Un mondo antico, Il mondo scintillante / Cordelli critico
Se per caso qualcuno volesse farsi un’idea precisa della figura del critico militante, e della sua presenza oggi, potrebbe comodamente darsi alla lettura dei due volumi editi da Theoria e firmati da Franco Cordelli. Si intitolano Un mondo antico, a cura di Domenico Pinto, e Il mondo scintillante, a cura di Enzo Sallustro. Sono, per ammissione dello stesso autore, due opere scaturite dalla necessità di «mettere ordine» nel proprio lavoro di lettore di professione, di tracciare una sorta di consuntivo dei primi venti anni di questo secolo. Il primo è composto da testi usciti per la maggior parte sul «Corriere della sera» e guarda esclusivamente all’Ottocento e, soprattutto, al Novecento, a quel mondo antico, appunto, ormai irrimediabilmente superato, quello di una civiltà letteraria che, scrive Pinto, si è inabissata «senza clamore». Il secondo, Il mondo scintillante, è invece consacrato all’universo del romanzo contemporaneo, giacché i testi che contiene trattano esclusivamente di romanzi usciti nel XXI secolo.
La civiltà perduta era caratterizzata, per esempio, dalla presenza dei partiti letterari – a proposito, esistono ancora o sono stati definitivamente sostituiti dalle congreghe editoriali? – e dunque dei critici militanti, che di quei partiti (tendenze, movimenti, gruppi) costituivano la punta più acuminata. In quella civiltà il critico militante si incarnava soprattutto nella figura del recensore polemico, disposto a sporcarsi le mani con il presente, a dare giudizi destinati magari a essere smentiti, talvolta dall’autore medesimo, negli anni successivi. Ecco, benché quella civiltà sia in larga misura tramontata, Cordelli ne rappresenta ancora uno dei maggiori testimoni; è, in buona sostanza, un sopravvissuto. Perché malgrado tutto la sua attitudine militante è ancora attiva, come si vede per esempio quando ha il coraggio di buttare giù dall’altare due degli eidola dei lettori d’oggi, quali Emmanuel Carrère, autore di «capolavori dell’inganno» e del Kitsch, o Murakami Haruki, «uno degli scrittori più furbi dei nostri anni».
Il critico militante Cordelli gioca a carte scoperte, è credibile (anche quando capita, persino con una certa frequenza, di non essere d’accordo con lui) perché non finge. Perché la lettura è offerta come un processo quasi fisico, fatto di scatti, di rammemorazioni, di disagi. Spesso si vede l’autore alla ricerca di un libro all’interno della propria biblioteca oppure se ne leggono i giudizi inappellabili, non necessariamente argomentati, come per esempio quello sull’«orrido Stoner» – «Questo libro l’ho detestato con tutte le mie forze» – o su André Aciman: «l’ho prima adorato e l’ho poi senza pentirmene odiato». Oppure è possibile imbattersi in una palinodia come quella pronunciata a proposito di Annie Ernaux, inizialmente sottovalutata. Una sorta di critica sentimentale, si potrebbe dire, ancorché in maniera assai approssimativa.
In uno scritto del 2011 su Romano Bilenchi si legge: «non sono un critico, non voglio esserlo, voglio essere solo ciò che sono, un lettore». È una scelta di campo ben determinata, giacché a quest’ultimo si può concedere tutto, anche il guizzo umorale, mentre il critico ha l’obbligo di «vagliare, confrontare, distinguere, accostare». Tutte azioni che richiedono tempo, mentre il lettore, questo lettore, ha fretta, è insaziabile e più schietto. Non a caso tra queste pagine ne spuntano qua e là alcune piuttosto acide nei confronti della critica italiana, colpevole, a partire da Gianfranco Contini, di avere osteggiato Il gattopardo, ma soprattutto di non avere un sistema definito di valori: «Che la critica italiana si azzardi a dire che un libro è un bel libro per quel che dice (e poiché, va da sé, lo dice in quel certo modo), è quasi impossibile»; unico suo valore sarebbe «lo scrivere bene» o lo «scrivere bello». Ed ecco dunque il motivo dell’attacco a Contini e a chi ne ha seguito le orme, come il detestato Sanguineti.
Questa lettura vorace di libri è il segno di una dedizione al romanzo – più volte Cordelli sottolinea l’identità tra libro e romanzo – che assume quasi i tratti di un’adesione religiosa. Certo, quella del romanzo è una religione non più trionfante, anzi decisamente in crisi, eppure, anche se «Il ciclo vitale del romanzo tende all’esaurimento», il lettore-credente non può né sa abbandonarla.
Da lettore esperto, carico di una memoria letteraria prodigiosa (non a caso si chiede spesso se i giovani leggano ancora questo o quell’autore), Cordelli registra due fenomeni, che proprio dal secondo Novecento ai nostri anni hanno conosciuto un grande sviluppo. Il primo dato è appunto la crisi del romanzo medesimo (posto che il romanzo è sempre, costituzionalmente, in crisi): nonostante i numeri dell’editoria sembrino dire il contrario, «nessuno crede più nella letteratura (nel romanzo)». Si può dire anzi che «La vera letteratura si è lasciata il romanzo alle spalle; di storie se ne raccontano troppe; non servono più; non vi si può più credere». Quest’affermazione così perentoria è poi seguita da un elenco di grandi scrittori – Naipaul, Coetzee, Dovlatov, Roth – i cui libri maggiori non sono romanzi. Del resto, osserva Cordelli, «I romanzieri che riescono a scrivere romanzi credibili, ovvero belli, sono sempre di meno». È entrata in crisi, dunque, anche la famosa suspension of disbelief.
Il secondo fenomeno è determinato dalla circostanza che il romanzo è un genere «cosmopolita e democratico per sua natura» e perciò incessantemente suscettibile di «contaminazioni e annessioni» (altrove l’autore scrive che in fondo il senso della letteratura risiede precisamente nella sua «liquidità»). È per queste ragioni che, a partire dal secondo Novecento – e oggi il fatto è più che mai evidente –, la geografia del romanzo si è andata modificando in maniera radicale, perché il canone, termine tutto sommato sgradito a Cordelli, si è ampliato fino a includere continenti che prima non avevano voce, oppure erano poco rappresentati: l’Africa, l’Asia, l’America Latina. E se, come rileva giustamente Domenico Pinto, i due volumi di Cordelli costituiscono una «enciclopedia del romanzo», è altrettanto possibile leggerli come un vero e proprio atlante del romanzo, soprattutto Il mondo scintillante, che è opportunamente organizzato per continenti, ove la fa comunque da padrona la vecchia Europa.
Naturalmente la lettura di romanzi in altre lingue, talvolta lontanissime, pone il problema della comprensione degli elementi strettamente stilistici: è difficile intendere appieno un libro se non se ne conosce la lingua, questo almeno vorrebbe una certa critica. Cordelli dissente in maniera radicale: «la vera letteratura mondiale è scritta in una quantità di lingue e [...] con incresciosa presunzione credo di capire un libro (un romanzo) sebbene tradotto: capirne non solo i cosiddetti contenuti ma, sia pure in misura ridotta o fantasiosa o cervellotica, la cosiddetta lingua». La «cosiddetta lingua» viene dunque posta in secondo piano rispetto all’ordine nel quale Cordelli asserisce di credere, ossia la «priorità strutturale d’ogni narrazione». Quello che conta, in ultima istanza, è in primo luogo l’organizzazione del testo, perché la lingua è «dettata dai contenuti».
Proprio armato di questa «incresciosa presunzione» Cordelli affronta una miriade di romanzi, variando tra tutte le forme della critica militante, che è sempre in larga misura frutto dell’occasione: dalla semplice recensione al piccolo saggio (esemplari in tal senso sono le pagine sul Diavolo in corpo di Radiguet), fino al ritratto critico, come nel caso di quei consuntivi suggeriti dalla scomparsa di un autore (García Márquez) o dall’attribuzione del Nobel (Jelinek, Vargas Llosa). Monografie minime, secondo la definizione di Pinto, che consentono un accesso, non necessariamente dalla porta principale, al mondo della letteratura, antico o scintillante che sia.