Una mostra a Riccione / Elliott Erwitt. L’attimo giusto e il momento speciale
Elliott Erwitt (Parigi, 1928) predilige le immagini che hanno un finale aperto, quelle che lasciano spazio all’interpretazione di chi le guarda, e anche le fotografie ironiche o drammatiche, che colgono la più sottile linea del non detto, dentro la cifra esistenziale dell’essere umano. A questa tipologia appartiene Pennsylvania, Pittsburgh (1950), dove un bambino afroamericano si punta una pistola alla tempia destra mentre ride platealmente guardando verso l’obiettivo. Il bimbo compie un gesto drammatico mentre si mette in posa e in relazione con chi gli sta puntando addosso la macchina fotografica. Ride forte e cerca di stemperare quel gesto con una ironia che però non tranquillizza fino in fondo il fruitore dell’immagine. In Bratsk, Siberia (1967), un invitato seduto accanto agli sposi ha lo sguardo maligno e la mano destra sul mento. Forse custodisce uno scomodo segreto, e ride tra sé. La sposa sembra preoccupata. Gli volge un'occhiata intensa. Il marito pare accorgersi e rivolge anch’esso il suo sguardo verso l’altro uomo. In questa scena prende forma un’ambiguità di fondo. Richiama certi soggetti fiamminghi o olandesi della seconda metà del Cinquecento e del Seicento, di tono popolaresco, beffardo o satirico. Lascia intendere qualcosa, non dichiarato per intero, che ogni spettatore può interpretare a suo modo.
In Greece (1963), un sacerdote ortodosso è colto da Erwitt mentre si aggira in un museo archeologico, inquadrato al di là delle gambe - posizionate a compasso - di un’antica statua virile di bronzo posta su un basamento. La statua classica è ripresa di spalle, così che si vedano il sedere e metà schiena, appena sfocati, per dare risalto invece alla figura a fuoco del sacerdote che è in secondo piano. Questi dettagli lasciano intendere il difficile rapporto tra i religiosi ortodossi e la tradizione pagana dell’antica Grecia, tra il credo cristiano e gli idoli e le opere d’arte delle culture e religioni precedenti, evocano i momenti terribili e violenti dell’iconoclastia occidentale.
E al contempo l’espressione del prete e l’abito talare scuro spiccano, nella loro estrema messa a fuoco, nel rapporto diretto con la nudità del corpo scultoreo. Trovo interessante un’affermazione di Erwitt: “Le fotografie più riuscite hanno una ironia gentile che insinua uno o più dubbi”. E legata a questa frase sovviene Nevada, Las Vegas (1954), dove una anziana signora gioca alla slot machine che ha la forma di un cowboy; è colta mentre sta tenendo la mano sinistra sulla canna della pistola dell’uomo, ovvero sulla barra che aziona il movimento delle combinazioni nella mangiasoldi. L’immagine induce a leggere in questa scena anche rimandi all’eros della donna, proiettato nel gioco d’azzardo patologico, in un corpo a corpo tra lei e la macchina a forma di rude maschio del Far West. Interessante è anche Valdes Peninsula, Argentina (2001), in cui un cartellone pubblicitario della Pepsi è posto accanto a Cristo in croce, proprio alla sua destra, come fosse il ladrone buono che salirà con il Figlio di Dio in paradiso. Il billboard del consumismo e il simbolo del cristianesimo stanno appaiati sullo stesso Golgota contemporaneo, emblemi della fratellanza tra il capitalismo e la religione cattolica, che ha costituito il fondamento e la forza della cultura occidentale dei secoli più recenti.
Quando è stato chiesto a Erwitt “Come si capisce quando è l'attimo giusto in cui scattare una fotografia che lascerà il segno?” lui ha risposto: “Quando tutti gli elementi di una buona fotografia si presentano nello stesso momento: la composizione, il contenuto, l’atmosfera, un momento speciale. Di certo si può essere facilmente ingannati e, molto spesso, quello che sembra essere ‘l’attimo giusto’ non lo è per niente. Alla fine la fortuna e l’istinto sono le cose più importanti”. L’incontro con il famigerato “momento decisivo” è una questione evidentemente molto più complessa di quello che sembra a prima vista. Da una parte perché misurarsi con un solo istante significa avere a che fare con qualcosa che è più esteso, per comprendere anche il mistero insito nel tempo, nel suo scorrere inesorabile e divenente. La metafora del rapporto tra tempo dilatato e attimo decisivo è ben sintetizzata dalla pratica del pescatore, che sa godere lo scorrere degli attimi, delle ore, e dare valore all’attesa, prima che giunga il pesce attratto dall’esca: “È come pescare, a volte ne prendi uno.
Aspetti che accada qualcosa, a volte succede, a volte no.” Dall’altra parte si tratta di essere nel luogo giusto proprio mentre la fortuna sta manifestando un frammento del suo disegno cosmico (o pseudo-cosmico casuale) o un istante della sua azione nel mondo. Poi per chi non crede alla fortuna o alla provvidenza ma nel libero arbitrio o nelle manifestazioni delle probabilità (in senso scientifico) le problematiche si complicano ulteriormente. Erwitt dice che per cogliere l’attimo giusto è necessario che si incontrino nello stesso istante la fortuna e l’istinto. Afferma pure che molto spesso si può essere ingannati. E qui innesca qualcosa che appartiene più al campo dell’ironia e del disincanto creativo. Quindi è necessario essere presenti in un certo luogo geografico, in un determinato momento della storia, a una certa ora, proprio in quell’istante, quando qualcosa di interessante accade, quando qualcosa si rivela proprio solo in quella situazione particolare. E questo non basta per cogliere un frammento del mistero della vita.
Serve saper vedere oltre il velo dell’apparenza e cogliere la manifestazione dell’attimo giusto con l’istinto. E inoltre è sempre indispensabile aver presente che ciò che pensiamo di cogliere dell’esistenza spesso è un simulacro, una manifestazione dell’inganno. E qui entra in gioco la necessità dell’ironia. E inoltre, cosa è l’istinto? È qualcosa che è innato a tutti gli esseri viventi? O qualcuno più (e meglio) di altri sa fiutare un “momento speciale” o costruirlo attraverso le sue proiezioni creative? Ovviamente a tutti può capitare almeno un colpo di fortuna, così da essere nel posto giusto al momento giusto. Sia nella vita in generale sia per quando riguarda riuscire a cogliere un attimo speciale con la macchina fotografica o con lo smartphone. La differenza qualitativa è determinata dalla continuità. Chi è riuscito per molti anni a cogliere numerosi momenti speciali evidentemente ha dimostrato che non si è trattato solo di fortuna ma anche di fiuto o di aver doti di preveggenza tali da sapere in anticipo rispetto ad altri dove andare e quando. Per un bravo fotografo si tratta di cogliere l’attimo e di saper vedere in tempo reale gli sviluppi che susseguono al mistero di una immagine. Per un ottimo artista si tratta di innescare, oltre all’evidenza dell’istante privilegiato, le possibili germinazioni concettuali e interpretative. Ma Erwitt ha anche spostato la questione dell’istante giusto oltre il momento decisivo, cercando di esprimere qualcosa con più di una foto, con una sequenza di collegamenti visivi. In un’intervista al “Time”, ha affermato: “si cerca sempre l’immagine migliore, ma a volte le immagini non sono così belle da sole; in serie diventano più interessanti”.
Inoltre, ciò che è molto importante per Erwitt è l’attenzione lenticolare rivolta verso la condizione umana, i piccoli accidenti delle persone, la maniera in cui si confrontano con la vita. Saper cogliere le sfumature insite negli atteggiamenti umani è una condizione imprescindibile per cogliere istanti fotografici in grado di raccontare sentimenti universali, in cui le persone si possano rispecchiare e riconoscere. Il fotografo americano (di origini ebraiche russe) ha la capacità di esprimersi in maniera diretta e facile. Riesce anche a far sorridere, portando alla luce l’impulso della risalita dal fondo e del superamento dopo aver vissuto momenti difficili: “Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo”. Tra attimi fuggevoli e humour, dunque, veleggia la ricerca di Erwitt.
In molte sue fotografie sono protagonisti gli animali, intesi come inconsapevoli proiezioni dei comportamenti delle persone, in particolare i cani, a cui ha dedicato una decina di libri, dove le “foto antropomorfe” (così le ha definite l’autore-osservatore ironico) sono considerate una metafora del genere umano. In questa accezione sono eloquenti le numerose fotografie di famiglie, messe in posa con il loro cane in bella mostra, e soprattutto New York City (2000), dove a causa di una illusione ottica il corpo di un uomo seduto sulle scale esterne di un’abitazione pare diventare tutt’uno col cane che è assiso sulle sue gambe, come se padrone e animale domestico si fossero fusi in una metamorfosi di ascendenza mitologica. New York City (1974) e Netherlands (1973) aprono a rapporti di dialogo lirico tra zampe canine e gambe umane che calzano scarpe o stivali, con lo sguardo dell’obiettivo portato a terra, al livello della strada, o a puntare l’attenzione piuttosto su ciò che è celato, per esempio sotto il tavolino del soggiorno.
Fino al 3 aprile è visitabile a Riccione la mostra Family, a cura di Biba Giachetti, che ha selezionato con Erwitt un campionario di storie umane rivolto a raccontare le mutazioni della famiglia dal dopoguerra all’inizio del nuovo millennio. Il percorso si dipana attraverso una sessantina di fotografie in bianco e nero, con immagini ironiche e spaccati sociali, matrimoni nudisti, famiglie allargate, metafore a finali aperti, piccoli accidenti della quotidianità, i grandi eventi che hanno fatto la storia, e ritratti in interni, in posa sul sofà negli anni Sessanta. Erwitt evoca anche il vasto mondo delle foto negli album di famiglia, dove le immagini accompagnavano il desiderio di un racconto privato e personale degli eventi che segnavano le tappe dell’esistenza, con i ritratti degli avi, i matrimoni, le nascite dei figli, le ricorrenze, i viaggi, le vacanze al mare o in montagna, le gite fuori porta, i funerali. L’album fotografico di famiglia è nato prima nelle classi sociali dell’aristocrazia e della borghesia, dove rappresentava la testimonianza di tutto ciò che era accaduto nell’arco di una vita, tutto condensato in volumi che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi arredavano il salotto buono della società, e poi è diventato sempre più popolare soprattutto nella società occidentale del boom economico.
Alla luce delle suggestioni che hanno interessato i critici dei visual culture studies o degli spostamenti innescati dal processo sempre in mutazione dell’arte contemporanea, è interessante anche andare a rivedere e rileggere secondo un’altra ottica certe immagini di Erwitt.
Per esempio Roma (2004): un vigile urbano dirige il traffico orchestrando i suoi gesti da una pedana, come fosse un direttore d’orchestra. Il fotografo ha collegato i movimenti delle sue mani a un cartellone che su un muro visibile in secondo piano pubblicizza una mostra intitolata: “A Flash of Art. Action Photography in Rome 1953-1973”. Il soggetto del cartellone è una mano di un personaggio noto, probabilmente tesa verso un paparazzo per cercare di nascondere il volto. La mano sbiancata dal flash nella metapicture (ovvero l’immagine contenuta dentro un’altra immagine) crea una relazione di senso più sottile se messa in relazione con le mani del vigile urbano che indossano guanti bianchi, e si muovono come fosse in atto una performance cara all’arte contemporanea.
In Florida Keys (1968) l’occhio viene catturato dal parallelismo figurativo tra un uccello gruiforme bianco e una fontanella rudimentale costituita da tubi a vista con rubinetto, dove l’incontro tra due soggetti apparentemente distanti qui rende visibile la portata di ogni mimesi, che raccorda la somiglianza delle cose alle idee. New York, Metropolitan Museum of Art (1953) inaugura una serie interessante di fotografie che indaga il rapporto tra visitatore dei musei e opere esposte, qui a ribadire la relazione tra tempo e arte, tra fruizione e conservazione delle idee tradotte in figura, nella relazione tra picture e metapicture, dove la fotografia mostra le immagini di altri media, in questo caso di statue, per evocare una estensione o coazione delle possibilità mediali. Questa indagine visuale verrà approfondita ulteriormente da Ugo Mulas, Luigi Ghirri e successivamente da Thomas Struth.
In Versailles (1975) tre visitatori si soffermano davanti a una cornice priva del dipinto, dove al centro è stato posto un cartellino che avvisa i fruitori che l’opera è collocata in un altro luogo, forse dal restauratore o in una mostra temporanea. Accanto all’opera “delocata” è esposto un dipinto in cui lo sguardo di un busto antico è rivolto verso il quadro mancante e le tre persone che leggono il cartellino. La bambina in New York, Metropolitan Museum of Art (1988) si pone in posizione mimetica, in rapporto con le sculture dell’Antico Egitto, come se assumesse le sembianze di una arcaica divinità incarnata in un nuovo tempo storico.
La fotografia Prado Museum, Madrid (1995) documenta con humour lo sbilanciamento dell’interesse maschile per il corpo femminile: sette uomini guardano la Maja desnuda di Goya come fossero inguaribili voyeur, mentre una donna osserva da vicino la versione della Maja vestida. E per chiudere momentaneamente questo breve viaggio ispirato alle immagini più riuscite di Erwitt, mi affido alla memoria per ricordare anche tutti gli istanti privilegiati e i momenti decisivi che ho colto in alcune occasioni solo con lo sguardo, perché non avevo con me una macchina fotografica o non ho fatto in tempo ad accendere la fotocamera dello smartphone. Qualche attimo giusto e immagine speciale sono rimasti solo nella memoria individuale, in qualche caso volutamente, per lasciare allo spazio intimo e personale la possibilità di rievocare in silenzio la scena speciale, e altre volte per incapacità di coniugare l’istinto alla tempestività, di cogliere al volo il ciuffo dell’Occasio o di incontrare una rivelazione della Fortuna.
Elliot Erwitt. Family
A cura di Biba Giachetti
19 dicembre 2021- 3 aprile 2022
Villa Mussolini, Riccione, Viale Milano 31
Promossa dal Comune di Riccione, l’esposizione è organizzata da Civita Mostre e Musei SpA e Maggioli Cultura, in collaborazione con SudEst57