Speciale
Memorie perbene / Cartoline dal Sudafrica
A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza, è una mostra ospitata da Fotografia Europea XII a Reggio Emilia presso i Chiostri di San Pietro, per celebrare il 40° anniversario del patto tra la città di Reggio Emilia e l’African National Congress (26 giugno 1977) e del centenario dalla nascita di Oliver Tambo (1917-1993), leader del movimento anti-apartheid e dell’ANC.
Ordinata in senso cronologico, è una selezione di immagini che ripercorre la storia del Sudafrica da dominion dell’impero britannico ai giorni nostri. Gli scatti, provengono da collezioni di archivi (Die Erfenisstigting Archives, UWC Robben Island Museum Mayibuye Archive, BAHA, Transnet, Times Media, Independent Media Archive), musei (Museum Africa, Mc Gregor Museum, Smithsonian Institution) e artisti. È da notare come l’autorialità dei singoli fotografi acquisti sempre più importanza a mano a mano che si procede nell’esposizione, ovvero che ci si avvicina ai giorni nostri. Ciò segna anche un passaggio da una fotografia che è documento storico a una che è metafora storica.
Mi stupisce che tutt’oggi venga preferito dedicare spazio alla ricostruzione della memoria di una ex colonia britannica, invece che alla parentesi coloniale italiana, specialmente in un momento in cui le venature razziste che la parola integrazione porta con sé aumentano di volume e quantità. Interessante svista, a tal proposito, è al piano inferiore dei chiostri, ove all’ingresso della mostra di Berengo Gardin è stata allestita a parete una grande immagine dello studio dell’artista che, fra le sue collezioni, ha anche quelle di maschere africane. La chiamo svista perché non ne faccio una colpa dei curatori della mostra di Berengo Gardin, ma perché credo che sia un particolare sintomatico della scarsa evoluzione di un pensiero di decolonizzazione all’interno dei nostri confini geografici, e i bottini di passati Cannibal Tours ne sono prova (avanguardista?).
La mostra Una breve Storia del Sudafrica è un esempio di come sia possibile, lavorando con degli archivi, non solo presentare ma soprattutto costruire, selezionandola, una storia e una memoria, non necessariamente collettive. Infatti, come ci si può aspettare, quasi tutti gli scatti fino agli anni Duemila sono stati realizzati da fotografi bianchi. D’altronde anche i fruitori della mostra, inclusa la sottoscritta, sono tutti bianchi (il che non è in Italia una grossa novità).
Apre il percorso uno scatto di Abe Goldstein avente per oggetto una danza di minatori nel 1920 a Johannesburg. Molti visitatori delle miniere in Sudafrica negli anni Venti vengono invitati a guardare queste performance di danze tradizionali di minatori Africani. Fotografie di questi spettacoli per visitatori bianchi sono, in questo periodo, comuni e appaiono su cartoline, brochure aziendali e opuscoli turistici. Nello scatto di Golastein non emerge chiaramente il fatto che si tratti di una messa in scena, ma sembra piuttosto un atto spontaneo. Emerge così il modo in cui una inquadratura fotografica sia capace di censurare la memoria stessa: lo sguardo coloniale è tutto ciò che non vede o che non consente di vedere.
La fotografia non è solo una forma di testimonianza ma anche, e soprattutto, una forma di interpretazione della storia, come emerge dal confronto tra due immagini datate 1928: nella prima la squadra nazionale femminile di nuoto sudafricana è composta da donne bianche in costume da bagno o in uniforme; nella seconda I portatori d’acqua della tribù Venda a Sibasa sono ritratti da Alfred Martin Duggan-Cronin. La vicinanza delle due fotografie mette in luce un pregiudizio etnocentrico attraverso il particolare interesse del fotografo irlandese Duggan-Cronin nel cercare la nudità dell’uomo primitivo, immortalandola dal punto di vista “oggettivo” dell’etnografo europeo.
Proveniente da Museum Africa è una fotografia scattata a Pretoria nel 1938 che ritrae un Parroco con due uomini bianchi vestiti come guerrieri Zulu durante le celebrazioni dell’anniversario del Grande Trek, la «grande migrazione» dei coloni boeri (in nederlandese «contadini») che, insofferenti all’amministrazione inglese iniziata nel 1835, lasciano la Colonia del Capo dirigendosi a nord, dove fondano comunità repubblicane al di là dei fiumi Orange e Vaal e nel Natal. Questa immagine carnevalesca ricorda che, quando nel 1658 cominciava la schiavitù, le prime scuole erano gestite da chiese confessionali, oltre al fatto che una delle conseguenze del Grande Trek fu proprio l’istituzione del regime dell’apartheid. Si verifica quindi uno scollamento tra la documentazione di episodi dell’apartheid apparentemente definitivi e la loro rappresentazione: la focalizzazione su particolari minori, o come in questo caso goliardici, offusca una vasta fetta di realtà lasciata all’esterno del campo visivo delle immagini.
Nel 1949 a Pretoria viene inaugurato il Monumento Voortrekker, disegnato da Gerard Moerdyk (1890-1958), grande ammiratore di Mussolini. Per rappresentare l’evento, celebrato nell’anfiteatro cittadino, i curatori della mostra scelgono uno scatto proveniente dall’Archivio Die Erfenisstigting, dove è messa in evidenza la separazione tra una folla bianca e una nera. La cerimonia inaugurale, il 16 dicembre 1949, commemora il trionfo dei Voortekkers nel 1838 sugli Zulu nella battaglia di Blood River. Si tratta di uno sforzo di riconciliazione tra britannici e afrikaner.
In uno scatto sulla parete opposta si vedono tre uomini di colore ben vestiti mentre giocano ad una sorta di tris su un marciapiede. Dietro di loro sulla parete di un edificio campeggia la scritta “We won’t move”. Questa fotografia, intitolata Waiting to Commence Forced Removals, è stata scattata a Sophiatown in prossimità del 9 febbraio 1955, giorno in cui D.F.Malan invia duemila poliziotti armati di pistole e fucili a distruggere Sophiatown e a rimuovere i suoi sessantamila abitanti per trasferirli in massa a Meadowlands. Lì il Partito Nazionale ha istituito un recinto abitativo-riserva le cui case sono prive di servizi igienici, acqua ed elettricità. Ciò che emerge anche in questo caso è la pulizia e il perbenismo laccato con cui viene illustrato un episodio di razzismo di massa. Invece dei morti e dei deportati, il fotografo ha deciso di immortalare tre uomini ben vestiti mentre giocano. In effetti, anche nelle fotografie coloniali fasciste gli «indigeni» raramente lavoravano.
Trovo comunque problematico il fatto che una immagine come questa venga “lasciata passare” senza spiegazioni di accompagnamento che ricordino l’emanazione dell’Atto di Reinsediamento dei Nativi del 1954 da parte del Partito Nazionale o che suggeriscano le violenze camuffate da una immagine di propaganda. Forse è colpevole solo l’ignoranza di chi non è in grado di decodificare una immagine perché non conosce la storia del Sudafrica? Ma se è la mostra stessa a volere illustrare una Breve storia del Sudafrica, con che idea può mai uscire dall’esibizione un visitatore se non gli vengono fornite delle chiavi di lettura complete? Probabilmente con la stessa idea che può farsi del Sudafrica durante un Safari in viaggio di nozze o durante una battuta di caccia fra bianchi.
Di Eli Weinberg è la fotografia We stand by our leaders che ritrae una folla vicina alla Drill Hall il giorno di apertura del Processo del tradimento il 19 dicembre 1956. Nelson Mandela e altri leader dell’ANC vengono arrestati in un raid e processati per tradimento. Le strade al di fuori della corte sono affollate da migliaia di dimostranti. Nello scatto una fila di persone di colore, simpatizzante con gli accusati, è in posa in atteggiamento gentile e dignitoso. Uomini e donne portano il manifesto “We stand by our leaders”; tra loro spicca un bambino bianco sorridente, in calzoncini corti e con un orologio al polso. È il figlio del fotografo.
Fotografie come questa, ovvero scattate in pubblico, mostrano una forma di complicità, o forma d’obbligo, mediata dal rapporto tra il soggetto ritratto e il fotografo bianco: l’apparato dello stato dell’Apartheid – con le sue immense risorse di intimidazione fisica, controllo burocratico e coercizione psicologica – induce l’opposizione, sotto il controllo di polizia e soldati, a stare “al proprio posto”. La rigidità delle pose si trasmette in una più altrettanto rigida interpretazione dell’evento, del tempo fotografato e della scelta estetica del fotoreporter, aprendo una questione sulla complicità della fotografia nella costruzione di un archivio.
Women taking a break on the lawns in front of the Union Building, Women’s March è la fotografia scelta per rappresentare simbolicamente in mostra l’anno 1956. 20.000 donne organizzano una marcia presso gli edifici dell’Unione a Pretoria per protestare contro gli emendamenti proposti dalla Legge sulle Aree Urbane. Contro i lasciapassare presentano una petizione indirizzata a Strijdom, Primo Ministro simpatizzante per il nazionalismo afrikaner. Una canzone composta per l’occasione e diventata simbolo della battaglia delle donne in Sudafrica recita: “Strijdom, Wathint’ abafazi, wathint’ imbokodo” (“Strijdom, se colpisci una donna, colpisci una roccia”). Nello scatto donne in pausa sui prati davanti allo Union Building non siedono sulla panchina, vuota, perché riservata a europei. L’archivio è anche una zona d’incertezza in cui il senso di colpa e l’espiazione esprimono la condizione dei privilegiati.
La prima immagine a colori che si incontra è At Durban: But the rickshaw puller is from Zulund. Nello scatto un uomo Zulu in costume tradizionale, la cui popolazione si trova ubicata a un’ora di macchina dalla città di Durban, porta una coppia di fidanzati bianchi sul suo risciò. I tre in posa guardano sorridendo un quarto uomo che pare parli con loro cordialmente, a pochi passi dal mezzo di trasporto. Uomini zulù che trainano risciò si trovano tutt’oggi vicino al lungomare di Durban.
Dal 1950 il fascismo coloniale si esprime anche attraverso la legge sull’anagrafe della popolazione, la quale stabilisce la creazione di registri in cui devono figurare dettagli razziali per gli abitanti dell’unione. Ogni persona è classificata come «bianca, meticcia o indigena, secondo il caso». Nella fotografia di David Goldblatt Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, scattata a Johannesburg nel 1965, l’inferiorità etnica e di diritto della donna nera che serve il tè a due uomini bianchi è messa in luce chiaramente.
La mostra continua dando spazio al funerale dei “quattro Cradock” e alle lotte di boicottaggio per una politica non razziale.
Al rilascio “senza condizioni” di Nelson “Modibo” Mandela, all’entrata in carica nel 1994 dell’African
National Congress (ANC) e all’elezione di Nelson Mandela a primo presidente di una nazione post-Apartheid è dedicato il corridoio più stretto della mostra. Sembra quasi che i curatori, optando per questa soluzione di allestimento, abbiano voluto evidenziare la politica cosmetica di passaggio da uno stato razzista a una democrazia confederale, che non disgiunge il nuovo Sudafrica dal capitalismo coloniale, che dal XVI secolo di fatto governa il paese. Il che pare essere confermato dagli anni Duemila, raccontati da fotografie che sono più evocazioni di eventi che documenti veri e propri.
Una fotografia scattata da George Hallett a Cape Town nel 1997, Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission vede messo in scena il metodo della “borsa bagnata” davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione.
La riappacificazione tra ex movimenti di liberazione e razzismo messa in Atto dalla Commissione per la Verità, guidata dall’ex arcivescovo Desmond Tutu, riflette lo spirito che anima il nuovo Sudafrica. Hanno ottenuto l’amnistia, riconosciuta per i crimini commessi fino all’aprile 1994, assassini di membri dell’ANC e di altri oppositori politici, terroristi di destra, membri del Parlamento per i conservatori, membri del Boere Kommando. Genera un tale sentimento di riconciliazione il legame tra le classi dei coloni imperialisti bianchi ed europei e una piccola “borghesia colorata” ed asiatica, che, corrotta, collabora con le multinazionali dei coloni.
In Sudafrica oggi i bianchi controllano la quasi totalità dell’economia, in modo diretto e indiretto, e la maggioranza della popolazione esclusa ha la funzione di neocolonia interna. In Italia la politica di integrazione razziale si traduce anche nella apertura di campi profughi, ovvero in pezzi di territorio posti al di fuori dall’ordinamento giuridico normale, e in cui è messa in discussione la legalità del rifugiato (dovuta alla discontinuità fra natività e nazionalità). Presentare in Italia una mostra in cui l’apartheid è censurata dallo sguardo di coloni bianchi, mentre gli ultimi dieci anni di storia sudafricana sono documentati da metafore storiche di fotografi di colore, documenta anche quanto perbene sia la sensibilità di chi aggiusta il trucco alla storia.
A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza. Fotografia Europea XII, Chiostri di San Pietro, Dal 5 Maggio al 9 Luglio 2017.
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