Un delitto perfetto? / Caso Varani. Il movente c’è eccome!

12 Aprile 2016

A bocce ferme, possiamo dircelo: c’è qualcosa che ci si poteva aspettare di leggere nella miriade di editoriali e commenti suscitati dall’omicidio di Luca Varani, e che non è stato (quasi) mai detto.

Probabilmente non occorre ripetere particolari che ormai tutti conoscono. A Roma, nel quartiere Collatino, la notte tra il 3 e il 4 marzo Varani, ventitré anni, è stato lungamente seviziato e assassinato da due uomini sui trent’anni, Marco Prato e Manuel Foffo, nell’appartamento di quest’ultimo. Le ragioni del delitto non erano chiare. La larga quantità di droga (cocaina e altro) assunta dagli omicidi poteva al massimo amplificare una distorsione più profonda.

 

Non c’è quotidiano che non abbia pubblicato un editoriale  – o due, tre, cinque – sulla vicenda. Ma la ricerca delle cause ha preso subito una direzione ben precisa: il delitto del Collatino come sintomo di un disagio universale, storico, esistenziale. Questa chiave di lettura è stata perseguita ad oltranza, con pagine e pagine  di commenti sul “problema del male”. Ancora il 20 marzo l’inserto culturale del “Corriere della sera” pubblicava tre pagine in cui “medici, scienziati, umanisti, artisti” ragionavano “sull’origine del bene e del male” in risposta a “un omicidio, brutale nella sua gratuità inspiegabile”. Il motivo principale è una dichiarazione di Foffo subito dopo l’arresto: “L’abbiamo fatto per vedere che effetto fa”. 

 

Questa frase di Foffo è stata decisiva. Questa frase spiega il lungo articolo di Massimo Recalcati intitolato “Quel male senza causa” (La Repubblica, 8 marzo), che dice per esempio: “Il crimine [oggi] appare sempre più erratico, vacuo e dissociato dal senso… L’evaporazione di ogni Causa ha lasciato il soggetto di fronte ad un vuoto privo di senso che esige solamente di essere in qualunque modo riempito”. La stessa frase motiva il pezzo di Paolo Di Stefano (Corriere della sera, 10 marzo) che scrive: “Qui non c’è l’ombra neppure di una ragione irragionevole” e spiega: “È il futuro distonico dell’arancia meccanica realizzato nel presente… Una lucidità da eccesso di vuoto. Il fondamentalismo del nulla”. Ma gli articoli analoghi sono tantissimi, presenti un po’ dappertutto nella stampa e in rete, con puntuali riferimenti a Sade, Nietzsche, Girard, Bauman, e alla banalità del male. (Ormai, il vero orrore da cui tutti dovremmo guardarci è la banalità della banalità del male.)

 

Nessuno si è chiesto se la frase di Foffo fosse una menzogna, più o meno cosciente. Tutti l’hanno presa per buona. Forniva la spiegazione che tutti aspettavano e forse volevano, quella che non solleva troppi problemi, o ne solleva di tanto vasti da non poter essere affrontati: il nichilismo, il vuoto. Forse è vero che viviamo in un mondo nichilista e insensato. Ma la vastità della diagnosi rischia di oscurare la specificità di un determinato crimine.

 

La frase di Foffo non è nuova. Esprime con efficacia la teoria dell’atto gratuito: agire senza nessun motivo, solo per provare a farlo. Di solito la si mette alla prova proprio con un omicidio, compiuto per sfida o tanto per fare. Come fa Meursault, il protagonista dello Straniero di Camus (1942). Ma sono poi venuti decenni di riflessioni sull’orientalismo, da Edward Said a Kamel Daoud, a chiedersi se questa storia di un coloniale francese che uccide un’anonima vittima indigena sia poi davvero così priva di movente.

 

Potrà parere frivolo che per ragionare di un assassinio si parli di letteratura. Foffo non avrà letto Camus (Prato forse sì, se era per metà francese). Ma non è questo il punto. La letteratura serve a capire una cultura: quella in cui siamo affondati e che ci forma. Il nostro mondo, il nostro presente. Ragioniamo con pazienza, allora. La teoria dell’atto gratuito è stato uno dei fili conduttori del pensiero del Novecento. Si può tracciarne facilmente i nodi principali – che condividono, come vedremo, un elemento inatteso. A parte Camus (e trent’anni prima di lui) il classico riconosciuto dell’”atto gratuito”, il punto d’origine di questo paradosso logico – un atto fortemente deliberato, senza alcuna ragione apparente – sta in un altro romanzo: I sotterranei del Vaticano di André Gide (1914), in cui il giovane Lafcadio Wluiki getta uno sconosciuto dal vagone di un treno. Così, senza alcun motivo. 

 

Qualche commentatore ha citato Camus e perfino Gide. Nessuno, mi sembra, si è spinto più avanti. Se invece che ai libri guardiamo ai film, non si può non citare Nodo alla gola (in origine Rope, 1948) di Alfred Hitchcock: due complici strangolano un amico e nascondono il cadavere in un baule. Il film (ispirato a un omicidio gratuito realmente accaduto, il caso Leopold e Loeb del 1924) si svolge tutto in una sola stanza ed è realizzato (grazie ad alcuni trucchi) con quella che sembra un’unica interminabile ripresa. La pellicola collega come una corda tutta l’azione, dal primo all’ultimo minuto: una narrazione così serrata da sottolineare ancora di più, per contrasto, l’assenza di qualsiasi movente concreto.

 

Il riferimento a un caso di cronaca si fa più vicino con A sangue freddo di Truman Capote (1966), strettamente basato sul quadruplice omicidio di Holford del 1959.  Nel libro uno psichiatra spiega che Perry Smith – leader della coppia omicida – “rappresenta il tipo di assassino… descritto in una monografia dal titolo Delitto senza motivo apparente”. L’atto gratuito è tale perché i suoi fondamenti psichici sono un groviglio insondabile, che può venire evocato (dallo scrittore) ma non veramente spiegato.

 

L’ultima incarnazione del tema, infine, sviluppa questa ipotesi in un intero genere letterario. Non tanto il giallo o il noir (che anzi hanno bisogno di legare l’azione delittuosa a un obiettivo ben definito), quanto quella variante del thriller che prende a oggetto i serial killer: assassini difficili da catturare proprio perché i loro imprevedibili crimini non servono a soddisfare alcun bisogno tangibile. L’esempio più illustre è Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris (1988, divenuto tre anni dopo un acclamato film di Jonathan Demme), con la caccia al pluriomicida Jame “Buffalo Bill” Gumb.

 

Ora, da tutti questi libri e film non è mai troppo lontana l’omosessualità. O più precisamente, l’omofobia interiorizzata. È un abbinamento da cui non si scappa, un appuntamento fisso. In André Gide il tema dell’atto gratuito si collega strettamente a una scelta di vita (penso a I nutrimenti terrestri) affrancata da obblighi “borghesi” come l’eterosessualità tradizionale. I protagonisti di Nodo alla gola di Hitchcock sono amanti; lo erano anche Leopold e Loeb. Truman Capote, gay, ha portato alla luce le tensioni omoerotiche dei suoi personaggi. E i serial killer letterari, a partire dallo stesso “Buffalo Bill” di Thomas Harris, sono spesso affetti da turbe legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. 

 

Ma da dove nasce questo nesso tra atto gratuito, condizione omosessuale, e vissuto omofobico, che ha segnato tutto intero il Novecento? È chiaro: dall’idea (sto parlando di un fantasma omofobico, ovviamente: ma è un fantasma potente) di una sessualità gratuita. Una sessualità, quella omosessuale, che si suppone immotivata, senza ragioni perché priva di effetti; vana, sterile, edonistica. Qualcosa che, quando si svela, non avrebbe nulla da dare o da dire, perché rappresenterebbe solo un atteggiamento fine a se stesso: un vezzo estetizzante, al massimo un rompicapo logico. Si tratta di stereotipi tanto diffusi e radicati che non occorre commentarli o fornire esempi.

 

 

Una sessualità, poi, che è meglio non mostrare: qualcosa che può venire dissimulato, e va tenuto nascosto. (Non a caso molte di queste opere insistono sulla camera chiusa, il vagone del treno, la casa isolata, il rifugio sotterraneo.) L’omosessualità infatti è una condizione discriminata, ma non come quella dell’ebreo o del nero, marchiati dal loro stesso corpo, segnati dal loro appartenere a comunità chiuse e riconoscibili. L’omosessuale può invece nascondersi, sfuggire ai controlli. Il suo stigma è l’invisibilità, il suo spettro non è tanto lo sterminio quanto l’inesistenza. Ciò che non ha ricadute o effetti, non ha riconoscibilità sociale, non si manifesta in relazioni, non fa figli, può scomparire alla percezione. Invisibile, perché non lascia tracce: gratuito.

 

Non importa che in realtà la condizione gay sia oggi sempre più visibile, sempre più relazionale, a volte addirittura familista. Purtroppo, infatti, gode ancora di ottima salute l’idea di omosessualità che ho descritto. L’omosessualità come delitto perfetto. L’omosessualità come delitto senza movente. Questo è ciò che ci dice la cultura omofobica in cui viviamo tutti. Ed è il modo in cui alcuni gay e lesbiche rischiano di pensarsi.E il vero delitto senza movente, come quello del Collatino, non è altro che la rappresentazione scenica, l’acting out, dell’omosessualità. O meglio: dell’omofobia interiorizzata.

 

Quando un Foffo dice: “L’abbiamo fatto solo per vedere che effetto faceva”, noi che leggiamo le sue parole dovremmo avere l’accortezza di non credergli, e chiederci invece: che tipo d’uomo avanza una scusa del genere (agli altri, e forse a se stesso)? Dovrebbe scattare un vero e proprio campanello d’allarme. Dovremmo riconoscere che questa forma di denegazione ha una storia ben precisa, tipicamente associata alla difficoltà di gestire l’omosessualità in un contesto omofobico. Dovremmo intuire che il cuore malato di questa storia è proprio l’omofobia. 

 

Senza minimamente giustificare le sevizie e l’omicidio di cui si sono macchiate due persone abiette. Ma cercando di capire. “Capire è un po’ giustificare”, si dice a volte. Non è vero. Occorre saper capire, e saper fare giustizia. Ma capire ci serve. 

 

Prima di tutto ci serve a non stupirci quando, nei giorni successivi, emergono particolari che suggeriscono con forza sempre maggiore, con ostinazione, la centralità della questione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere in questo omicidio. È troppo presto per rimettere insieme tutti i pezzi del delitto del Collatino, e forse non si riuscirà mai a ricomporre questo puzzle deforme. Ma certamente le schegge raccolte finora parlano in mille modi diversi di eterosessualità simulata; di omosessualità negata o mal vissuta (sì, può esserci anche in un gay dichiarato); di omofobia interiorizzata (ma anche espressa, in un modo o nell’altro, da tutti i protagonisti della vicenda); di transfobia; e di un caratteristico accanimento contro un ragazzo giovane e bello che a quanto sembra è una marchetta gay. Addirittura la preoccupazione immediata – e atroce – di tagliare le corde vocali di Luca Varani assume, al di là della pretesa necessità di farlo tacere (esito che si poteva ottenere in molti altri modi), una valenza simbolica del tutto coerente con il tema dell’impossibilità profonda di esprimersi, di essere se stessi. Il quadro clinico è completo. Siamo ben lontani dal “male senza causa”, dal “fondamentalismo del nulla”. 

 

Poi, capire ci serve a fare sì che questi mali sociali, di cui il caso Varani è l’incarnazione in tutti i sensi estrema, vengano combattuti e sconfitti. Il delirio di Foffo e Prato ci impone di lottare ancora più apertamente contro le discriminazioni omofobiche e per la parità di diritti. Quando si legge che Prato, dopo l’assassinio, avrebbe detto a Foffo: “Questo ci unirà per sempre”, si pensa a quell’altro (e più sano, direi!) modo di “unirsi per sempre” che poche settimane fa il Parlamento ha ancora una volta negato a gay e lesbiche, ripetendogli che sono infedeli, che non sono famiglie. (Imponendogli, insomma, proprio il “Famiglie, io vi odio!” dei Nutrimenti terrestri di Gide.)

 

Il delitto del Collatino si è nutrito dell’odio e del disprezzo contro gay e trans, agito stavolta da gay e trans. Sembra una conclusione ovvia. Ma perché non l’abbiamo letta da nessuna parte? E come mai in questa tempesta mediatica quasi nessuno ha parlato di omosessualità, omofobia, transfobia? 

 

Qualcuno si è avvicinato al nocciolo della questione. Nicola Lagioia sul “Venerdì” di Repubblica, oltre ad analizzare (non è il solo) l’evidente inadeguatezza dei padri dei due killer, ha sottolineato quanto fosse sintomatica la professione di eterosessualità che Foffo, dopo l’arresto, reiterava fino all’ossessione. Ma alla fine ha diagnosticato solo un generico “vuoto d’identità” di “due individui mai nati per davvero”. Tutto vero; come negare il vuoto identitario dei nostri tempi? E quanto alla crisi della figura paterna, è stata invocata anche in altri commenti sul caso Varani, con puntuali rimandi a Lacan e Luigi Zoja. Ma è chiaro che decine di migliaia di ragazzi romani, pur mancando di solidi riferimenti identitari e di padri eticamente affidabili, non massacrano nessuno. Il vuoto che si è manifestato in questa storia non è un generico vuoto d’identità: è un vuoto ben preciso, una pallottola con l’indirizzo chiaramente leggibile. Ha a che fare con l’identità sessuale e con l’omofobia. 

 

È questa la chiave che  ha avvicinato i due assassini, è questo che li ha portati a scegliere una marchetta gay. Perfino le difese di prammatica messe in campo dai padri (quello di Foffo: “A noi Foffo non piacciono i gay”) riportano ossessivamente a questo tema. Perché nessuno ha visto l’elefante in salotto? La risposta è chiara. Perché a tirare in ballo l’omosessualità si rischiava non solo di venire fraintesi e apparire omofobici, ma anche, al contrario, di venire strumentalizzati dai media ostili (entrambe le reazioni si sono puntualmente verificate per un articolo e un’intervista, in parte discutibili, del vice capo della cronaca del Messaggero Marco Pasqua). Però… però ci sono state anche analisi convincenti, come quella di Federico Boni: che senza minimamente assolvere i due killer, e senza minimamente addossare colpe all’omosessualità tout court, ha ben inquadrato la faccenda: Il mondo gay in quanto tale non c'entra assolutamente niente con il delitto VaraniMa che questa storia trasudi repressione omofoba è lampante”

 

Purtroppo l’intervista a Boni non è uscita dal ristretto circolo dei media gay. La stragrande maggioranza del giornalismo italiano non ha saputo produrre una vera analisi dell’accaduto. Conclusione: ci vuole più coraggio. Sono stati pubblicati troppi commenti che invece di praticare una sana prudenza neutralizzavano la specificità del caso in esame, e lo annegavano in una meditazione sui massimi sistemi. A quanto pare, oggi non si scrive più il pezzo di costume sulle “relazioni particolari” e sul “fetido fiore dell’omosessualità”, come accadeva nella Prima Repubblica; questo no. Ma per non dare l’impressione di attaccare l’omosessualità, per non sembrare omofobici, e forse soprattutto per non affondare le mani nelle aggrovigliate dinamiche dell’identità e della discriminazione (con cui nel nostro paese si ha ancora poca famigliarità), i media generalisti preferiscono fare come se l’omosessualità e l’omofobia non c’entrassero niente. Finendo per confermare quello stigma dell’inesistenza di cui si è già parlato. Così il caso Varani diventa davvero il delitto perfetto: quello che ci rimanda direttamente al “problema del male” senza distrarci con le sue cause reali, immediate, e curabili.

 

Con la morte di questo ragazzo, l’omosessualità e lo stigma purtroppo c’entrano: in un modo complesso, inquietante, e che deve spingerci ancora di più a impegnarci tutti per una reale parità di diritti, per un mondo in cui le mostruose distorsioni che fanno da sfondo al crimine del Collatino non abbiano davvero più ragion d’essere. Un mondo in cui omofobia e transfobia appaiano finalmente immotivate, e siano il vero atto gratuito. 

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