Critica della democrazia digitale

5 Maggio 2014

Nel 1997 Norberto Bobbio concludeva con queste parole la sua autobiografia:

 

 «Altrettanto incerto è se sia benefico o malefico l’influsso che sulla democrazia può esercitare il progresso tecnico, che pone nelle mani degli uomini strumenti di trasformazione e di manipolazione della natura e del mondo umano sinora sconosciuti. Può, per un verso, favorire la volontà di potenza, per un altro sollecitare progetti irrealistici di soluzione dei problemi di cui l’umanità soffre dalle origini della sua storia. Del resto, come ho detto tante volte, la storia umana, tra salvezza e perdizione, è ambigua. Non sappiamo neppure se siamo noi i padroni del nostro destino.»

 

La cautela del filosofo torinese – nella preistoria del web sociale – è la lezione che Fabio Chiusi ha appreso e messo in pratica nel suo Critica della democrazia digitale, da poco pubblicato da Codice Edizioni. E Bobbio appare spesso nel libro come una voce misurata che, dal passato pre-internet, ammonisce sui pericoli insiti nelle “visioni” (termine che in questo caso va inteso nel suo senso lisergico) di una “computer-crazia”: nelle poche righe sopra citate ci sono tutte le coordinate dentro le quali si muove il libro di Chiusi.

 

Fabio Chiusi

 

1) La volontà di potenza

  1.  

Con un’inusuale collocazione a fine volume, la metodologia e il taglio del testo esplicitano lo scopo del libro: “indagare la valenza pratica e concreta degli esperimenti di democrazia digitale alla luce delle speranze che da decenni continua invariabilmente a suscitare”. Pare allora che il libro (e ancora di più quel caveat posto alla fine come postfazione) sia piuttosto una critica della speranza democratica – e la speranza è spesso l’anticamera di una volontà di potenza. Il secondo capitolo s’intitola non a caso “Da Atene a Casaleggio: storia di un’illusione” e tratta delle contraddizioni e dei paradossi di quelle teorizzazioni della democrazia che pendono pesantemente verso la dimensione utopica: Chiusi se la prende con quegli autori che dagli anni Sessanta in poi hanno sproloquiato di futuri dorati della politica e del decision-making, fino ad arrivare ai nostrani e ruspanti Grillo e Casaleggio. E si cimenta in un breve ma intenso corpo a corpo con la tradizione libertaria di Wolff e Graeber, di cui mette in mostra le aporie teoriche (pur ammettendo che “il discorso andrebbe approfondito”). Né gli sfugge – sebbene vi dedichi solo un paio di cenni – che una critica della democrazia digitale deve essere calata, al giorno d’oggi, nel contesto più ampio del rapporto à trois tra capitalismo, sviluppo tecnologico e storia dell’idea di democrazia.

 

Metodologicamente il libro prende le giuste precauzioni per evitare la seduzione di una qualsiasi volontà di potenza: adopera solo fonti accademiche o indipendenti, si riferisce a progetti e iniziative di ambito nazionale e non locale e soprattutto si situa dialetticamente come terzo rispetto alla riduttiva opposizione tra tecno-ottimisti e tecno-pessimisti. Soprattutto, Critica della democrazia digitale non è un libro di futurologia e (anche grazie ai suoi solidi riferimenti teorici) rifugge dalla pericolosa tentazione del cosiddetto predictive thinking. In queste sue caratteristiche si vede tutta l’esperienza maturata dal Fabio Chiusi giornalista d’inchiesta, sempre attento a scavare nelle implicazioni delle notizie che quotidianamente riguardano lo sviluppo della Rete.

 

2) I progetti irrealistici di soluzione dei problemi di cui l’umanità soffre dalle origini.

  1.  

La democrazia è banalmente una possibile risposta a una domanda antica come l’uomo: come possiamo vivere insieme? E la democrazia digitale è l’ultima delle varianti offerte di un modello di convivenza, di amministrazione e di legittimazione del potere che oggi deve fare i conti con un livello di complessità della vita sociale senza precedenti. Fabio Chiusi prende in considerazione tre modelli: quello dell’iperdemocrazia à la Grillo e Casaleggio, la democrazia liquida teorizzata da Steven Johnson e la democrazia continua di cui Stefano Rodotà ha scritto nel suo celebre Tecnopolitica. Per ciascuno mette in evidenza non solo la farraginosità di alcuni passaggi teorici, ma soprattutto la distanza tra teoria e prassi – una distanza causata da questioni di ordine tecnico (in primo luogo il digital divide) e da un’oggettiva mancanza di volontà politica. Da rilevare – sulla scorta proprio di Bobbio e Kelsen – la sua insistenza sull’importanza dei “corpi intermedi” e in particolare dei partiti politici, di cui sembra che l’autore abbia grande nostalgia.

 

Qui il campo di analisi è l’Italia, di cui si dice che “fornisce un punto di vista privilegiato. Forse mai come ora una democrazia avanzata è stata allo stesso tempo fragile e convinta di avere nel digitale una possibilità per rinvigorirsi”. E la conclusione – basata su un’attenta disamina delle fonti – è chiara: “[…] è lecito chiedersi se l’uso della rete sia davvero percepito come il potenziale di rivoluzione civica così spesso descritto da teorici e media. Certamente ciò non si verifica in Italia […]” (corsivo mio).

 

Chiusi prosegue allargando il suo sguardo a quei progetti irrealistici che fuori dall’Italia provano non solo ad articolare la partecipazione popolare intorno agli strumenti digitali, ma anche a far emergere da questa delle vere e proprie deliberazioni. È il caso della costituzione islandese, elaborata in maniera fintamente collettiva e definitivamente affossata dal parlamento locale; o di Senador Virtual, una piattaforma cilena per l’elaborazione di proposte legislative che con scarsa efficacia si traducono poi in legge; o ancora di molte altre iniziative di e-petitioning in Finlandia, Regno Unito e USA. Conclusione: “l’illusione che basti rivestire di digitale la democrazia per renderla effettiva sembra fare comodo a chi intende cambiare tutto in superficie […] per cambiare poco o nulla in profondità”.

 

3) Non sappiamo se siamo noi i padroni del nostro destino.

  1.  

Se l’eccesso di democrazia, come denuncia Bobbio, uccide la democrazia, la trasparenza, da valore positivo e garantista, rischia di convertirsi nell’occhio onnisciente del Grande Fratello. Forte della sua approfondita conoscenza delle vicende relative al cosiddetto “datagate” (e che lui stesso racconta in un ebook gratuito dal titolo Grazie Mr. Snowden) Fabio Chiusi ricorda a più riprese “il potenziale distopico, di controllo e manipolazione sociale, insito nelle stesse tecnologie che avrebbero dovuto portare alla liberazione del cittadino”. In un’ottica più ampia, che va la di là dei limiti architettonici delle piattaforme digitali di partecipazione politica (Chiusi, nell’ultimo capitolo, fa un’attenta disamina degli strumenti di e-voting), le considerazioni sull’invasività dei dispositivi connessi (smartphone, wearable devices) ci ricordano come spesso non siamo noi i padroni del nostro destino, nella misura in cui i vari gadgets, le app e i software hanno un controllo sulla nostra vita – nei meccanismi più intimi della nostra vita biologica e psichica – senza precedenti.

 

Quello di Fabio Chiusi è un libro che mancava dal panorama editoriale italiano, ma soprattutto mancava dal panorama culturale italiano. Il corpo a corpo con le fonti, l’aderenza a fatti misurabili, l’acutezza analitica, la capacità di collegare in maniera originale e sensata temi e problemi apparentemente distaccati, la fertilità delle domande che pone e dei sentieri di ricerca che apre (uno su tutti: la nozione di sovranità digitale) ne fanno un modello da seguire nell’ambito della saggistica che si occupa di digitale. A Bobbio sarebbe piaciuto.

 

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