Werner Herzog: questioni di traduzione
«I miei scritti sopravviveranno ai miei film». Sono passati pochi minuti dall'applauso caloroso che ha accolto Werner Herzog qui a Babel, il festival di letteratura e traduzione che si tiene da 18 anni a Bellinzona. Il Teatro Sociale è un piccolo gioiello, un teatro all'italiana stipato in ogni ordine di posto. Herzog dialoga con il poeta ticinese Fabio Pusterla. Per una volta, lo sottolinea lo stesso Pusterla, l'incontro verterà sul suo lavoro di scrittore, non sui numerosi film che ha realizzato. Herzog annuisce. Io pure. Le pagine dei suoi libri mi hanno sempre intrigato, a volte più dei film che ha realizzato. L'incontro verterà sul suo rapporto con la scrittura, lasciando sul fondo il resto. Sono due i libri che verranno presi in esame: Sentieri nel ghiaccio, pubblicato in tedesco nel 1978, (in italiano, due anni dopo, per i tipi di Guanda) e Il crepuscolo del mondo (Feltrinelli 2021). Sempre Feltrinelli ha pochi giorni fa editato la biografia di Herzog. Biografia? Il racconto della sua vita: Ognuno per sé e Dio contro tutti (cioè il titolo originale di quel film che in italiano diventerà L'enigma di Kaspar Hauser). Il programma è lodevole. Il piano verrà però inevitabilmente trasgredito. Le deviazioni filmiche saranno numerose. Poco male. Però, a me resta un dubbio: i libri sopravviveranno ai film per banali motivi di “copia” e di conservazione, o per il loro valore intrinseco?
Sul palco ci sono due uomini seduti. Un tavolino li separa. Sul bordo destro, ai limiti della ribalta, vedo invece una specie di abitacolo in legno. Deve essere la postazione del traduttore. Herzog, munito di auricolare, parla in inglese. Pusterla, microfonato, pone domande in italiano. Qualcuno, lì dentro, smista le frasi e le traduce in simultanea al cineasta-scrittore. Questa situazione di trasferimento linguistico si farà vertiginosa una volta giunto il momento delle domande del pubblico. In italiano, vengono esternate riflessioni, osservazioni, domande. Pusterla si fa carico di condensare le parole dell'emittente a Herzog, anzi, alla cabina di traduzione, che, a sua volta, le girerà in inglese all'ospite. Osservando quest'invisibile triangolazione, penso per un attimo a quanto andrà perso durante questa traversata verbale.
Mi dico che un festival della traduzione è interessante anche per questo. Di certo, la questione è cara a Herzog, visto che le sue prime osservazioni sono dedicate proprio all'atto del tradurre, del far transitare vocaboli o semplici segni di interpunzione da una pagina tipografica all'altra. Quasi scusandosi segnala due sviste nelle edizioni italiane dei suoi libri. (Dunque, se è vero quello che dice, e cioè che i suoi scritti sopravviveranno ai suoi film, nella nostra lingua verranno mai emendati quei piccoli errori?) La prima la troviamo in chiusura della “biografia” appena pubblicata. Nell'introduzione, riflettendo su quale possa essere il modo migliore per chiudere un'opera, Herzog si sofferma sul finale del suo Aguirre, furore di Dio. Afferma che una dose di imprevedibilità ci accompagna nella vita. Come un buon soldato, sostiene di aver potuto sempre contare sul suo senso del dovere, la lealtà, il coraggio. «Ho sempre voluto presidiare gli avamposti che gli altri abbandonavano preferendo la fuga. Quanto di tutto ciò era prevedibile?» Giunge qui, inevitabile, il riferimento al soldato giapponese Hiroo Onoda, che per ben ventinove anni presidiò un territorio convinto che la Seconda guerra mondiale fosse ancora in corso. «Del soldato giapponese Hiroo Onoda, che si arrese solo ventinove anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ho imparato che nella luce della sera si può vedere un proiettile tranciante, puntato contro di te. Allora, per un istante si può scorgere il futuro». Questo momento unico, capace di rompere il flusso continuo del tempo, viene menzionato da Herzog lì sul palco del Teatro. Qualcosa di simile gli è capitato mentre si accingeva a chiudere la sua “biografia”. E l'introduzione si chiude infatti ricordando proprio quel momento: «Stavo terminando la stesura del libro, quando ho sollevato lo sguardo perché, fuori dalla finestra, avevo visto qualcosa lampeggiare e sfrecciare verso di me. Brillava di un verde chiaro, ramato. Ma non era un proiettile, bensì un colibrì. In quel momento ho deciso di fermarmi. L'ultima frase s'interrompe semplicemente dove ero appena arrivato». Così, Herzog sfoglia l'edizione italiana del libro, giunge all'ultima pagina. Chiede a Pusterla di leggere le ultime righe: «Lì, ai piedi del muro di cemento, ci sarebbe un'infiltrazione cristallina dalle rocce laterali, visitata da branchi di cervi, come se...». Il respiro è lirico, ma qualcosa non torna. Herzog lo sottolinea. Qualcuno (il traduttore dell'edizione italiana?) ha aggiunto quei tre punti di sospensione che lo scrittore non aveva mai inserito. Perché? Ecco un buon problema di traduzione. Per Herzog l'ultima frase si interrompe nel momento in cui vede baluginare quel colibrì. L'edizione italiana ha forse voluto rendere più morbido quel brusco arresto, che sfocia nel bianco della pagina, inserendovi tre puntini. Segni tipografici che sfumano, fanno planare ciò che per Herzog invece si interrompeva in modo fulmineo.
Altro esempio. Il finale di Sentieri nel ghiaccio. Venuto a conoscenza delle gravi condizioni di salute della storica del cinema Lotte Eisner, ricoverata a Parigi, Herzog decide di incamminarsi a piedi verso la capitale francese, convinto che sarebbe rimasta in vita se lui fosse giunto fin lì a piedi. Dopo aver camminato dal 23 novembre al 14 dicembre 1974, percorrendo la distanza che separa Monaco da Parigi, Herzog giunge al capezzale di Eisner. Sabato 14.12, egli scrive, e Pusterla legge: «Sono andato dalla Eisner, era ancora spossata e segnata dalla malattia. Qualcuno doveva averle detto per telefono che io ero arrivato a piedi; io non volevo dirlo. Ero imbarazzato e ho steso le gambe dolenti su una seconda sedia che lei mi ha spinto davanti. Nell'imbarazzo mi è passata per la testa una cosa e dato che la situazione era comunque strana, gliel'ho detta. Insieme, ho detto, faremo fuoco e arrostiremo i pesci. Allora lei mi ha guardato con un lieve sorriso e poiché sapeva che ero uno che andava a piedi e perciò un indifeso, mi ha compreso. Per un solo istante, senza peso, per il mio corpo esausto è passato come un soffio di dolcezza. Ho detto: apra la finestra, da qualche giorno io so volare». Finale straordinario, commovente. Eppure, c'è un problema. La traduzione italiana (stiamo parlando di Anna Maria Carpi, illustre germanista, massima esperta di Kleist) ha normalizzato una riga, credendo probabilmente di essere incappata in un refuso, un'inversione di termini presente nell'edizione originale. Ecco l'originale: «Zusammen, sagte ich, werden wir Feuer kochen und Fische anhalten». «Insieme, dissi io, cucineremo il fuoco e fermeremo il pesce». Questa la traduzione letterale, che nell'edizione Guanda è diventata: «Insieme, ho detto, faremo fuoco e arrostiremo i pesci». Ma è proprio a causa di questa stramberia sintattica che la Eisner sorride lievemente e lo comprende. Herzog era certamente esausto, ma capace di volare.
Sul palco, Herzog segnala queste piccole discrepanze, le indica quasi con pudore, per paura di risultare pedante. Eppure, sempre a proposito di traduzioni, trasferimenti, mi viene da pensare che non abbia poi avuto grandi scrupoli a “riquadrare” il formato 1.37:1 del 16mm originale filmato dai Krafft in un formato digitale più allungato, tagliando le parti in alto e in basso del fotogramma, nel suo The fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft. Vorrei chiedergliene conto, ma, grazie al cielo, oggi si parla di libri e non di film.
Vulcani a parte, deve esistere una specie di follia legata al camminare, sostiene Herzog (che ci tiene però a sottolineare di essere “clinically sane” – clinicamente sano; ecco una cosa che non gli manca: l'ironia). Camminare permette alla parola di rivelarsi. La camminata fa vedere. Herzog si sente prossimo a Robert Walser, a Friedrich Hölderlin – ovviamente a Bruce Chatwin. Tutti grandi camminatori. E come Walser, anche Herzog riempie taccuini, le cui pagine sono infittite da una scrittura minuscola, quasi incomprensibile. Non si contano i viaggi che ha intrapreso. Molti li trovate menzionati nella bellissima “biografia”. Il tentativo di raggiungere il Congo. O quello di percorrere l'intera Germania in tondo, nel 1982, partendo da Sachrang, il paesino della sua infanzia; avventura interrotta dopo un migliaio di chilometri per problemi di salute. «Partii dalla cappella Ölberg, appena fuori Sachrang, proprio al confine dell'Austria, e salii sullo Spitzstein, come aveva fatto a suo tempo Siegel Hans, e da lì, come lui, volevo seguire il confine verso ovest fino a ricongiungermi a est con il Geigelstein». Restano alcuni frammenti del taccuino, che lo stesso Herzog ha ricopiato:
Mentre camminavo con passo costante, ho visto dei campi di ghiaccio. Si stendevano davanti a me fino ai ghiacciai e alle cime innevate di Spitsbergen. Si avvicinavano sempre di più fino a diventare realtà. Sono scivolato e sono finito sotto il parapetto del balcone ghiacciato di un castello barocco. Sono precipitato nelle gole profonde delle lingue del ghiacciaio che si staccavano bruscamente davanti a me gettandosi nell'Elba. Era veramente l'Elba, o era lo Enisej in Siberia? Non avrei saputo dirlo.In preda a un improvviso terrore, ho capito che quell'improvvisa caduta sarebbe stata la mia fine, ma, mentre oscillavo nell'aria, ho avuto la prontezza di dare una direzione alla mia traiettoria, con le braccia aperte come un paracadutista che veleggia verso i suoi compagni per creare una formazione, in modo tale da evitare, centinaia di metri più in basso, il bordo tagliente delle lastre di ghiaccio e finire nelle acque gelide dell'Elba, che però in questi giorni anziché acqua... (I tre puntini di sospensione stavolta saranno suoi?)
Camminare significa allora imparare a vedere, a sentire. Significa attivare i propri sensi, renderli porosi, ricettivi a qualsiasi minimo cambiamento atmosferico, a qualsiasi imprevisto: come la vista improvvisa, all'interno del raggio luminoso, di un colibrì. Sono momenti che diventano unici. A volte sublimi. Illuminazioni (ma, come osserva lo stesso Herzog, rispondendo a una sollecitazione di Pusterla: «Bisogna permettere alle illuminazioni di giungere inaspettate: non si può essere poeti ventiquattro ore al giorno»). Si tratta ovviamente di tradurre queste sensazioni su carta. Dando loro una forma. Quanto resti del primo getto, quanto venga riscritto e modificato, è una questione che avrebbe potuto essere discussa. Avrebbe permesso di penetrare all'interno del suo laboratorio di scrittura. Allo stesso modo, dicasi per il rapporto tra visione e memoria. Colui che cammina, colui che viaggia è forse davvero un soggetto sperimentale, qualcuno in grado di cogliere l'energia di alcuni eventi, e in grado poi di trasportare questi dati sensibili, facendone scrittura. Un'opera. Vale la pena ricordare che di alcuni taccuini Herzog non aveva previsto la pubblicazione. Il fatto che abbia deciso di editarli, indica forse che il tempo vi ha lavorato spargendo sulle pagine una sorta di anonimato, come se l'io che le aveva scritte le considerasse, ora, distanti da sé. Come se ad averle scritte fosse stato qualcuno che si fatica a riconoscere, rapito in una specie di estasi.
Giornale di bordo. Diario di viaggio perforato da improvvise accensioni, illuminazioni. Qualcosa mi fa pensare a certe pagine di Darwin, quelle in cui il naturalista inglese passa improvvisamente dal plurale maiestatis alla prima persona, come in quella pagina del 20 febbraio 1835, dopo un terremoto in Cile: «Questo giorno resterà memorabile negli annali di Valdivia a causa del più terribile terremoto che vi sia mai avvenuto a memoria degli abitanti. (…) Non era difficile stare in piedi ma il movimento mi dava quasi le vertigini: somigliava forse al rollio di un bastimento con mare un po' increspato, o meglio si provava la stessa impressione che pattinare su del ghiaccio sottile, che si piega sotto il peso del corpo.
Un forte terremoto distrugge d'un colpo le nostre più radicate convinzioni: la terra, simbolo stesso della solidità, si mosse sotto i nostri piedi come una crosta sottile sopra un fluido; e nello spazio di un secondo si destò nella mente una strana idea di insicurezza che ore di riflessione non avrebbero mai prodotto». A Conceptión ci sono, sulla spiaggia, frammenti di roccia che, «a giudicare dagli organismi marini che li incrostavano, dovevano essere stati solo poco tempo prima in acque profonde: erano stati trascinati fin sulla parte alta della spiaggia, e uno di essi era lungo due metri, largo uno e spesso sessanta centimetri». (C. Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo – Feltrinelli, 1967).
Non troviamo in queste righe l'essenza, il nocciolo duro – il timore e il tremore – di ogni evento in cui Herzog è incappato, ha seguito, o inseguito per tutta la sua carriera? Si tratta davvero di viaggiare, vedere, sentire, e poi tradurre, trasferire, riportare, descrivere, a volte trasfigurare ogni cosa su carta (o su pellicola): dal più semplice riflesso luminoso, cromatico, fino alle esperienze più estreme, perfino inutili, come trasportare un battello sopra una montagna (Fitzcarraldo). Herzog avrà forse visto The Far Horizons (1955), il film di Rudolph Maté in cui gli esploratori Lewis e Clark, navigando sul Mississipi, giunti in Montana, sotto le Great Falls, decidono di trasportare l'imbarcazione sopra la vetta? Per chi scrive, non c'è nulla di più vertiginoso di quella pagina, alla fine di La conquista dell'inutile, in cui Herzog torna sui luoghi in cui ha girato il film e trascinato il battello. Venti anni dopo:
«Dei nostri due campi non ho trovato traccia, neanche dopo accurate ricerche: niente, non un chiodo, non un palo e nemmeno la traccia di un punto dove potrebbe esserci stato un palo. Sulla rampa è ricresciuta completamente la vegetazione, come se noi non fossimo mai stati qui. Solo la foresta, sapendo dove abbiamo trascinato la nave su per la montagna, sembrava di un verde un po' più chiaro rispetto al resto della giungla, che però era ricresciuta come prima. Era mezzogiorno e c'era silenzio. Mi sono guardato intorno perché tutto era immobile. Ho riconosciuto la foresta vergine come qualcosa che mi era familiare e che era dentro di me, e ho capito che l'amavo: ma in malafede. A quel punto mi sono tornate in mente le parole che in tutti questi anni erano rimaste a turbinare, a vorticare dentro di me: Arquebuse, lettera pastorale, novantuno. Cauterizzazione, mostro, pane della carità. Operoso, sposa del vento, massiccio. Solo in quel momento ho avuto la sensazione di poter sfuggire al vortice delle parole».
Certi momenti, forse, restano inesprimibili? Sono forse quegli istanti in cui le cose appaiono così prossime da “diventare realtà” (come i minacciosi ghiacciai di Spitsbergen). O, forse, le cose appaiono così prossime da trasformarsi in sogno? E dunque: come trasmettere, farci sentire quelle specie di cose che hanno tormentato la nostra esistenza? Come tradurle in scrittura? Herzog, possiamo dirlo, ha vinto questa scommessa.