Intervista a Marcello Maloberti / Le parole come incontro di boxe
Da qualche tempo penso alla latenza delle immagini. Subito dopo aver sostato nel senso latente di una figurazione vista direttamente con gli occhi provo anche il processo inverso, ovvero cerco di immaginare qualcosa che è detto o evocato da una parola o da una frase. Per esempio, mi sovviene il titolo di un’opera di Marcello Maloberti: “Le formiche fanno fatica sulla neve”. Cosa sta tra l’immaginare ciò che viene nominato e vedere direttamente le formiche che si muovono sulla superficie di un luogo innevato? Come indaghiamo il senso latente di un’immagine nominata, ciò che agisce accanto o dentro la correlazione tra significante e significato? Da qualche anno Maloberti scrive – a pennarello nero su fogli bianchi A4 – frasi sotto forma di slogan, frammenti impulsivi, aforismi umorali, con vari registri, visioni, parole/immagini dirette, frontali, sfacciate, intese come un sipario che si apre. Queste frasi tridimensionali scritte a voce sono “martellate”, ovvero qualcosa che ha il fine di permanere nella testa e di martellare ulteriori immagini, idee, dubbi, spostamenti. Una raccolta dei pensieri scritti come l'urgenza di un titolo è stata pubblicata in un libro edito da Flash Art nel 2019, MARTELLATE (SCRITTI FIGHI 1990-2019), da leggere come fosse un autoritratto che riassume in forma frammentata e poetica le ossessioni che nutrono il suo lavoro.
Ad Hannover, dal 22 dicembre 2020 al 4 aprile 2021, Maloberti ha attivato la facciata della Kestner Gesellschaft con la scritta "Das Publikum ist mein Körper" (Il pubblico è il mio corpo), che si erge sopra l'ingresso come una potente dichiarazione in lettere nere scritte a mano su sfondo bianco e rappresenta un messaggio centrale in questi tempi di pandemia e di isolamento. L'installazione di grande formato fa parte del progetto "Martellate" e indica il rapporto con il pubblico, sottolineando il ruolo sociale dell'arte. Il lavoro di Maloberti è il preludio a un nuovo formato della Kestner Gesellschaft, il cui scopo è quello di rimanere in contatto con il pubblico durante la chiusura e di estendere la visibilità del luogo istituzionale nello spazio pubblico. Le sue performance e installazioni, messe in azione sia in spazi privati sia in luoghi pubblici, prediligono l'interazione del pubblico e innescano un dialogo aperto. Indagano gli aspetti sottili dell'esperienza urbana emarginata e prestano particolare attenzione all'informe e all'incertezza della vita quotidiana. Il progetto della facciata è accompagnato da una campagna che include manifesti nello spazio urbano, cartoline e schermi televisivi.
Alla luce dell’indagine sul doppio registro nel rapporto tra parola e immagine, pongo alcune domande a Maloberti, artista visivo che in questo momento utilizza il linguaggio verbale per mettere in azione la sua ricerca.
Mauro Zanchi: Vi sono diversi linguaggi e mezzi per riferirsi alla medesima ‘cosa’, utilizzando strumenti sia verbali sia visuali. Come mai in questo momento della tua ricerca hai scelto di esprimere le tue intuizioni o idee per via aforistica, attraverso brevi frasi icastiche che chiami “martellate”? Martellate nel senso e nella pratica secondo il punto di vista di uno scultore, che agisce per levare materia, per sottrarre un “di più”? O l’azione del martellare ha altre connotazioni, magari anche iconoclaste?
Marcello Maloberti: Ho iniziato questo lavoro nel 2008, con la mostra Marcello — nome che deriva dal latino martello — presso la Galleria Raffaella Cortese. La parola per me è il corpo della poesia, che è qualcosa di impalpabile, quando la tocchi scompare. Ciò che non si può toccare è la poesia. Martellate porta le parole alla loro chiarità. È una pratica che si muove in parallelo con il mio lavoro installativo, visivo e performativo. FARE MARTELLATE è un progetto vivo, perché è ATTO NELL’ATTO, si identifica nell’azione di scrivere, che è la cosa più semplice. Si configura come la parte più libera e disarticolata. Mi piace che le parole scritte conducano al sorriso, perché il sorriso è la vera disobbedienza. Scrivere è lasciarmi dire la voce come specchio della voce, è così che risento i miei pensieri a voce sola.
Martellate conserva anche un certo senso fisico dell’azione. C’è un libro di Nietzsche che s’intitola “Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa con il martello”. Quello che faccio è martellare con il linguaggio. La parola è dove finisce la misura.
MZ: Ti servi del linguaggio verbale o scritto intendendolo come strumento per risalire dalla fisicità del reale ai procedimenti mentali che sottendono a esso, per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della creazione artistica?
MM: L’artista è come San Paolo: è sulla strada di Damasco, ha continue illuminazioni E CADE.
In tal senso la parola scritta e orale è forse in questo momento il grado massimo di innalzamento della realtà. La parola è un’intrusione nel reale puro, non si riferisce né al simbolico né all’immaginario: con lei si manifesta proprio il reale, che è lì da indagare.
La prima forma di parola scritta con cui gli artisti si confrontano sono i titoli delle proprie opere, che si amplificano, si strutturano, si studiano. Ad esempio, “La vertigine della signora Emilia” è uno dei miei primi titoli (1992), che considero anche la mia prima martellata; un buon titolo può anche salvare un lavoro.
I titoli come i suoni sono immagini assenti, ma che hanno un peso, alcune volte anche più grande dell’immagine stessa. Considero le parole come il mio stare soprappensiero. Ricordo una frase di Paul Valery che recitava “La poesia è un’esitazione prolungata tra il senso e il suono”. Non era più né senso né suono. È una cosa che vive nell’essere tra le cose. È importante saper sostare nell’ESITAZIONE.
MZ: Hai messo in atto anche percorsi di traduzione in immagine delle tue martellate? Hai trasmutato l’iconico in verbale e operato successivamente il percorso inverso?
MM: Le parole scritte sono visioni, come essere perennemente al cinema; una volta che le fotografi ritornano ad essere immagini digitali. Le Martellate sono libri contratti in un titolo, le parole si sbriciolano tra le mani, sono titoli di racconti mancati, di romanzi possibili-impossibili, dove tutto ha luogo nella brevità della lettura. Sono parole che possono essere lette ovunque, sui social, per strada, sui mezzi di trasporto. Sono frasi a voce scritta, perché sono parole sentite più che lette.
Nella parola ritrovo i tre presenti che racconta S. Agostino: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro. Ed io in tutto questo, mi trovo visitato dalla parola, sono quasi un filtro, che si dimentica, si volatilizza nel momento stesso in cui ascolta. Davanti alla parola io faccio sempre un passo indietro, perché lei possa esistere. Le Martellate sono un oracolo timido e balbettante.
MZ: A volte l’immagine possiede una sorta di deriva di senso, che si rivela alla percezione ma sfugge a ogni formulazione linguistica. Quando il soggetto in un’opera d’arte è una parola o una frase o un periodo ogni presunta trasparenza del significato evoca invece altre questioni?
MM: Nella parola c’è una deriva di senso, non lavoro mai pensando che le parole debbano avere un senso compiuto e meccanico. Parto dal significante, da quella parola “barbarica”. La mia parola è una performance, un incontro di boxe, è farsi evento stesso della parola. Non parto mai nei miei lavori pensando al significato o a cosa dovrebbero dire. Il mio occhio e la mia sensibilità devono essere già carichi di un potenziale che abita il reale sempre un po’ di traverso.
L’oralità conserva un aspetto enigmatico. Nell’oralità tutto cambia. Martellate sono frasi mai finite, sono solo abbandonate, sono appunti che si ricongiungono ai pensieri e che così non vanno persi nel nulla. Mi serve scrivere perché non possiedo un modo lineare di pensare, tutto si costituisce sempre come un intreccio di fili che compongono un tessuto, dove non si ha né un inizio né una fine e non si può sapere in anticipo che filo si incrocerà.
MZ: La parola scritta riferita a qualcosa che riguarda il visivo (e poi fotografata e divulgata in rete o su riviste o libri) diventa anch’essa una rappresentazione? Approfondiresti questa catena di passaggi di consegne o di estensioni semantiche?
MM: La fotografia è carta stampata, che ricalca la realtà, la parola è rifotografata e ristampata, ridiventa immagine. La mia forma di scrittura non è narrativa ma è una sospensione, è un fare parentesi. Il mio lavoro si sintetizza in un pensiero visivo e successivamente ognuno nella propria testa creerà da solista un’immagine dalle parole. Martellate sono per me degli slogan filosofici-poetici, che conservano una certa ingenuità, restituendo quello che si vede e si sente in modo veloce e diretto; una martellata che mescola il colto con l’incolto, il volo con il rasoterra, la stupidità stupida.
Mi piace che le parole possano creare una sorta di gioco, come un bambino che cerca il suo spavento, il suo nascondiglio. Martellate è quello che non diresti mai, quello che diresti sottovoce. È un tilt visivo.
L’omologazione o meglio ancora l’omogenizzato, il comfort che deriva dal diventare digitali nasce come divertimento e finisce trasformandosi in un lavoro giornaliero per ogni persona. Il mostrare, il mettere in mostra, va rinnovato. Martellate sono come degli affreschi di una sala che cercano dimora. Anche con il provvisorio si fa dimora.
MZ: Le tue martellate inglobano l’assunto: l’arte e il discorso sull’arte sono la stessa cosa?
MM: Diceva Carmelo Bene che non c’è racconto senza raccontare, è un passaggio del pensiero che non ha l’obbligo del concetto. L’arte è espandere la vita e l’insegnamento che è parte integrante della mia pratica, è forse quella più politica. Parlando con gli studenti le parole fuggono dalla bocca, per creare altre parole e altre bocche che vanno per la loro strada, e io mi sento attraversato. Forse anticipano anche il pensare stesso nella loro connotazione di essere istantanee, come se la parola fosse una materia notturna da scolpire. La parola è il mio artigianato tra le mani.
In questo periodo forse non c’è cosa più bella di vivere questo duro silenzio e farsi vuoto, farsi un nulla di un battito sgraziato di una farfalla ferita al davanzale di una delle solite finestre, e che la vita torni più di prima.
MZ: In questo momento della tua ricerca intendi l’arte come qualcosa che assume senso solo quando si pone come riflessione sulla sua stessa natura?
MM: Pensavo al periodo che stiamo vivendo e mi rendo conto di quanto si siano disegnati più profondamente i tratti del corpo del mio lavoro, che ha sempre guardato il vicino come lontano e straniero, come direbbe Gilles Deleuze in una sua frase su Kafka: sentirsi Straniero nella propria lingua. Il bagliore e il comfort del globale non mi hanno mai molto attratto e toccato da vicino, rimango invece affascinato dal riuscire a mantenere una sacralità delle cose, IEROFANIA, è qualcosa che PERMANE nella continuità dei tempi. Forse il mondo è questo tuono di silenzio senza le apparenze del moderno vivere. ESTASI DEL NEGATIVO.
In questi anni la formalizzazione di vedere l’arte attraverso la lente del Design ha creato una noia dello sguardo. L’arte non si progetta, L’ESTASI NON SI PROGETTA. Il linguaggio si può rinnovare nell’imprecisione, ma per trovare la propria strada bisogna uscire da essa, sbandare e risbandare. Il linguaggio si increspa come un’onda. Mi piace questa frase di Martin Heidegger che guardando a tutto il suo lavoro dice: “Sentieri e non opere”.
MZ: Il filosofo analitico John Langshaw Austin, in Sense and sensibilia (1962), sostiene che per dimostrare quello che qualcosa è bisogna prima dimostrare ciò che non è. Le tue martellate sono vicine a questa visione?
MM: Sì, perché anche a me piace molto questa negatività. Per affermare qualcosa si parte sempre da quello che non è. Una teologia negativa. Un’apparizione. Il negativo per me è cercare di lavorare su quello che non è visibile, le frasi più belle sono quelle notturne che vengono poi dimenticate, perché sono troppo veloci per essere fissate sulla carta. Lavoro le voci della mia testa, la scrittura è come lo specchio della lingua. I lavori che mi piacciono sono sgambetti, come le cadute sui marciapiedi.
MZ: Quando le tue martellate entrano come opere d’arte nei musei o sono affisse nel tessuto architettonico delle città cosa mettono in azione ulteriormente?
MM: In questo periodo siamo più voce che corpo e un corpo di voci. Le parole sono come dei boomerang, il presente eterno del pensiero. Ogni frase ha un suo sapore, un suo aroma, un suo luogo. Le mie frasi si ritagliano nella pagina vuota attorno a questo bianco desertico che si sospende. Forse è il momento di non esporre oggetti ma parole, per uscire dal silenzio di esporre un oggetto; bisogna invece abitare la parola che diventa una dimora. C’è una caratteristica AURORALE. L’arte è per sua traduzione nobile. Bisognerebbe ritrovare l’aura descritta da Walter Benjamin, rinnovare il linguaggio e il modo di vedere il mondo, come se le cose avessero uno sguardo, per creare cose che ti guardano con il loro occhio. Le parole più interessanti ti guardano, sono anch’esse persone. Nella parola c’è questo sguardo che ti guarda. La parola è l’immaterialità più vicina allo spirito.
MZ: Ci parleresti dei più recenti interventi a Ortisei e ad Hannover? Cosa hai innescato in queste due azioni “verbali”?
MM: Il progetto ad Hannover, a cura di Adam Budak presso il museo Kestner Gesellschaft che è attualmente chiuso, è rivolto al pubblico assente del museo, cuore pulsante di ogni attività espositiva. DAS PUBLIKUM IST MEIN KÖRPER (IL PUBBLICO È IL MIO CORPO) è la frase che si legge sulla facciata esterna dell’edificio, parola scritta su una linea come se fosse la pagina di un libro e sui manifesti in giro per la città. I manifesti sono come parole dette che saranno diffuse in giro da altri, come un passaparola. Il pubblico è quello della vita di tutti i giorni. Il corpo dell’altro diventa interessante non come sublimazione dell’artista ma come teatro degli scenari inquietanti di questo momento storico. Il museo esterno si trasforma nel museo interno. Il corpo dell’altro è il corpo del caso, del possibile farsi incontro con l’altro. E questa frase è una sorta di mantra, poiché attraverso i manifesti entra nello spazio urbano e cittadino.
A Ortisei, alla Biennale Gherdëina, curata sempre da Adam Budak, ho frammentato il mio libro MARTELLATE SCRITTI FIGHI 1990-2019 edito da Flash Art, scegliendo di seminare all’interno della città e degli spazi pubblici frasi tra le tante, che potevano incontrarsi con il luogo. Ad esempio LE MONTAGNE SONO I DENTI DI DIO, AMEN, NON FAR FARE ALLA ROSA QUELLO CHE LA ROSA NON VUOLE FARE, LE FORMICHE FANNO FATICA SULLA NEVE. In questo senso, il luogo modificava lo scenario delle parole. Le frasi sono scritte in italiano, inglese, tedesco e ladino, perché la regione è trilingue e si sottolinea così la fluidità di passaggio tra le diverse culture.
MZ: Giordano Bruno ipotizzava la possibilità di parlare e pensare per immagini. Probabilmente, in altre epoche ma forse anche in tempi recenti, qualche sciamano ha trasmesso immagini e messaggi per via telepatica. Attraverso le MARTELLATE tu vuoi immaginare per parole?
MM: Dipende molto dalle frasi. Alcune sono immagini presenti, altre filosofiche. Penso ad esempio al quadro Paesaggio fantasma di Magritte, dove ha scritto montagne sul volto di una donna. Lei vede le montagne. Non è una parola di stampo concettuale né di poesia visiva. Piuttosto è la notte che pesa sul giorno di Luciano Fabro. La parola mi permette di avere più verbi in un verbo unico. È il mio straparlare, è la dislessia. Anche il mio lavoro nasce da uno spavento, all’inizio non riuscivo a parlare. I lavori che mi piacciono sono tutti dei traumi.
La parola non è per forza la realtà di tutti i giorni, è una realtà. PERMANE. Forse la parola è vedere con le orecchie non solo con le immagini, un accadere fonetico.