Capitolo primo
Se questo deve esser proprio un museo a cielo aperto, d’accordo: mi ricordate Mueck. Le opere di Ron Mueck, quelle sculture iperrealistiche, di poco sovraumane, di resina e polivinile, con gli esseri umani più comuni. L’aria fiorentina, è fatta di corpi di resina, di vinile opaco, stamani. La sua pesantezza mi spinge a percorrere intontita le stesse strade che attraverso d’inverno. Via delle Casine, il mattatoio dei turisti orientali, ha una strana perversione: vorrei odiarla, ma mi ci abbandono, col lino che si cinge alle cosce per il sudore. Ho evitato il Lungarno della Zecca Vecchia, l’ho attraversato come rettile in fuga, il caffè acido nell’alito in bocca sigillato dal rossetto applicato al volo.
ph. Francesco Natali
Siete proprio quelle sculture: sproporzionate ma perversamente simili, ed infestate, come nelle esposizioni, da esseri solo di poco più piccoli. Qui sono venditori di ninnoli a carica, girandole in aria, stampe inautentiche, bracci estensori per cellulari. Non è un contagio il vostro, solo una brutta mostra, una mostra curata a la cazzo, le intenzioni del curatore incomprensibili.
Settimane fa, quando il caldo già si faceva penoso, sono salita in un fresco androne di Palazzo Vecchio, ai piani alti: questioni burocratiche. E ho guardato giù dalla finestra spalancata alla ricerca di uno spiffero. In Piazza della Signoria, i corpi delle persone là sotto erano come sbucciati dal sole nelle loro ombre a terra, solide, puntellate caselle, ma gigantesche. Di Mueck ho ricordato lì subito quel trittico di sculture in formato 2:1 per un umano di statura media. Dove un vecchio enorme in costume da bagno trova conforto appoggiato al grembo della moglie più giovane, benché anziana anche lei, sotto un ombrellone da mare a loro proporzionato. Lui era questa Firenze, il Duomo il loro ombrellone. Ma lei, la moglie che lo cura, perché non porta via il marito dalla calura mostrandosi pur così premurosa?
Poi ecco che arriva Andrea. E la sua tenda sul fiume. E quel trittico, per quanto possibile, si è fatto più chiaro per me, dormendo sopra le acque.
Sono tornata nel 2012 dopo le mirabolanti esperienze formative all’estero. Nel mondo anglosassone ero la regina dei master, delle borse di studio, dei call for paper. Tutti sapendo della mia decisione, alle cene estive nella campagna fuori Pontassieve, avevano disapprovato: che mi sarei sbagliata di grosso, che l’avrei pagata, che te ne accorgerai, dicevano gli amici quasi rancorosi, spezzando poco eucaristicamente il pane per la prossima salsiccia. Questi tre anni sono volati, inanellando un contrattino al museo di Palazzo Vecchio, più corsetti di storia dell’arte in alcune università americane: sarà per questo che sogno ancora in inglese. Sarà per questo che i miei pensieri frullano in inglese. Fuori mi sono corrazzata d’un fiorentino malizioso: quello disseminato di “i” all’inizio, fatto di singhiozzi più che di aspirate, all’attacco più che a difesa. Una fiorentinaccia sboccata con una mente ad alienazione british.
Mi chiedo se quelle sculture, che siete voi, che sono loro, che sono fiorentini misti a turisti orientali latinoamericani afroamericani e altri neghittosi toscani, riescano quest’estate a farsi una ragione del mio percorso giornaliero, dal basso, dall’argine.
Perché sale dagli argini, quella, come una specie di salvatrice o forse vagabonda?
Perché si arrampica fino al Comune, irrigidendosi in mezzo a noi, come noi, nei suoi vestitini di lino?
Perché però si muove come se qualcosa gli prudesse dietro la schiena?
Prurito ovunque, per cui mi richiamo in ufficio la tenda dove dormo da qualche settimana, sugli argini del fiume Arno. Dove mi ritiro la sera e aspetto che il tramonto torrido si offra sfatto sugli obiettivi dei turisti al Ponte Vecchio, alle nostre spalle. Andrea ed io guardiamo assieme, dalla soglia della tenda, l’opposto lato, dove s’incurva il fiume, verso i monti ammansiti alla sera. Ci spogliamo, ci baciamo le schiene, mangiamo dallo scatolame.
ph. Francesco Natali
Andrea deve essere uno di quegli esseri acquatici smaliziati, venuto a farmi la beffa di una momentanea comprensione. Non glielo chiedo mai, se se ne andrà, mentre ci laviamo i denti con le bottiglie d’acqua, come in un raduno, un concertone dove l’evento finale non s’aspetta.
Prendete la sensazione di esservi lavati poco e male, di stare in vestiti stropicciati e arsi di una notte all’aperto, dopo una festa che vi ha tenuti svegli fino all’alba a trafficare con una nuova conoscenza. Quest’insoddisfazione nell’epidermide, questo arruffarsi e accamparsi, mi rende viva.
La mattina torno tra le sculture che soffocano di caldo. Loro difficilmente mi parlano. Solo che oggi una di loro è venuta a farmi visita con altre intenzioni.
(1 - Continua)
La versione cartacea ed in italiano di questo capitolo è apparsa originariamente sabato 1 agosto su «Corriere della Sera - Corriere Fiorentino». La sua traduzione in inglese è di Johanna Bishop.