Thomas Ruff, fotografia con .jpeg. Un'intervista
Thomas Ruff è uno dei più significativi artisti contemporanei. Con la sua ricerca trentennale esplora le potenzialità del medium fotografico e metafotografico, l’immaginario prodotto dalla cultura di massa e i modi in cui il capitalismo costruisce le nostre nozioni di desiderio e le ipotesi del reale, nel rapporto tra idea di bellezza e significato che vi è sotteso. L’artista tedesco attinge da internet e dagli archivi. Lavora in forma seriale su varie tematiche, dove ogni singola immagine viene presentata sia nella sua particolarità sia nel contesto di un gruppo generale. Così facendo enfatizza e de-enfatizza simultaneamente ciò che è specifico delle fotografie scelte, visibile dentro una serie di cui ogni opera fa parte. Il significato emerge tanto dal confronto e dal contrasto quanto da ogni singola immagine. Le Jpeg scaricate dalla rete forse appartenevano a un archivio analogico originale, che è stato poi digitalizzato e reso disponibile elettronicamente. Tutte le immagini che oggi appaiono su Internet e/o stampate su libri e riviste sono digitalizzate, sono masse di informazioni elettroniche che prendono forma visiva sotto forma di pixel. Ruff lavora per rendere chiaro e visibile a chiunque la condizione di base dell’immagine elettronica: ha introdotto nell’arte la forma geometrica del pixel, ingrandendola all’interno di una fotografia digitale, per rendere visibile la grana della sua presenza, così da poter contemplare la sua presenza concettuale a livello estetico e filosofico. Realizza così opere di grande formato, ingrandendo le immagini jpeg scaricate da internet ben oltre la loro risoluzione fotorealista, e fa in modo che nelle esposizioni il reticolo dei pixel assuma una forma materiale ben visibile. Il pixel ha sostituito la grana della pellicola fotografica. Ci riferiamo a quella granulosità che dagli anni ‘30 ha assunto nel mondo della fotografia d’autore e in quella dei reportage i connotati dell’“autenticità”; è stato considerato uno strumento espressionistico, un segno della materialità dell’immagine e del fotografo virtuoso. Attraverso la serie JPEGS, Ruff è interessato a osservare la natura dei pixel – reticolari, macchinosi e ripetitivi – il loro freddo limite tecnologico. Il loro ordine virtuale segretamente unisce tutte le immagini in un continuum elettronico omogeneo, che si tratti di istantanee, di momenti storici, di vacanze, di soggetti dell’arte o di sorveglianza militare. Ruff lavora innanzitutto per studiare, nelle trame dei pixel che costituiscono i miliardi di immagini che ogni giorno fluttuano nell’iconosfera, il potenziale collasso nel caos. Molte sue immagini trattano soggetti dell’imprevedibilità, forme astratte, presenze elementali, fumo, vapore, esplosioni, rovine, fenomeni irrazionali e anarchici, che non possono essere mappati o modellati nei loro dettagli. Queste serie passano dalla figurazione all’astrazione e viceversa, sondano le tensioni e i drammi della vita moderna, con le loro forze di razionalità e irrazionalità.
Si addentra negli archivi mondiali soggetti a riarchiviazione e ridistribuzione digitale via Internet, con lo stesso interesse messo in azione anche dagli artisti d'avanguardia nei primi decenni del Novecento, con l’ascesa dei movimenti Dada, Surrealismo e Cubismo rispetto agli archivi e alle immagini ritrovate, nella prima epoca dei mass media, definita dalle riviste illustrate popolari e dal cinema. Da allora gli artisti hanno lavorato con le immagini trovate in modi diversi, nel tentativo di dare un senso a una cultura sempre più dominata dallo spettacolo.
Intorno al 2014, Ruff ha iniziato a intensificare i suoi studi anche sull’aspetto visivo del materiale di partenza della fotografia analogica stampata, ovvero il “negativo”. Ha tradotto fotografie storiche in “negativi digitali”, cambiando la distribuzione dei chiari-scuri nell’immagine e trasformando la tonalità bruna delle fotografie stampate su carta all’albumina in un tono blu freddo e artificiale. Lo scopo dell’elaborazione era quello di mettere in evidenza ciò che nella fotografia analogica non era mai l’oggetto della contemplazione, ma piuttosto solo un mezzo per raggiungere un fine. Così nelle serie di Ruff il negativo viene trattato come un “originale” degno di essere visto, da cui si ricava una stampa fotografica e che, a causa della fotografia digitale, rischia di scomparire completamente.
Quella che segue è un’intervista all’artista tedesco, nella quale abbiamo cercato di sondare insieme a lui le idee alla base di alcuni tra i progetti più importanti della sua carriera.
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Negli anni Ottanta sei stato uno studente di Bernd Becher alla Kunstakademie di Düsseldorf. In quegli anni hai sviluppato due serie fotografiche iconiche: Interiors e Portraits (1990-1991). Hai poi portato la tua ricerca non verso la realizzazione di nuove immagini fotografiche per mezzo di una macchina fotografica, ma tramite la rielaborazione di immagini esistenti. Quale è stata la scintilla che ha determinato questo passaggio e in che modo hai articolato questa domanda fondamentale negli anni?
Thomas Ruff: Mentre stavo ancora lavorando ai ritratti, ho sviluppato l’idea di riprendere il cielo notturno. Purtroppo, ho dovuto constatare che non avrei potuto farlo da solo con il mio piccolo telescopio al centro dell’Europa. La qualità sarebbe stata troppo scadente.
Avevo bisogno di aiuto, di un grande telescopio su un supporto che ruotasse in direzione opposta alla rotazione terrestre per fare lunghe esposizioni, così da catturare anche le stelle più piccole. L’ho trovato all’ESO, l’Osservatorio Europeo Australe. Loro potevano fornirmi negativi di 30 x 30 cm, da cui avrei potuto stampare fotografie del cielo notturno su larga scala. Ho dovuto rinunciare alla autorialità. Sono stato costretto a farlo, altrimenti la mia serie di stelle non sarebbe esistita.
Questo è stato il punto di partenza per il progresso del mio lavoro, perché ho capito che le mie idee visive sono molto più importanti della paternità personale della fotografia. E che ci sono molti più approcci alla fotografia della mera fotografia “artistica”. Così ho iniziato a destreggiarmi nella storia e nelle tecniche della fotografia, osservando cosa è possibile e cosa no.
SB+MZ: Hai reinventato la produzione di immagini fotografiche, esplorando la produzione di immagini satellitari, l’uso di strumenti digitali, la matrice di negativi non digitali e .jpeg. L’evoluzione tecnologica porta con sé una evoluzione della fotografia oppure, ad un certo punto, come sostiene Andrew Dewdney, dovremmo dimenticare la fotografia perché stiamo sconfinando, per mezzo del digitale, in un ambiente in cui la radice fotografica è un pesante fardello che ci portiamo appresso e può confonderci mentre cerchiamo di comprendere le ulteriori nuove immagini attuali? Oppure, dove ti ha portato il tuo approccio quasi-scientifico al fotografico?
TR: Quando ho iniziato a fotografare vivevamo in un mondo analogico, con pellicole e stampe sensibili alla luce. Ma naturalmente negli ultimi 40 anni abbiamo vissuto un immenso cambiamento tecnologico. Ho pensato che, come artista che lavora con la fotografia, avrei dovuto includerlo nella mia ricerca. Scattare immagini con una macchina fotografica è sempre stata una pratica tecnologica e con le attuali tecnologie ci sono più possibilità di creare nuove immagini.
SB+MZ: Nel 2021 hai acquisito riproduzioni di negativi su vetro provenienti dalla Maison Bonfils, uno studio fotografico professionale aperto a Beirut nel 1864 da Félix Bonfils insieme alla moglie Marie Lydie e al figlio Adrien. Perché e come hai lavorato con questi negativi di quasi 150 anni fa per la serie Bonfils (2021)?
TR: Ho trovato i negativi a un’asta a Marsiglia. Non erano in ottime condizioni. Erano stati conservati molto male. Ma mi piacevano quei segni di invecchiamento e ho deciso di fare delle stampe da questi negativi marci, mostrando tutti i graffi e le modanature. Alla fine, sono ancora negativi da cui si può stampare.
SB+MZ: Nelle serie neg◊marey (2014) e Tripe (2018) recuperi negativi ottocenteschi, portando la matericità degli stessi, che per la fotografia analogica non sono mai stati il vero e proprio oggetto di contemplazione, a nuova vita. Nella fotografia digitale i negativi spariscono. Che cosa, tecnicamente e teoricamente, rischia di sparire insieme ad essi? Che cosa stai cercando di recuperare da questa tecnica ottocentesca – anche nei suoi risvolti scientifici, per quanto riguarda la cronofotografia – per portarla nel nostro contemporaneo?
TR: Credo che la fotografia del XIX secolo fosse molto più ricca di quella di oggi. C’erano molte tecniche diverse per esporre, sviluppare e stampare le immagini. I fotografi si comportavano come scienziati, cercando, sperimentando e sviluppando diverse tecniche e metodi di stampa per le loro immagini. Hanno proposto nuove idee e invenzioni per quanto riguarda i processi tecnici della fotografia. Ciò si è concluso con l’invenzione della fotocamera Leica da 35 mm. Da quel momento in poi tutti i processi di sviluppo sono stati standardizzati e la situazione è peggiorata con l’inizio della digitalizzazione. Credo che la perdita di questo ampio e curioso campo di sperimentazione susciti il mio interesse.
SB+MZ: Come hai creato la camera oscura virtuale in cui hai lavorato alla serie Photogrammes (2012-present)? Che cosa è diventata la “Camera-less photography” degli anni ’20 (Christian Schad, Man Ray, László Moholy-Nagy ...) nel momento in cui è stata ricreata digitalmente? Parleresti ancora di fotografia?
TR: Nella mia camera oscura virtuale ho fatto lo stesso lavoro senza macchina fotografica di Moholy-Nagy e Man Ray, solo che l’ho fatto in modo virtuale. Tutti gli oggetti che usavo, la carta su cui erano esposti e persino la luce erano virtuali. E la “stampa” su “carta” non era sviluppata, ma renderizzata. E dal momento che la camera oscura era virtuale, potevo aggiungere luce colorata per “riprendere” le “ombre” degli oggetti. Quello che ho fatto è stata la simulazione “virtuale” di un fotogramma.
SB+MZ: Anche se siamo soliti incontrare Portraits (1990-1991) nei libri di storia dell’arte, una delle serie che più ci affascina del tuo lavoro è jpegs (2004-2008). La compressione digitale delle immagini genera una geometria della visione, quasi un disturbo visivo o errore, attraverso cui filtriamo le informazioni che troviamo in immagini online. In che modo la compressione delle immagini influisce sulla nostra percezione visiva? Potrà accadere che venga indotta una evoluzione o una forzatura oculare adattiva umana per fare viaggiare immagini ad alta velocità?
TR: Prima di internet, la parte più piccola di un’immagine fotografica era la grana della pellicola sensibile alla luce; con la digitalizzazione è diventata il pixel. Ma con l’invenzione di Internet c’era la necessità di creare file più piccoli per farli viaggiare più velocemente. Così è stato inventato il jpeg, abbreviazione di “joint photographic expert group”, la giuria che ha definito i tassi di compressione dei file digitali. Oggi, quando si guarda una fotografia, non si guarda la grana o i pixel, ma gli artefatti creati dal tasso di compressione utilizzato. È una nuova struttura della fotografia che ho voluto mostrare, ingrandendo le mie fotografie jpeg a dimensioni molto grandi.
SB+MZ: Ci parleresti della serie Substrat (2001-present)? Senti degli echi provenire da questa tua serie verso il presente o il futuro della fotografia?
TR: I substrati non sono più fotografie, le fonti erano manga digitalizzati, che ho sfocato e sovrapposto. I substrati rappresentano tutte le informazioni e le immagini che circolano su Internet. E poiché ci sono così tante informazioni, si percepisce solo un rumore sfocato.
SB+MZ: Quali informazioni rimangono quando le immagini di Newspaper Photographs (1990-1991) vengono isolate dalle loro funzioni? Sono le stesse informazioni che oggi verrebbero escluse dalle riviste online?
TR: Se si eliminano le didascalie da un’immagine fotografica, non rimangono molte informazioni. Si ha solo un’informazione visiva che varia in base alle proprie conoscenze pregresse. Questo accade nei giornali, ma anche nelle riviste online.
SB+MZ: Nel 1992, mentre facevi ricerche sul tema dei “volti composti”, ti sei imbattuto nella cosiddetta Minolta Montage Unit, un dispositivo di generazione di immagini utilizzato da diversi uffici della polizia criminale tedesca negli anni Settanta per creare immagini di identikit. La serie Other Portraits (1994-1995), che sembra il predecessore di Human Generator, è una continuazione del lavoro precedente?
TR: Mi è piaciuto lavorare con questo dispositivo antiquato per creare volti artificiali, poiché, grazie al processo di creazione, si intravede ancora la sovrapposizione dei due volti e un leggero accenno al fatto che non si tratta di un volto naturale. Se li avessi realizzati con Photoshop, le immagini risultanti sarebbero state troppo perfette.
SB+MZ: Nella serie Nights (1992-1996) hai fotografato cortili e strade dei dintorni di Düsseldorf, utilizzando un intensificatore di luce sulla tua fotocamera, strumento di visione notturna che ti ha consentito di registrare immagini dalla luce verdastra. Questa tipologia evocava immagini della Guerra del Golfo (1990-91), trasmesse da diversi canali televisivi. Quanto lo sviluppo fotografico e metafotografico dell’immagine dipende da dispositivi di visione di origine bellica? Attualmente hai individuato altri tipi di immagini provenienti da dispositivi altamente tecnologici impiegati ora in campo militare?
TR: Questo strumento è diventato pubblicamente visibile per la prima volta durante la Seconda Guerra del Golfo e io sono rimasto scioccato e affascinato allo stesso tempo, guardando queste immagini in TV. Abbiamo potuto guardare la guerra in tempo reale a casa nostra, anche se le battaglie erano a migliaia di chilometri di distanza. Questa serie riguarda il voyeurismo e il consumo televisivo occidentale. E poiché la guerra è stata iniziata per garantire gli interessi petroliferi degli Stati occidentali, ho dichiarato guerra a Düsseldorf senza ulteriori indugi.
SB+MZ: La tua serie Nudes (1992-2012) si interrompe nel 2012. Perché? È cambiata l’industria del porno in quell’anno? Le attuali generazioni utilizzano OnlyFans in una maniera così “naturale” e spregiudicata tanto che per la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze non sono più i genitali a rappresentare il centro della sessualità. La maggior parte degli utenti di OnlyFans cerca l’erotismo con la ragazza o ragazzo della porta accanto. Perché avevi scelto il fuori fuoco e lo sfocato per quella serie? Riguardandoli ora a distanza di anni trovi qualche premonizione rispetto ai cambiamenti attuali?
TR: Avrei potuto continuare, ma in quel momento pensavo di aver fatto abbastanza lavori. Cominciava a diventare noioso. Ho cercato di mostrare tutti i desideri e le pratiche sessuali che esistevano all'epoca, non solo la mia visione eterosessuale del corpo femminile.
Ma i tempi cambiano e con essi anche i desideri e le pratiche.
SB+MZ: C’è un filo diretto tra la tua passione per l’astronomia e il tuo lavoro fotografico, evidente nella serie Stars (1989-1992), in cui hai lavorato con copie originali dei 1.212 negativi dell’archivio dell'European Southern Observatory (ESO). La tua attrezzatura fotografica di fotografo non era utile per raggiungere una qualità di immagini astronomiche professionali. Anni dopo, hai iniziato a lavorare alla serie ma.r.s (2010-2014), che si riferisce a fotografie di Marte scattate a partire dal 2006 con una fotocamera HiRISE (High Resolution Imaging Science Experience). Come è cambiata la visione dell’universo planetario extra-terrestre grazie alla tecnologia?
TR: Fin dall’inizio dell'invenzione della fotografia, questa è stata utilizzata come nuovo strumento per gli scienziati; quindi, è del tutto naturale che la utilizziamo per esplorare l’universo. Ora possiamo guardare molto più in profondità e con una risoluzione molto più alta nel cielo stellato, il che è fantastico per comprendere meglio il nostro universo.
SB+MZ: Come immagini la fotocamera del futuro? Vedi macchine fotografiche nel futuro? Si può fotografare il futuro?
TR: Sogno una fotocamera a campo chiaro, con la massima risoluzione possibile nella mia testa. Non dovrei portarmi dietro un’attrezzatura fotografica pesante e potrei registrare le immagini prima, senza decidere una specifica messa a fuoco o la profondità di campo, e creare poi le immagini che ricordo. Così potrei avere il controllo totale dell’immagine e non dipendere dalla situazione.
SB+MZ: Come ti rapporti con l’attuale mondo delle immagini aumentate, nell’era delle macchine tecnologiche dotate di intelligenza artificiale sempre più sofisticata, delle fotografie digitali mediate dalla cultura computazionale e di Rete?
TR: Non vedo molta differenza tra queste nuove possibilità di creare immagini e la situazione di 100 anni fa. L’uomo è intrappolato nelle possibilità tecniche a sua disposizione. Alcuni si sentiranno persi in questa sovrabbondante quantità di immagini, altri saranno portati a una nuova consapevolezza.
SB+MZ: Nel 2022 il Musée d'Art Moderne et Contemporain ti ha dedicato una grande retrospettiva. Il titolo di quella mostra era Metaphotographie. Siamo interessati al motivo per cui hai scelto questa parola come una sorta di macro-etichetta per descrivere in un termine i tuoi 40 anni di carriera. Che cos’è per te la metafotografia?
TR: Quando ho discusso della mostra con Alexander Quoi, il curatore, ci siamo resi conto che la maggior parte dei miei lavori sono fotografie su fotografie, così abbiamo deciso che poteva essere un buon titolo per il catalogo e la mostra.
SB+MZ: Alla luce della tua ricerca metafotografica e di tutte le questioni che abbiamo preso in esame in questa intervista, come possiamo ricalibrare secondo te il visivo alla luce del cambio di statuto delle immagini?
TR: “L'analfabeta del futuro sarà la persona che ignora l’uso della macchina fotografica e della penna”. Credo che questa citazione di Moholy-Nagy sia ancora vera.
In copertina, Thomas Ruff, jpeg nt02, 2006, 246 x 188 cm. Courtesy of the artist.