, del dandy gli manca il senso del distacco. L'indifferenza che esibisce è una posa. Le passioni lo divorano. Se la noia può considerarsi tale (una passione), ebbene, supera di certo quella per le note (anche se nella seconda edizione del Brummell troviamo una nota della nota – Barbey, forse, amava le cose alla “seconda potenza”, proprio Schlegel nel frammento 110 dell'Athenaeum). Vito Sorbello, nell'introduzione all'edizione italiana dei Memoranda, lo considera un dandy a intermittenza. Questa sottile impostura è smascherata da Édmond de Goncourt. In una pagina del suo Journal lo descrive così: «Uno scrittore la cui fama è legata soprattutto al suo costume di vanesio, al cattivo gusto delle sue cravatte dai galloni d'oro, ai suoi pantaloni grigio perla a bande nere, alle sue redingote a sbuffo, ai guanti con risvolti, insomma al carnevale che si porta addosso tutto l'anno per le vie». 

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Nel suo Il libro a venire Maurice Blanchot ha ben spiegato come l'interesse del diario risieda innanzitutto nella sua irrilevanza. Kafka, Joubert, Rilke: il diario può testimoniare dell'esperienza creatrice, certo. Per altri è semplicemente quell'àncora che graffia il fondo del quotidiano, non lesinando vanità. Nel diario, sottolinea Blanchot, è presente la «felice compensazione reciproca di una duplice nullità. Chi non fa niente della sua vita, scrive che non fa niente, e così si trova di fronte ugualmente a qualcosa di fatto. Chi non scrive perché si lascia sviare dalla futilità della giornata, si volge a questi niente per raccontarli, denunciarli o compiacervisi, e la giornata è riempita». Che fa Barbey? I cinque Memoranda rispondono a ognuna delle opzioni indicate da Blanchot. 

Ma cosa lo spinge a redigere un diario? Un contratto: quello che egli stipula con l'amico Guérin. Il Diario allora, la sua scrittura, non implica solo il dispaccio giornaliero della vita di un uomo, ma convoca una sorta di “testo su commissione”. I primi due “Memorandum” vengono scritti su domanda di Guérin (il primo data 13 agosto 1836 – 6 aprile 1838; il secondo 13 giugno 1838 – 22 gennaio 1839). Una volta defunto l'amico, è su richiesta di un altro conoscente – Trebutien (sorta di Guérin II) – che Barbey redige il terzo (28 settembre – 8 ottobre 1856). Il quarto è l'unico senza committente (16 – 28 settembre 1856); mentre il quinto è dedicato all'Angelo bianco, Madame de Bouglon (redatto dal 30 novembre al 18 dicembre 1864). 

Dunque – che cos'è un diario quando è scritto su “commissione”? In questo giornale di bordo su cui vengono annotate amenità, tutta l'insignificanza della vita quotidiana – spostamenti di città, letture (Barbey è un lettore infaticabile), incontri e appuntamenti, tempo smarrito nella scelta degli abiti («Come ho scritto a quella civetta di A..., vestirsi, chiacchierare e svestirsi, ecco una parte delle gravi occupazioni di qui»), la redazione di testi, le visite dei parenti, il cibo mangiato, il caffè, le osservazioni meteorologiche, il tedio continuo, l'umore variabile, la ricerca di una occupazione stabile, l'insonnia e l'oppio come sonnifero e molto altro – è come se le fluttuazioni della vita venissero cadenzate da una sorta di orologio, il cui ticchettio marca il tempo. A volte lo scoramento è così forte da spingerlo a interrompere la redazione. Ma c'è un accordo da rispettare. Si entusiasma quando  tratteggia ritratti femminili (le numerose donne che appaiono nelle pagine dei Memoranda sono magnifici ritratti colti in movimento). Pagine di estrema vividezza descrittiva. Grande è la sua capacità di osservazione. Tutte le cose viste vengono registrate e tradotte sulla pagina scritta. Un esempio dal primo Memorandum: il ritratto della cognata, giunta a pranzo. 

 

«Fatta ogni riflessione e per giustificare lo scopo di questo Memorandum, mi occorre scrivere questo ritratto. Lei è una bambina, non per l'età, cosa fastidiosa! - Lei ha ventiquattro anni, gli uomini vogliono che non sia più giovane.  Non è bella, piccola, minuta, meno flessibile di un ramo di agrifoglio. Tuttavia ci somiglia. Detesto le donne di questa natura, perché anche le bambine hanno delle forme o devono averne. Bruni i capelli, forti i tratti, malfatti i piedi, anche se piccoli, delicata la mano, ma senza eleganza. Carnagione bruna, ma rischiarata da mille chiarori mutevoli. Cosa pregevole e molto bella. Oggi è di un colore aranciato e matto, domani sarà di un bianco quasi puro, tendente al rosa, arrossendo con una rapidità elettrica – poi una folla di gradazioni nei colori che marmorizzano la carne. Tutte queste variazioni producono in questa donna un'ombra di passione. Oh! Una parvenza, una falsa apparenza di vita, perché lei della passione conosce soltanto la parola che la esprime e che non l'ha nemmeno fatta sognare. – I suoi occhi sono menzogne e trappole. Di un nero profondo e senza alcuna screziatura. Più oblunghi che grandi, con delle palpebre così nere che sembrano umide, abbastanza dolci, malgrado dei sopraccigli come quelli di Giove Olimpo. – Si direbbe che l'adulterio riposi assopito in fondo a tutta questa notte, nebulosa e scura; e probabilmente lei vivrà la sua vita tranquillamente, oscuramente, senza perdere niente della sua innocenza, senza sapere niente, sentire niente!». 

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Huysmans, Villiers de l'isle-Adam, Gautier, Baudelaire: Jean Louis Schefer nota come il secolo di Barbey sia cadenzato da un'efflorescenza di stati d'epidermide. Lupus, sifilide, stati di cancrena. Come se queste affezioni che tormentano la pelle fossero in realtà il sintomo di un malessere storico-sociale. Lo sviluppo industriale, il movimento sociale, l'economia diffusa: il mondo cambia. Le pagine di Barbey colgono tutto questo, lo fanno circolare nelle continue lagnanze disseminate nei Memoranda, o nei colori scuri del cielo, nelle descrizioni dei corpi femminili (“idoli di perversità”, donne-vampiro), nelle descrizioni del paesaggio ostile in certi suoi romanzi (Una storia senza nome, La stregata, Il cavaliere delle Touches, Un prete sposato). Nel suo “Barbey anatomiste morale”, Schefer sottolinea: «Barbey legge la storia del suo secolo come fosse scritta da Bousset: essa comporta smarrimenti, maledizioni, una remota reazione divina». Il corpo è esposto a questo malessere: «Biancastro (le aponeurosi tanto care a Taine), ingiallito e verdastro, il corpo rende dei colori; è contemporaneo alle prime descrizioni di giardini con fiori sofferenti, piante appassite e vegetazione senza sole». Queste righe potrebbero fungere da appendice al ritratto che egli fa della cugina.

Adoro, della scrittura di Barbey, i momenti percussivi, quasi telegrafici, cadenzati dall'uso del trattino. Come se l'esistenza stessa non fosse altro che un insieme di avvenimenti anodini, finiti in una sorta di macchina industriale che li disperde in maniera anonima, con la freddezza di un esame autoptico. 

Esistono poi altri testi che potremmo definire intimi, personali, non destinati originariamente alla pubblicazione. Contengono riflessioni, note di lettura e di viaggio, aforismi fulminanti. Disjecta Membra, Omnia: condividono con i Memoranda anche il titolo in latino. Il secondo contiene pagine magnifiche sulle pietre minerali (la maestà della natura in uno spazio minuscolo, ricorda Plinio). Rubino, zaffiro: «Per verificare la purezza del colore di una pietra, questa deve apparire nera sotto qualsiasi altra luce che la propria». I Disjecta Membra vengono redatti sulle pagine spesse di un grande volume rilegato, rosso zigrino. Ogni pagina è una sorta di tessuto d'arlecchino, multicolore, percorsa da diversi tipi di inchiostro: nero, rosso sangue, verde smeraldo, viola, giallo. Vi appaiono disegni, schizzi, piccoli ritratti che separano spesso i paragrafi. I Memoranda sono invece segnati da un unico tipo di inchiostro, senza alcuna concessione grafica. Dal secondo al terzo, passano diciassette anni. L'amico Guérin è morto. Sarà Trebutien, altro sodale, il nuovo committente. Chiamato anche Memorandum di Caen, è circoscritto tra settembre-ottobre 1986. Barbey fa ritorno al paese della sua giovinezza. Lo trova irriconoscibile. Tutto è cambiato. Il tempo e il progresso hanno modificato gli uomini, le cose. L'euforia del dandy lascia spazio a un senso di desolazione.

Unico momento di pace, la visita al padiglione dove aveva alloggiato l'adorato Brummell negli ultimi tempi della sua vita. Oltre a questo, frequenta la Galleria del museo cittadino e la collezione privata di Georges Mancel. La sua penna si accende. Il Terzo Memorandum contiene  alcune delle più vivide descrizioni di quadri. Con piglio ecfrastico, Barbey si trasforma in un valente critico d'arte – un volume, L'amour de l'art (Séguier, 1993), raccoglie i suoi scritti sull'argomento. Nella Galleria si sofferma davanti alla Tentazione di Sant'Antonio di Paolo Veronese:

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«C'è poi un Paolo Veronese, di una luce, di un colore, di un'opulenza e di un vigore di composizione stupefacenti. – È una Tentazione di Sant'Antonio. – Il santo riverso per la folgorazione di quest'apparizione, di una bellezza infernalmente incantevole, che si china su di lui per abbracciarlo, ha voluto sottrarsi alla malia di questa vista terribile, nascondendo gli occhi e il viso nella sua mano, ma la Sirena dell'inferno ha preso la mano del Santo la tiene nella sua, costringendolo a guardarla. Questo movimento è di un'audacia espressiva, intraducibile qui. Bisogna vederla. La tentatrice tiene la mano del Santo stretta nella sua mano fondente, con un fremito di dita quasi osceno, e gli protende il petto nudo, – un petto di Astarte – tutto vicino al viso, come un cesto di uva matura nella quale lei gli direbbe: Mordi! – Il Santo è un meraviglioso atleta, così forte quanto la donna è bella; – attacco e resistenza si equilibrano. – Tutte le forze della vita ribollono in questo magnifico quadro, uno dei più voluttuosi del Rinascimento. – Il Santo è nell'ombra, perché tali sogni e tali sensazioni vengono solo la notte, e la donna è illuminata da una luce crepuscolare misteriosa, che mitiga e satina le arditezze osé di questi contorni che lei prodiga con uno sguardo così sicuro di sé». 

La descrizione del dipinto presenta una bizzarra omissione. La indica Vito Sorbello nella sua introduzione. Sono tre le figure che spiccano nel Sant'Antonio di Veronese: il santo, la sirena e un fauno satanico che sta proprio nel mezzo. È proprio il fauno a stringere il collo al santo con una mano fasciata da dita provviste di artigli. Perché trascurare questi particolari diabolici? Per Barbey l'inferno è tutto nei recessi della carne e della sessualità, scrive Sorbello: «Il diavolo si presenta il più delle volte sotto le seducenti fattezze dell'eterno femminino». 

E allora, forse, questi corpi descritti incessantemente nelle sue pagine avviano una sorta di circolazione romanzesca del desiderio. Nei suoi romanzi, così come nelle accensioni dei Memoranda, qualcosa come la possibilità di un crimine, la violenza ferina di un amore satanico, circola attraverso ritratti mobili di donne dai colori cerulei, nauseabondi, o a volte simili a quelli di un fantasma, di una pianta sofferente. Noi siamo gli spettatori di questo teatro del desiderio su cui si muovono figure in uno stato di anamorfosi, sul fondo di un secolo che egli non riconosce più. 

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