Dall'autoritratto al Selfie

3 Febbraio 2014

“Poso, so che sto posando, voglio che voi lo sappiate, ma questo supplemento di messaggio non deve minimamente alterare...la preziosa essenza della mia persona” (Roland Barthes)

 

 

Pochi giorni fa mi sono imbattuto in una foto scattata da Francis Bacon a se stesso. Si vede Bacon allo specchio, in una stanza spoglia, con un termosifone e una cassettiera sullo sfondo, che impugna una macchina fotografica bifocale (probabilmente una Rolleiflex) e si fa un autoscatto.

 

Pochi minuti dopo ho aperto Instagram sul mio telefono e scorrendo le immagini pubblicate da amici e conoscenti, ho visto che qualcuno aveva appena scattato una “selfie”, un autoritratto di sé, in ascensore, davanti allo specchio, nella stessa posizione di Bacon. L'unica differenza era che la Rolleiflex era stata sostituita da uno smartphone e che la mia amica non era Bacon. Ma l'estetica delle due immagini era incredibilmente simile.

 

C'è una sottile linea rossa che unisce l'autoritratto di Bacon - e di tutti gli artisti prima di lui – agli attuali ritratti fatti con macchine digitali e telefoni? Probabilmente sì, ma ci sono molte più differenze che similitudini. L'unica cosa certa è che l'autoritratto, come scriveva un giornalista su un numero del New York Times di Febbraio 2006, è diventato “l'arte folk dell'era digitale”.

 

Nel 2013 l'Oxford Dictionary ha scelto 'Selfie' come parola dell'anno. Selfie è entrata ufficialmente nel dizionario inglese con la seguente definizione: “una fotografia che una persona ha fatto di se stessa, normalmente con uno smartphone o una webcam, e poi ha pubblicato su uno dei social media". Nell'ottobre del 2013 erano 140 milioni le immagini pubblicate con l'hashtag #me e su Flickr, per esempio, la ricerca del termine “self portrait” ha prodotto 1.469.127 foto  (ma la cifra aumenta ogni giorno).

 

Cosa succede all'umanità? C'è qualche psicologo che può dimostrare un aumento di narcisismo connesso alla diffusione delle nuove tecnologie del sé (social media)?

 

Di sicuro, la lettura prediletta dai media per spiegare l'esplosione del fenomeno “selfie” è quella del narcisismo. Negli Stati Uniti, la patria dell'invenzione delle malattie a beneficio delle industrie farmaceutiche, si è cominciato a parlare di 'Selfie Syndrome': un disordine della personalità che emergerebbe nelle persone troppo preoccupate della propria immagine digitale. Secondo uno studio della California State University un uso eccessivo dei siti di social networking può essere connesso a una serie di malattie mentali come depressione, schizofrenia, ipocondria, sindrome da deficit di attenzione, disordine ossessivo compulsivo, voyeurismo. L'uso di Facebook, secondo questa ricerca, sembrerebbe risultare maggiore nelle persone insicure e narcisiste. Proprio queste persone sarebbero quelle che cambiano più di frequente il proprio status, che postano continuamente foto di se stesse, e scrivono spesso di se nei post. Ovviamente nei media tradizionali è subito circolato il messaggio che sono i social media a renderci più narcisisti. L'articolo How social media is making us narcissistic uscito il 2 dicembre 2013 corredato di una bella infografica ha velocemente fatto il giro del mondo occidentale ed è stato condiviso migliaia di volte da tutti i narcisisti del mondo sul proprio profilo. Dal The Guardian al The New Yorker fino al New York Times (via James Franco), i selfie sono stati trattati molto aspramente come delle forme superficiali di attrarre attenzione e farsi auto promozione.

 

Ma le letture troppo semplici della realtà non sempre sono quelle giuste. C'è qualcosa che non mi torna in questa lettura. I media, come al solito, vengono accusati di generare disturbi, malattie, sindromi che di solito hanno le proprie radici non nella tecnologia ma in noi stessi. La televisione e la radio non ci rendono cretini, così come i videogiochi non ci trasformano in assassini assetati di sangue e internet non ci rende stupidi (al contrario di ciò che pensa Nicholas Carr). I media, social media compresi, assecondano “soltanto” la nostra personalità, la nostra cultura, le nostre passioni, la nostra identità. Certo, oggi un narcisista ha molte più possibilità di praticare il suo narcisismo di un tempo. In un certo senso i social media democratizzano il narcisismo. La popolarità dell'autoritratto, del “selfie”, è qualcosa che viene da lontano.

 

La tecnologia, dall'invenzione della fotografia ai social media, ha lentamente contribuito a democratizzare pratiche estetiche e sociali un tempo prerogativa esclusiva di categorie sociali ben precise. Prima della fotografia, almeno fino ai primi dell'ottocento, l'autoritratto era praticato soltanto dai pittori, che si auto dipingevano per lasciare traccia di sé ai posteri.  Pittori e artisti in genere erano molto narcisisti, ma nessun giornale dell'epoca parlò mai, immagino, di malattia della personalità dovuta alla diffusione della pittura. Stefano Ferrari, nel suo La psicologia del ritratto nell'arte e nella letteratura ( Bari, Laterza, 1998) racconta come Ugo Foscolo per esempio, avesse una vera e propria mania per il proprio ritratto. Se ne fece fare un numero incredibile, partecipando molto attivamente alla vicenda della loro creazione e diffusione. Era un  maniaco del controllo della propria immagine.

 

Poi la nascita della fotografia rese possibile l'auto ritratto anche ai fotografi, anch'essi artisti, al pari dei pittori, ossessionati dal desiderio di non scomparire senza lasciare traccia di sé. La miniaturizzazione e la trasportabilità delle macchine fotografiche tra ottocento e novecento permise che la pratica dell'autoritratto iniziasse a diffondersi anche tra i fotografi amatoriali, tra le élite aristocratiche che potevano permettersi l'acquisto di una macchina fotografica e farsi finalmente da sé i propri ritratti. Ilse Bing, per esempio, era figlia di una ricca famiglia ebrea di Francoforte che iniziò ad appassionarsi alla fotografia, diventando una delle figure più importanti della scena surrealista parigina degli anni trenta. Il suo “autoritratto con specchi” (1931) mostra un tipico esempio dell'estetica che andava di moda in quegli anni negli autoritratti. La foto mostra l'artista che inquadra se stessa dietro le lenti di una Leica (Ilse divenne famosa come “La Regina della Leica”) e la sua immagine è riflessa due volte così da mostrarla sia di profilo che di fronte.
Negli auto ritratti dell'epoca moderna, macchina e specchi sono sempre presenti: il proprio sé è riflesso da punti di vista diversi, permettendo all'autore/osservatore di guardarsi dall'esterno.

 

La critica di fotografia Susan Bright, nel libro Autofocus. L'autoritratto nella fotografia contemporanea (Contrasto, 2010) scrive: “Cosa viene raffigurato in un autoritratto? Storicamente, l'autoritratto (soprattutto nei dipinti) è sempre stato concepito come rappresentazione delle emozioni, come esteriorizzazione dei sentimenti intimi e come una profonda autoanalisi e autocontemplazione che avrebbe il potere di conferire una sorta di immortalità all'artista. (…) Quando osserviamo un autoritratto fotografico (…) vediamo piuttosto una dimostrazione di amore del Sé”. La Bright sostiene che chiunque abbia una macchina fotografica, a prescindere che sia un artista o meno, “ha l'impulso di puntarla su se stesso e i fotografi o gli artisti che non hanno mai ritratto se stessi sono una rarità.”

 

Ecco, sta qui il punto per la nostra argomentazione: “chiunque abbia una macchina fotografica ha l'impulso, a un certo punto, di puntarla verso di sé”. Non è questione di narcisismo, ma solo di disponibilità tecnologica. (poi vabbè, c'è qualcuno che ci va sotto ed esagera. Succede con qualsiasi tecnologia). La popolarità del “selfie” come pratica sociale ed estetica è il frutto non di un aumento del narcisismo nella nostra società, è piuttosto la conseguenza del mix di democratizzazione delle tecnologie fotografiche, sempre più miniaturizzate e a portata di mano nei nostri telefoni e diffusione di siti in cui si possono facilmente condividere immagini fotografiche come Flickr, Facebook, Twitter, Pinterest, Instagram. Afferma la sociologa spagnola Amparo Lasen che “l'autoritratto si è convertito da pratica minoritaria e artistica, derivata dall'autoritratto pittorico, a pratica generalizzata, sotto forma di autoscatto o autoritratto digitale, grazie all'invenzione delle macchine digitali, alla diffusione di nuove ottiche digitali nei cellulari e negli smartphone e alla crescente presenza e necessità di foto personali per i social media” (2011, p. 6)
Come nei romanzi gialli se compare una pistola sappiamo che quella pistola prima o poi sparerà, così nella fotografia, se un telefono permette di scattarsi agilmente foto di sé prima o poi qualcuno (tutto) lo useranno per farsi dei selfie.
Susan Bright si chiede però se queste foto siano da considerarsi dei veri autoritratti o piuttosto delle immagini che le persone realizzano di se stesse. Gli autoritratti di un tempo si facevano davanti allo specchio. Quella che si catturava era l'immagine di noi specchiati. Oggi lo specchio è lo schermo del telefono e l'immagine che si cattura è più diretta e immediata (meno mediata, più sporca). L'occhio della macchina fotografica catturava la nostra immagine riflessa, mentre oggi cattura direttamente la nostra faccia. Gli “autoritratti” presenti su questi siti adottano un nuovo linguaggio stilistico di bassa qualità. Il fotografo, con il braccio teso, impugna una piccola fotocamera digitale o il suo telefono rivolgendola verso se stesso.
L'estetica di questi scatti è spesso caratterizzata da pochi stili ricorrenti: donna-coi-tacchi-in-ascensore; gambe-di-donna-al-mare; primo-piano-con-labbra-in-mostra; piano-americano-di-donna-in-posa-sessualmente-attraente ecc...

L'Edited Self – Il Sé editato

Credo che il fenomeno del Selfie sia da ricondurre non tanto ad un aumento di narcisismo dovuto alla diffusione di nuove tecnologie del sé quanto ad un aumento generalizzato di consapevolezza della propria immagine negli ecosistemi digitali, dovuta alla democratizzazione degli strumenti di social networking.
Il Selfie è connesso alle pratiche di presentazione del sé oggi sempre più raffinate.

 

Se l'autoritratto classico era narcisista (ammirazione di sé) il selfie è al contrario una pratica molto più sociale, non rivolta verso se stessi, ma verso gli altri. Il vero obiettivo di un auto scatto con lo smartphone è quello di condividerlo con gli altri. Il selfie si distingue dall'autoritratto classico perché è fatto espressamente per essere condiviso. E la ragione per cui lo condividiamo è perché vorremmo influenzare il modo in cui gli altri ci vedono. I Selfie sono fatti per essere trasmessi a pubblici ampi, non per un consumo privato.

 

Qualche critico, come il sociologo texano Ben Agger, chiama oversharing l'eccesso di contenuti personali condivisi con gli altri sui nostri profili social (Oversharing: Presentations of Self in the Internet Age, New York: Routledge, 2012), dandone una lettura fortemente negativa.

 

In realtà, anche se spesso siamo testimoni di eccessi nell'uso di questi strumenti per la condivisione di immagini e dati personali, io non ci vedo una lettura soltanto negativa.
Semplicemente, i tempi richiedono un'alfabetizzazione alla cultura digitale, che prevede anche lo sviluppo di nuove competenze nella presentazione di sé online.

 

Cosa mostrare di sé e perché? Tutti noi siamo colpiti negativamente quando qualcuno dei nostri amici, su Facebook, esterna troppo intimamente i propri pensieri o condivide immagini di sé troppo intime. C'è una soglia molto soggettiva, che ognuno di noi è culturalmente disposto a sopportare o meno. L'uso dei social media è, come l'utilizzo di una lingua, un atto performativo che può produrre risultati altissimi o terribili, a seconda della nostra conoscenza della grammatica in gioco.

 

I social media rappresentano oggi uno degli strumenti più potenti a disposizione del singolo per la messa in scena di se stesso, la narrazione, manutenzione e propaganda di sé. E' quello che Zizi Papacharissi chiama il “networked self” [Zizi Papacharissi (a cura di) A Networked self: identity, community, and culture on social network sites, Londra, Routledge, 2010], un Sé connesso costantemente con una rete di contatti sociali, che rappresentano non soltanto un pubblico di fronte al quale mostrarsi ma anche un vero e proprio capitale sociale sul quale far leva. Sempre secondo Papacharissi i social media sono strumenti performativi, che permettono uno “storytelling” della propria identità [Zizi Papacharissi, Without You, I’m Nothing: Performances of the Self on Twitter, International Journal of Communication, 6, 2012, pp. 1989–2006]. Facebook permette di controllare la scena (editando il mio profilo posso definire al millimetro i confini della ribalta, ovvero scegliere chi ammettere o meno alla mia personale rappresentazione) molto meglio che nella vita reale. Su Facebook è più facile dare coerenza all'immagine di sé, perché siamo “padroni a casa nostra”, abbiamo il controllo totale del copione che mettiamo in scena.

 

Ci sono sì, molti lati oscuri in questa pubblicizzazione del proprio sé. Secondo la sociologa americana Alice Marwick i social media sono tecnologie della soggettività che abituano gli utenti alla ricerca della popolarità nella società di consumo postmoderna. Marwick afferma criticamente che i social media educano gli utenti alla pubblicizzazione del proprio sé, alla manutenzione della propria reputazione digitale attraverso tecniche di auto-promozione e micro-celebrità. Strategie che spingono gli utenti a pensare se stessi in termini di brand da promuovere e controllare, attraverso “la creazione sui social media di una versione elettronica del proprio sé strettamente editata e controllata” [Alice Marwick, Status Update. Celebrity, Publicity, and Branding in the Social Media Age, Yale, Yale University press, p. 13]. Marwick parla di “Edited Self” per descrivere il tipo di identità che si costruisce sui social media. Prendendo a prestito alcune categorie foucaultiane, Marwick sostiene che “i social media sono diventati degli strumenti attraverso i quali le persone si auto-governano”.

Il Selfie ha sicuramente un valore di auto governo della propria immagine. Ma non c'è solo questo. Può anche avere delle funzioni politiche. Per esempio, in Libano, a fine dicembre 2013, è esplosa online una protesta che ha preso la forma di selfie accompagnati da messaggi politici da parte di centinaia di giovani libanesi che manifestavano la loro stanchezza nei confronti di un paese costantemente in guerra. La protesta era nata dopo che un sedicenne libanese, Mohammed Shaar, che si era appena scattato un selfie insieme ai suoi amici appena finito il semestre scolastico, era rimasto vittima di una bomba esplosa in città. La morte del ragazzo ha dato il via alla protesta online, caratterizzata da centinaia di messaggi con l'hashtag #notamartyr di giovani libanesi riguardo a cosa volevano dal proprio paese. La protesta non ha chiaramente avuto alcun effetto, ma ha avuto un valore simbolico: molti giovani libanesi, stufi di vivere in un paese senza pace, hanno manifestato così la loro insofferenza e la loro rabbia.

Chiunque abbia un telefono dotato di fotocamera e un profilo social si è scattato, almeno una volta, un selfie. I Selfie, è vero, solleticano anche il nostro narcisismo (ci fanno sentire per un attimo tutti un po' Francis Bacon) ma sono soprattutto un atto estremamente sociale, e non solo “social”.

 

Da una parte c'è l'inestinguibile desiderio di sondare se stessi e a che punto siamo della vita, che fa parte della tradizione dell'autoritratto, dall'altra c'è la nuova consapevolezza della propria immagine digitale, che è un fenomeno nuovo e che a volte, sfugge di mano. Visto però che una fotocamera in mano ormai ce l'abbiamo tutti, invece di liquidare superficialmente il selfie come un atto narcisista, denigrarlo senza comprenderlo, lavoriamo su noi stessi per imparare a non eccedere, a fornire un'immagine il più sincera possibile di noi stessi. C'è una grammatica del sé da approfondire e da raffinare. Un sé senza maschere e pieno di rughe, se necessario.

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