Calvino contro Calvino

30 Novembre 2015

Potrei cominciare snocciolando le logiche e i modi del pensiero, vivi e attualissimi, che Calvino ha frequentato nei suoi cinquant'anni di attività di scrittore: l'antitesi, la frammentarietà, l'impegno, la razionalità radicale; oppure scegliere un percorso tematico, uno dei tanti possibili attraverso i quali l'ossessione dello scrittore dava corpo alle proprie forme di narrazione, o meglio, alla propria forma di narrazione, se è vero, come è stato più volte ribadito, che esistono autori che compongono sempre libri differenti e autori che variano sempre lo stesso libro, e che Calvino fa parte di questi ultimi. I temi, dunque: il labirinto, il reticolo, la città e via via tutte le figure che si assommano e si complicano nel seguire il percorso verso il Calvino dell'irresolutezza, del fantastico spinto e della combinatorietà estrema degli ultimi anni.

 

Tuttavia, non mi sono mai sentito in grado di fare bilanci e tanto meno potrei farne di fronte alla figura di Calvino, monumentalizzata dall'accesso pressoché immediato tra il novero dei classici. Un'imponenza bizzarra e probabilmente ingigantita dalle idiosincrasie e dalle nevrosi di chi scrive, se si pensa che della scrittura di Calvino molto si può dire, anche di contraddittorio (la forma dell'antitesi è una delle sue caratteristiche fondanti), eccetto il fatto che sia monumentale o solenne. Mi pare che l'operazione del trarre le somme sia già stata effettuata da chi, prima di me ed egregiamente, è intervenuto in questa rassegna di articoli.

 

Accantonata l'idea del bilancio secco, ho pensato che avrei potuto condurre un esperimento: attraverso la scelta, legata, al di là di tutte le giustificazioni critiche, al gusto personale, e l'interpretazione di un brano calviniano, si potrebbe tentare di mettere in luce ciò che, a mio avviso, rappresenta l'eredità inesauribile della sua scrittura, l'autentica classicità di Calvino. Il racconto lungo che ho prescelto per l'occasione è La nuvola di smog, uno dei racconti della “narrativa autobiografico-intellettuale”[1] che si pongono a cavallo tra gli anni '50 e '60, sul discrimine che nella vulgata critica separa i due Calvino: quello dell'impegno da quello postmoderno. Non si vuole in tal modo confermare l'idea manichea di due momenti contrapposti. Tuttavia è un dato storico la crisi di un intellettuale che, come molti altri, andava prendendo le distanze dalla politica togliattiana e “fedele alla linea” del Pci. Ed è proprio a questa crisi che si legano le particolarità prospettiche, stilistiche e tematiche del racconto preso in esame.

 

La vicenda è presto detta: un personaggio, di cui non sappiamo molto, eccetto il fatto che è squattrinato e appena arrivato in una grande città industriale (Torino? Milano?), attacca a lavorare nella redazione di una rivista, “la Purificazione”, che apparentemente tratta e si batte per tematiche ecologiche, ma che in realtà è organo di propaganda della più grande e inquinante industria della città, il cui padrone, l'ingegner Cordà, ne è anche direttore. Anzitutto, ed è una singolarità notevole nel computo, cui abbiamo accennato, dei racconti/romanzi brevi di questi anni, la narrazione è alla prima persona e intradiegetica. Ma è un io provvisorio, quello che sbarca dal treno, in preda ad una forma di depressione che rende opaco ogni suo atto, nella squallida città innominata del racconto: “Di stabilità non ne avevo alcun desiderio; volevo che intorno a me tutto restasse fluido, provvisorio”[2]. Un io che estende narcisisticamente la propria aleatorietà alla realtà circostante (“doveva essere tutto provvisorio e volevo che questo apparisse chiaro anche a me stesso.”[3]) e che la rivolta, coerentemente con le funzioni psichiche che l'io svolge, in rassicurazione: “ne traevo conferma che la vita non poteva essere diversa”. E viene effettivamente da chiedersi se è l'io che invade il mondo o viceversa, come si afferma in quegli stessi anni nell'articolo “Il mare dell'oggettività”[4].

 

Ad ogni modo la crisi dell'io pare dilagare per tutta la vicenda narrata ne La nuvola senza assumere una chiara connotazione di segno: l'eccessiva e autoimposta fluidità sembra tradursi immediatamente in una chiusura rigida, che impedisce all'io protagonista di stabilire rapporti duraturi (“le conoscenze, si sa, a cominciarle è niente, ma poi si resta legati”[5]), di opporre al flusso delle cose una resistenza soggettiva (“Capivo, e capivo anche che non avremmo potuto capirci mai.”[6]), di trovare una vicinanza umana nelle vicende di un amore potenzialmente felice (“l'amavo, insomma. Ed ero infelice. Ma come lei avrebbe mai potuto capire questa mia infelicità? Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, un sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere.”[7]). In queste parole emerge la patologia paranoica (“non che io creda ai segni, ma per uno che è nervoso, in luoghi nuovi, ogni cosa che vede è sempre un segno”[8]) di tale io, anch'esso innominato, come la città in cui vive. Laddove si esaspera la difesa nei confronti della realtà è radicalizzata anche l'impossibilità di parteciparvi se non passivamente.

 

E in fondo proprio su questo sta ragionando il Calvino de “Il mare dell'oggettività”: sull'esclusione del mondo letterario alla costruzione della realtà secondo logiche sempre più desoggettivanti, astoriche.  E anzi: alla vera e propria rimozione del contrasto tra soggetto e mondo nell'ambito delle rappresentazioni artistiche contemporanee, allo schiacciamento sulla concezione di una realtà che funziona per algoritmi indipendenti dalle vicende e dai desideri individuali. Calvino, attraverso La nuvola di Smog, mette in scena narrativamente tale contrastante visione, la paradossalità di un io che, a conti fatti, non produce altro che un punto di vista nel testo, ma la cui influenza, quanto a capacità di azione, è nulla. Si tratta, al limite, di un caso di un personaggio non attanziale: nel senso che non prende decisioni che non siano aderenti al modo di procedere della realtà. A resistere a questo inscalfibile status quo, pare inizialmente opporsi l'incontro con il personaggio del militante comunista, Omar Basaluzzi, che però rimane su un piano puramente immaginario di provocazioni, battute e previsioni scientifiche marxiste che lo scrittore non avrebbe potuto che biasimare.

 

L'ultimo capitolo è quello che potrebbe aprire a un'immaginazione di un'alterità umile ma fuori dal grigiore polveroso in cui è immersa la città. Il protagonista esce dal reticolo urbano attraversando strade camionabili per seguire il flusso dei lavandai, che ogni giorno nota arrabattarsi nel ritiro e nella riconsegna dei panni dei cittadini. Lo fa seguendo un segno, uno dei tanti che partecipa al suo sguardo paranoico. Ma tra i “segni che si rimandavano l'un l'altro all'infinito”[9], forse quello del carro carico di sassi è un segno che porta “al di fuori”, che fa uscire dalla maglia stretta dei pensieri ossessivi che lo attanagliano, che ricorda che “il mondo non è mai tutto a una maniera”[10]. Il barlume di una speranza si materializza, assieme ai campi e i pioppi che si estendono oltre le ultime costruzioni della città. Eppure, di fronte al lavoro umile di uomini e donne che, con grande valore simbolico, risciacquano e stendono ad asciugare i panni sporchi della città, la reazione è sempre la stessa: “io ormai avevo visto, e non avevo niente da dire o da ficcare il naso. Tornai indietro.”[11]

 

Nell'abbozzo di lettura che ho dato non emerge certo il Calvino della leggerezza, anche se alcuni passaggi del racconto, che non ho analizzato per questioni di spazio, avrebbero potuto evidenziare tale caratteristica. Il tema ricorrente della polvere, per esempio, dà spazio ad alcune scene umoristiche molto vive, anche se non possiamo non aggiungere ad esse l'ombra claustrofobica dell'aggettivo “kafkiano”. Non si è voluto dunque evidenziare la ricorsività degli stilemi calviniani; piuttosto si è tentato di rendere conto di un atteggiamento di costante e implacabile interrogazione, anche contro se stesso, che costeggia l'intera opera dello scrittore, ma che nel periodo indicato acquista di vigore in nome di una crisi (diciamo pure) ideologica che ha imposto una revisione dei modi di scrittura. I ragionamenti condotti in “Il mare dell'oggettività” e nei saggi coevi rientrano in forma narrativa ne la nuvola di smog (e nelle altre narrazioni intellettuali dello stesso periodo: La giornata di uno scrutatore, La formica argentina e La speculazione edilizia) ma con una tensione che rende il dettato letterario immensamente più efficace. E, infine, intramontabile.

 

 

[1]    Tra questi lo scrittore annovera, oltre a La nuvola di smog, anche La speculazione edilizia e La giornata di uno scrutatore, in “Autografo”, II, n. 6, ottobre 1985, Interlinea, Novara, p 49. A questi potremmo aggiungere anche, degli stessi anni, La formica argentina.

[2]    I. Calvino, La nuvola di smog, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, a c. di M. Barenghi e B. Falcetto, Mondadori, Milano 1991, p. 893

[3]    Ibidem, p. 894

[4]    L'articolo è uscito su “Il menabò di letteratura”, I, n. 2, Einaudi, Torino 1960 ed è ora raccolto in I. Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980.

[5]    I. Calvino, La nuvola di smog, cit., p. 920

[6]    Ibidem, p. 911

[7]    Ibidem, p. 918

[8]    Ibidem, p. 985

[9]    Ibidem, p. 949

[10]  Ivi.

[11]  Ibidem, p. 952

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