Biennale: screen test

22 Novembre 2013

Palazzo degli schermi

 

Con il finissage alle porte, ne approfitto per sottoporre la 55a biennale di Venezia a uno screen test, alla ricerca ovvero dei modi in cui lo schermo è utilizzato nelle opere esposte. Considero lo schermo nel campo allargato di quelle pratiche artistiche che sfuggono alle storie cloisonné della pittura, del cinema, del video, dell’arte digitale. Tra le tante figure schermiche presenti, mi soffermerò solo su tre: il Movie Drome di Stan VanDerBeek, con una breve digressione sullo zero di Stefanos Tsivopoulos; l’interfaccia di Camille Henrot; l’“effetto Potëmkin” o il fare schermo di Jesper Just. Ognuna di queste traduce visualmente, a suo modo, un aspetto del palazzo enciclopedico. Un’operazione riuscita quando – che sia o meno questione di schermi – resta viva un’indecisione, una tensione tra due polarità difficilmente conciliabili quali l’impulso enciclopedico e l’impulso entropico.

 

 

Un paio di omissioni mi stanno a cuore, a partire dai film in 16mm di João Maria Gusmão e Pedro Paiva, esposti a poca distanza dall’installazione video di Ryan Trecartin da cui ho solo voglia di scappare al più presto. La loro “finzione filosofico-poetica” sul Mozambico risuona per me con quella sull’India di Dayanita Singh al padiglione tedesco (quest’anno ospitato in quello francese). Due lavori che richiedono una predisposizione lontana da quella convulsa di una biennale. Nutro meno rimorsi verso Ravel Ravel Unravel di Anri Sala, che bisognava essere ciechi come la  maschera di André Breton con gli occhi chiusi (realizzata da René Iché e ben piazzata nel Padiglione Italia) per mancarla.

 

Movie Drome (Stan VanDerBeek)

 

1964, stato di New York: penetriamo in un ingresso sotterraneo che sbuca al centro di uno spazio a cupola. In assenza di sedie, ci adagiamo a terra, la testa verso l’esterno, i piedi al centro, il campo di visione quasi completamente occupato dalle pareti sferiche. Su queste, una volta abbassate le luci, vengono proiettate migliaia di immagini che saturano lo spazio. La posizione supina rende gli stimoli audiovisivi simili al sogno o all’ipnosi – una “espansione psicotropa della coscienza” (Eric de Bruyn). E’ con il Movie Drome – uno dei primissimi dispositivi di expanded cinema – che Stan VanDerBeek intendeva “condensare gli ultimi tremila anni della vita occidentale”, in modo da “cogliere il flusso dell’umanità, del tempo e delle forme di vita che ci hanno condotto fino ai nostri giorni”. Le sue intenzioni sono in piena sintonia con l’epoca, formulate in un inglese asciutto e plain-speaking: “It is imperative that we (the world’s artists) invent a new world language… that we invent a non-verbal international picture language” (“Culture: Intercom”, in Film Culture, primavera 1966).

 

 

Non siamo lontani dal palazzo enciclopedico e visionario di Marino Auriti degli anni cinquanta, cuore della mostra di Massimiliano Gioni (sebbene a un modernista quale Buchloh faccia pensare a un’enorme piccionaia o a una torta nuziale piuttosto che agli specimen dell’architettura utopica).
Il Movie drome è stato ricostruito lo scorso anno al New Museum di New York e ora si trova nell’intersezione a L tra le due braccia dell’Arsenale, uno spazio raramente così leggibile come quest’anno e che fa del palazzo enciclopedico quello che aspira ad essere ovvero, più che una sezione della biennale, la collezione di un museo provvisorio. Grazie al suo sfacciato piglio enciclopedico, al suo tentativo di costruire l’anti-Babele, il Movie drome trova qui a Venezia piena cittadinanza.

 

 

Tra il 1964 e il 2013 qualcosa è tuttavia cambiato. Il Movie Drome ha lasciato posto al Movie Mural: non più una struttura circolare full-immersive ma una lunga parete oblunga che copre a malapena 180 gradi. Nonostante tale contrazione, resta difficile percepirlo nella sua totalità a causa di due colonne dell’Arsenale, quanto ne riduce ulteriormente l’effetto cinemascope. Le immagini, come tessere di un mosaico, sono ritmate da quindici proiettori, con le diapositive trasferite su video o in digitale. Che il tempo delle immersioni sia tramontato assieme a quell’utopia politica che sosteneva le sperimentazioni multimediali e psichedeliche di un Gene Youngblood ai tempi dell’allunaggio? O semplicemente l’immersione non è più portatrice generosa di messaggi come lo era allora? Questo sembra suggerire, per citare altre due presenze video decisive, la sala con Bruce Nauman e Dieter Roth. Qui lo schermo diventa quello della videosorveglianza. Una parabola discendente che va dal Movie Drome al muro di 131 monitor in cui Roth viene ripreso nella sua abitazione  assorto in ogni sorta di attività quotidiana, in quello che sarà il suo ultimo anno di vita (Solo Szenen, 1997-98).

 

 

Alla ricerca di altre narrazioni, mi rivolgo alla genealogia del Movie drome, considerandolo in quanto macchina di visione, all’interno di una storia della visione più ampia come quella del panorama. Prendiamo uno dei quadri romantici più famosi, il Viandante sul mare di nebbia (1818) di Caspar David Friedrich. Attirati dalla figura di spalle o dal paesaggio montano circostante, è facile perdere di vista quella gola che si apre tra l’una e l’altro. In primo piano, la figura assorta nella contemplazione, collocata su uno spuntone nettamente disegnato, reso in modo realistico seppur senza ombre. Sullo sfondo, un paesaggio idealizzato e brumoso da cui emana una luce morbida e diffusa che sembra diffondersi su tutta la superficie. Una radiosità simile a quella del panorama nel senso del dispositivo spettacolare.

 

 

Qui la luce penetrava nello spazio attraverso un lucernario per riflettersi sulle pareti, dando l’impressione che emanasse direttamente dal paesaggio dipinto. Un baluginio cui contribuiva la piattaforma centrale dove sostavano gli spettatori, elevata e lasciata nella semi-oscurità. In altri termini, questo dipinto di Friedrich sembra una messinscena dello sguardo panoramico. Un effetto cui contribuisce anche la linea d’orizzonte, curvata ai margini, e la conformazione circolare dello spuntone roccioso, come se fossimo in effetti all’interno dell’architettura circolare di un panorama che abolisce i limiti imposti dalla cornice. E Viandante sul mare di nebbia non è un caso unico – Sera con nuvole (1824) ne è un altro.

 

Come sorprendersi allora quando leggiamo che Friedrich aveva visitato un panorama attorno al 1810 e aveva persino pensato di dipingerne uno? Il suo rapporto con la natura corre parallelo al dispositivo del panorama e al suo tentativo di riappropriarsi visivamente della natura (queste le conclusioni cui giunge Stephan Oettermann in Das Panorama. Die Geschichte eines Massenmediums, Francoforte 1980, che qui riformulo). Potremmo procedere in modo simile inserendo, tra il panorama di Friedrich e il Movie Drome di VanDerBeek, il planetario o il cinemascope. Al planetario ha fatto recentemente ricorso Jeronimo Voss per proiettare il suo video (Eternity Through the Stars, titolo ispirato a Louis-Auguste Blanqui) all’Orangerie di Kassel per l’ultima Documenta. Al cinemascope, per citare un artista imprescindibile, pensava Ed Ruscha in alcuni dipinti dall’inequivocabile formato 56x203cm (Cities in question e A Question of cities 1979).

 

Digressione: Zero (Stefanos Tsivopoulos)

 

History Zero è il titolo della video-installazione di Stefanos Tsivopoulos al padiglione greco. Si tratta di una storia frammentata in tre video pieni di rimandi interni – e così pieni di schermi da meritare una trattazione a parte – installati in tre ambienti separati da un tendaggio. Dello zero viene esplorata la potenzialità. Lo zero è figura temporale: spazio di circolazione in cui inserire i video da vedere in successione, circolarità temporale tra gli episodi in forma di loop.

 

 

Lo zero è strumento di comunicazione: spazio d’interazione sociale, agora in cui ogni punto ha la stessa capacità di parola. Il catalogo riporta diverse pagine sulla struttura circolare del padiglione, concepito dall’artista assieme a tre architetti (Stadelmann, Schmutz e Wössner), con esempi tratti dalla sfera sacra quanto urbana: dal Pantheon al tempietto del Bramante, dalla pianta di Bagdad alla città ideale di Sforzinda di Filarete, dal Monopteros nel giardino inglese di Monaco alla biblioteca pubblica di Stoccolma progettata da Asplund.

 

 

Lo zero è infine dispositivo coercitivo, suggerito dal centro del padiglione – il punto zero – lasciato vacante: la circolazione d’un incrocio autostradale o delle merci; d’un flusso anonimo che risponde all’ingiunzione “Circolare, prego!”; di una struttura panottica o di un mirador da cui dominare con lo sguardo lo spazio circostante, che sia una vasta distesa verde o un luogo di detenzione.

 

Interfaccia (Camille Henrot)

 

Grosse Fatigue di Camille Henrot, premiato col Leone d’argento, è un’opera così sintomatica che del palazzo enciclopedico sembra fornire l’indice dei nomi. In tredici minuti scorre sotto ai nostri occhi nientedimeno che la creazione dell’universo. Girato nel museo di storia naturale dello Smithsonian Institution di Washington, c’è spazio per tutto: i più lambiccati miti di fondazione; animali imbalsamati tenuti dentro appositi cassetti a scorrimento nei laboratori scientifici dello Smithsonian; oggetti manipolati da mani esperte assieme all’elenco di tutte le scienze supposte dar senso a tale accumulo; inserti video su gesti grafici elementari, come quello di un cerchio nero tracciato su un foglio bianco, una visione cosmologica primordiale che circoscrive uno spazio; incursioni nella storia dell’arte, da Simone Martini a Jackson Pollock. La lista è ritmata a tempo di hip hop (la musica di Joakim Bouaziz è interpretata da Akwetey Orraca-Tetteh) e da frasi ad effetto: “In the beginning there was no earth, no water – nothing”, ma anche “In the beginning there was not beginning”.
Un bric-à-brac che risuona con tante opere del palazzo enciclopedico, dal video di Steve McQueen (Once upon a Time, 2002) all’installazione di Sarah Sze nel padiglione americano (Triple Point), in bilico perfetto tra sistema ed entropia, tra le forme e la vita. “A digital tabula rasa that itself perpetually reinvents the world”, una storia della creazione ma anche “a fable of entropy, of the endless dispersion of beings and things into disorder”, ha scritto Pamela Lee.

 

 

Il mio primo pensiero va all’Emporio celeste di conoscimenti benevoli, l’enciclopedia cinese di Borges la cui tassonomia animale indusse Michel Foucault a scrivere Le parole e le cose: “(a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche” (L’idioma analitico di John Wilkins). Non dubito un istante che per ognuna di queste voci esista un corrispettivo nel palazzo enciclopedico.

 

Tuttavia l’Emporio celeste, come le collezioni ospitate nel palazzo, funziona all’interno di un’economia basata sullo scambio delle merci e sulla proprietà privata. Per quanto strambo, è ancora il prodotto di un Linneo che ha fumato troppo. Grosse Fatigue invece è impensabile senza la smaterializzazione dell’economia cui contribuiscono le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In tale ambito è questione di reti più che di proprietà privata, di utilizzatori più che di compratori, di connessione e accesso ai servizi più che di possesso. E’ questa, in sintesi, la cultura del capitalismo all’era dell’accesso che Jeremy Rifkin ha denominato Hypercapitalism (titolo di un suo libro tradotto in italiano come New economy).

 

Sul piano visivo la conseguenza è che lo schermo è ora soprattutto un’interfaccia. Il fatto che Henrot abbia scelto come immagine del desktop la via lattea non deve confonderci: si tratta di un universo senza dimensioni, pronto a essere trasferito su un palmare qualsiasi. Grosse Fatigue mostra cosa ne è dell’impulso enciclopedico delle collezioni e dei musei, o della storia dell’universo, ai tempi di Google, ovvero davanti alla disponibilità immediata di un numero infinito d’informazioni. Un archivio digitale affidato agli algoritmi dei motori di ricerca, alle parole chiave o, di recente, a frasi di senso compiuto. Rispetto al groviglio di sovrapposizioni del Movie drome di VanDerBeek, le immagini di Grosse Fatigue scorrono veloci una sull’altra, ognuna contenuta nella sua finestra.
E’ l’“aesthetics beyond buttons” tipica dell’interfaccia, per citare il sottotitolo di Interface Criticism (la prima antologia sull’argomento curata da Søren Pold e Christian Ulrik Andersen, Aarhus University Press 2011), da leggere assieme alla storia culturale di Steven Johnson, Interface Culture. How New Technology Transforms the Way We Create and Comunicate (1997). Un’estetica non confinata alla digital art che coinvolge ogni dibattito sulla visualità contemporanea e porta a interrogarsi sulle modalità di produzione, distribuzione e ricezione dell’informazione; sulla trasparenza o invisibilità dell’interfaccia che alcuni reclamano per una maggiore performatività; sui tentativi critici di manipolare l’interfaccia per mostrarne il funzionamento, un po’ come faceva il cinema strutturale; e ancora sul rapporto tra medium e mediazione, senza dimenticare la terza M che regge il palazzo enciclopedico: quella della memoria.



“Effetto Potëmkin” – Fare schermo (Jesper Just)

 

Stremato da un giorno no-stop di visite, entro di soppiatto nel padiglione danese dieci minuti prima che chiudano i Giardini. I custodi ormai defilati, l’ingresso del padiglione ricollocato in un pertugio laterale, lo spazio interno in penombra, le mura picconate: tutto dà allo spettatore l’impressione di compiere un’effrazione. Intravedo un video di due ragazzi neri in motorino che percorrono una strada periferica, delle architetture tipicamente parigine scorrono in lontananza: ecco un video sulla banlieue, mi suggerisce un riflesso mentale. Finché le immagini che scorrono sugli schermi (Intercourses di Jesper Just) cominciano a scollarsi da questa prima impressione.

 

 

In realtà siamo nel quartiere Tianducheng, periferia di Hangzhou, 160 km da Shanghai, dove è stato costruito un immenso quartiere residenziale che è una replica (parziale) di Parigi. E’ una di quelle città simulacrali come ce ne sono ormai tante in Cina (ora studiate in modo sistematico e documentato da Bianca Bosker in Original Copies. Architectural Mimicry in Contemporay China, University of Hawai Press 2013). Just è sensibile a questi progetti, avendo già lavorato sul New York Chinese Scholar’s Garden nel giardino botanico di Staten Island (A Little Fall of Rain, prima parte di It will All End In Tears, 2006), o su Les Buttes Chaumont, un parco parigino completamente artificiale – incluse le grotte con le stalattiti – costruito dall’ingegner Jean-Charles Alphand (This nameless spectacle, 2011). La particolarità del quartiere cino-francese risiede nel fatto che, snobbato dai cinesi se non per le foto matrimoniali, è abusivamente occupato da immigrati e lavoratori delle industrie circostanti.

 

 

Dalle immagini di Just è difficile dire se il quartiere è in costruzione o in rovina. Per Robert Smithson (A Tour of the Monuments of Passaic, 1967) si trattava del resto di due condizioni porose. Nella sua “odissea suburbana” a Passaic, dove era cresciuto, Smithson s’imbatte nelle cosiddette “rovine all’inverso” – un concetto chiave per rileggere la crisi del modernismo –, “ossia tutte le costruzioni che sarebbero state costruite. E’ il contrario della rovina romantica: queste opere non cadono in rovina dopo la loro costruzione, tendono alla rovina ancora prima di essere costruite”. Le rovine all’inverso sono insomma il risultato di un’inaspettata inversione temporale, in cui ciò che cade in rovina non è ciò che non ha retto all’azione corrosiva del tempo, ma ciò che non è stato ancora ultimato e non ha avuto tempo d’invecchiare.

 

 

Hangzhou è in fondo un’altra “città alla Potëmkin”, per riprendere uno scritto Adolf Loos nel 1898: “Chi non li conosce, i villaggi alla Potëmkin, che l’astuto favorito di Caterina aveva costruito in Ucraina? Villaggi di tela e di cartone, villaggi che avevano lo scopo di trasformare agli occhi di Sua Maestà Imperiale un deserto in un paesaggio fiorente” – questo l’incipit, che serve a Loos per centrare il suo bersaglio polemico. Infatti all’epoca un effetto Potëmkin stava corrodendo persino una città storica quale la sua Vienna.

 

Per rispondere al desiderio dei parvenu di appartenere a un ceto più alto, non si esitava a ritoccare le facciate dei palazzi, ad appiccicarci sopra addobbi di cemento che imitavano materiali preziosi, a ricercare una somiglianza posticcia con residenze romane, toscane o barocche. “Non vergogniamoci di essere uomini del diciannovesimo secolo”, esortava Loos, denunciando quel gusto per il falso che infettava l’intera popolazione: “L’uomo semplice, che aveva soltanto una stanza e un gabinetto in affitto all’ultimo piano, era appagato dallo splendore feudale e dalla signorile grandezza che esprimeva la sua casa quando la contemplava dall’esterno”.

 

Nell’installazione video di Just, l’effetto Potëmkin finisce per coinvolgere anche lo schermo: da superficie di proiezione che fa apparire le immagini si trasforma in superficie opaca agli antipodi di quella trasparente del desktop, in una barriera che nasconde, che fa letteralmente schermo. Insomma, lo schermo non è solo un’immagine ma anche ciò che resiste a farsi immagine, ciò che ostacola l’esercizio dello sguardo.

 

Lo schermo tattile di Just è lontano dall’interfaccia grafica del tablet come da quel rettangolo bianco bidimensionale appeso nelle sale cinematografiche o nelle gallerie d’arte. Nondimeno, trova una delle sue prime incarnazioni proprio in ambito artistico. Penso a Two Sides to Every Story (1974) di Michel Snow, in cui lo spazio era disgiunto in due sezioni speculari da uno schermo a due facce. Lo spessore dello schermo, di cui gli artisti non avevano ancora tenuto conto, diventa così l’elemento che articola lo spazio d’esposizione, al modo in cui Robert Wilson fa muovere delle semplici figure geometriche sulla scena teatrale.

 

L’effetto Potëmkin è insomma affare d’architettura, e gli schermi di Intercourses hanno misure diverse per evocare di volta in volta elementi architettonici quali la finestra, la porta, le pareti orizzontali, le finestre alla Le Corbusier. Resa porosa la soglia che divide quanto si situa all’interno e all’esterno dello schermo, gli spettatori evolvono in uno spazio che diventa un’intima proiezione mentale, alimentata dalle immagini cristalline in bianco e nero dei video. Il destino della città fantasma cinese si riversa sullo stesso Padiglione danese, mai così spettrale come quest’anno.

 

Un terrain vague che è l’esatto opposto dell’installazione caleidoscopica concepita da Olafur Eliasson per lo stesso spazio nel 2003 (The Blind Pavilion). Se entrambi fanno dell’architettura una macchina scopica che sfida la nostra capacità di orientamento, i fantasmi che l’assillano provengono da diversi aldilà. Ma qui dobbiamo fermarci, perché la spettralità dello schermo ci porta dritti – cioè indietro, in un andirivieni temporale che è una delle marche del Palazzo enciclopedico – alla fantasmagoria.

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