Amazon, Hachette e le responsabilità dei lettori

18 Agosto 2014

Infiamma, da alcuni mesi, una querelle tra il gigante della distribuzione Amazon e uno dei più grandi gruppi editoriali statunitensi (sebbene di origine francese), Hachette, intorno al modello distributivo (ossia intorno a chi decide i prezzi e come si ripartiscono i guadagni) da applicare ai titoli digitali di quest’ultima. Ma forse querelle non è il termine appropriato per ciò che in origine era un braccio di ferro su un negoziato commerciale e ora appare essere una vera e propria scazzottata senza esclusione di colpi bassi. La faccenda, a dire il vero, riguarda ben poco – da un punto di vista concreto – i nostri lidi ferragostani e il nostro piccolo mercato editoriale, linguisticamente condannato a essere una provincia dell’Impero dove la lingua parlata e letta, a differenza dell’Inglese, riguarda solo poche decine di milioni di persone; ma come osservatorio sulle trasformazioni dell’industria editoriale, lo scontro in atto consente di fare alcune interessanti rilevazioni.

 

La cronologia del conflitto è stata dettagliatamente ricostruita a inizio luglio da Letizia Sechi in un articolo ricco di citazioni e rimandi utili. Ed esattamente un mese dopo quell’articolo, un nuovo fatto si è aggiunto a una disputa già abbastanza aggrovigliata: un migliaio circa di scrittori americani (tra cui molti autori di best-seller), riuniti intorno alla sigla Authors United, hanno comprato una pagina sul New York Times per pubblicarvi una lettera indirizzata ai propri lettori, in cui, senza mezzi termini e senza nemmeno l’eccesso del politically correct che solitamente caratterizza questi documenti, hanno chiesto alla multinazionale di Jeff Bezos di “smetterla di arrecare danni alle possibilità di sostentamento di quegli autori su cui ha costruito i suoi affari”. Amazon ha risposto citando (male) Orwell e dando cifre e numeri sul tema dell’elasticità del prezzo degli ebook. A complicare le cose sono intervenuti pure gli autori autopubblicati, quei self-publisher che grazie alla piattaforma Kindle Direct Publishing hanno riscosso un notevole successo di vendite. Come Hugh Howey, per esempio, che con toni da paladino dell’indie sostiene – con forse un po’ troppa retorica e poca sostanza argomentativa – che se i prezzi degli ebook calano (come vorrebbe Amazon) se ne venderanno più copie e la promozione della lettura ne trarrà beneficio.

 

 

Come sempre accade nei dibattiti, per andare al nucleo delle questioni bisogna prima sbarazzarsi degli infiocchettamenti, delle prese di posizioni ideologiche, e talvolta di alcune vere e proprie falsità. Uno dei migliori debunking delle argomentazioni di Amazon che si possono leggere in rete è quello di Fabrizio Venerandi, che – screenshot alla mano – mostra quelli che con un generoso eufemismo chiameremmo dei paradossi. Vale davvero la pena leggerlo. Venerandi si riferisce a un comunicato dell’azienda di Seattle pubblicato prima della risposta agli autori di Authors United, i cui contenuti però sono stati abbondantemente riciclati in quel testo; e conclude centrando un nodo cruciale della disputa:

 

È un documento talmente diretto che penso possa - paradossalmente - essere utile a chiunque abbia a che fare con l'editoria digitale per prepararsi ad una diversificazione più ampia possibile di soggetti legati alla distribuzione e alla creazione di specifiche digitali, per una emancipazione da qualunque monopolio che si consolidi all'orizzonte.

 

Diversificazione dei distributori vs. concentrazione. Bene contro male. Sorprende – ma fino a un certo punto – come il linguaggio pubblico di Amazon non si periti di nascondere le pratiche ricattatorie messe in atto contro Hachette (il rifiuto di accettare i pre-ordini sui suoi titoli, di scontarli, il rallentamento delle consegne, l’aver suggerito ai lettori altri titoli) e utilizzi toni allusivi francamente poco degni di una grande azienda. Chi vede in Amazon una nuova incarnazione del demonio trova qui altra benzina da lanciare sul fuoco sacro dell’indignazione.

 

Né questo è il primo segnale di una volontà di potenza ricoperta dalla foglia di fico della “battaglia per i lettori”. D’altra parte sorprende un po’ di più la naïveté di chi crede che un’azienda privata persegua il bene pubblico: la faccenda è un po’ più complessa di quello che la dicotomia privato/pubblico lascerebbe intendere, e se dovessi individuare una felice sintesi direi che non ha torto David Carr del New York Times quando definisce Amazon “a public company with very private tendencies”. Il valore pubblico dell’azienda è presto detto, se solo consideriamo il volume di transazioni che ogni giorno effettuiamo sul suo portale e dunque la sua pervasività nella nostra vita quotidiana (qui in Italia e ancor di più in USA, dove ormai la gente vi compra pure il latte e l’insalata). Infine sorprende – con un retrogusto piuttosto amarognolo – il finto tono di realpolitik di chi taglia la testa al toro sostenendo che se non piacciono le politiche di Amazon, se ne può far sempre a meno. Se gli editori non hanno pane, insomma, mangino brioches. Il punto qui è semplice: non ci sono nemmeno le brioches. Ovvero: fare a meno della distribuzione di Amazon è nel migliore dei casi un azzardo finanziario, nel peggiore un suicidio assistito. Ciò non toglie – come rilevava Venerandi – che bisogna concretamente pensare a costruire della alternative efficaci.

 

 

Insomma, se dietro agli anatemi lanciati contro Bezos e la sua creatura si cela un rifiuto (se non, più spesso, una incapacità) di comprendere le trasformazioni dell’industria editoriale e più in generale dei media e uno sgradevole puzzo di conservatorismo; se dietro la cecità di chi crede che la mano invisibile di un oligopolista in odor di monopolio rechi indubbi vantaggi al bene pubblico si legge, da una parte, tutta la pericolosità di un’ideologia neoliberale che spinge sempre di più per equiparare la produzione libraria ed editoriale al mercato delle commodities e, dall’altra, lo sfilacciamento di molti legami sociali; se, infine, in una disputa commerciale in fondo limitata a due soli attori intervengono praticamente tutti gli attori della filiera (con gli autori in prima linea) salvo i lettori; allora è forse a questi che dovremmo rivolgerci per un possibile ruolo di arbitrato.

 

Il digitale ha dato loro un potere che prima non avevano: recensioni, stellette, raccomandazioni, motori di ricerca, algoritmi di discoverability, book blog, social reading, gruppi di lettura on-line. Se n’è detto tanto e da tanti punti di vista. Ora, è forse una banalità da fumetto sostenere che a un grande potere si accompagna una grande responsabilità? Se Amazon è indubbiamente imbattibile dal punto di vista della praticità e dell’efficienza e se questo primato si basa tuttavia su delle pratiche aziendali che non hanno molto da invidiare alle miniere dell’Inghilterra vittoriana, allora la scelta del consumatore/lettore responsabile non può solo basarsi sulla comodità del buy-with-one-click. Comprare uno stesso libro sul sito dell’editore e sopportare una procedura d’acquisto leggermente più lunga e dei tempi di consegna (per il cartaceo) maggiori consente tuttavia all’editore di avere margini operativi più alti e dunque di poter continuare a fare il suo lavoro. D’altra parte ciò non esime certo questi ultimi dall’offrire servizi sempre più efficaci e alternative alla scontistica selvaggia: dai siti web user-friendly alle vendite in bundle, dalle procedure di fidelizzazione a una promozione più dialogica e meno verticale. Ma se (e mi rendo conto che questo è un grande se) consideriamo l’editore, i suoi contenuti e i suoi servizi come la variabile indipendente, allora possiamo fare un discorso sulla responsabilità dei lettori.

 

Il digitale consente di scegliere, amplia il numero di alternative, consente di fare comparazioni. Queste possibilità fanno sì che noi consumatori di libri possiamo effettuare scelte razionali, dove per razionalità s’intende il maggior beneficio con il minor costo. Ma ora che come lettori siamo entrati a pieno diritto nella filiera editoriale nel ruolo di attori che sono in grado di determinare – molto più di prima – il successo di un titolo, non dovremmo allora dotarci anche noi di una sorta di policy aziendale? Nella misura in cui non miriamo al profitto (se non a quello, impalpabile, derivante dalla lettura di buoni libri) non dovremmo adoperare criteri di scelta che vanno al di là della rational choice?

 

La disputa tra Amazon e Hachette denuncia a mio modo di vedere esattamente questo: il ruolo di pedina, di paravento retorico, di elemento di ricatto e di ostaggio direi, che viene assegnato ai lettori. Eppure mai come oggi i lettori possono scegliere ed esser protagonisti del mercato editoriale. Lo scrittore Paolo Cognetti suggerisce, commentando la lettera sopra menzionata di Authors United, che una buona protesta sarebbe che pezzi da novanta del calibro Stephen King e John Grisham si rifiutassero di esser venduti su Amazon: una provocazione intelligente, perché chiama gli autori a prendere posizione, ma difficilmente sostenibile nel tempo. Più sostenibile sarebbe che una fetta sempre maggiore di lettori decidesse di guardarsi intorno e di scegliere non solo il contenuto ma anche la modalità dei propri acquisti. Alleandosi con editori meno altèri e più attenti ai servizi, reclamerebbero finalmente la centralità del loro ruolo nell’industria editoriale.

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