David Fincher. Millennium - Uomini che odiano le donne

15 Febbraio 2012

La logica del remake della quale i produttori hollywoodiani di oggi, molto più che in passato, non sembrano essere in grado di fare a meno, è senza dubbio la più facile delle risposte, ancorché decisamente reazionaria, alla scarsità di idee che pervade il cinema contemporaneo. Ma è anche, a ben vedere, una sorta di reazione a basso costo al mercato del 3D e delle attrazioni digitali cui la settima arte, filone mainstream, punta sempre più di frequente. Millennium (remake dell’omonimo film di Niels Arden Oplev del 2009) in tal senso rappresenta l’archetipo di un certo atteggiamento del cinema d’oltreoceano, venutosi a creare negli ultimi tempi, in funzione del quale la selezione dei film di cui fornire la reinterpretazione viene a cadere, nella quasi totalità dei casi, su pellicole contemporanee e di importazione. Ma se quella svedese si è dimostrata per gli americani una cinematografia piuttosto ostile con la quale confrontarsi – il recente flop del remake di Lasciami entrare, film dalle potenzialità enormi, lascia sbalorditi –, la scelta illuminata, da parte della MGM di affidare il lavoro di Uomini che odiano le donne a David Fincher cambia, almeno in parte, le regole del gioco.

 

 

Il regista di Denver, del resto, conosce molto bene l’ambiente nel quale il romanzo di Larsson si dipana e sa gestire tanto il complesso ritmo scandito dall’intreccio, quanto la trama noir che viene a galla poco per volta. L’adesione totale alle regole di un genere come il thriller – del quale Fincher è senza dubbio uno dei massimi interpreti in chiave contemporanea –, che a prima vista potrebbe apparire il riflesso di un modo di affrontare l’opera sbilanciato verso la cura della confezione o, tutt’al più, la fedeltà al romanzo di riferimento diviene, al contrario, il veicolo attraverso cui lo stile del regista, anche in virtù di codici filmici assolutamente familiari, esce allo scoperto. La classicità della storia, in tal senso, non fa che venire in aiuto alla messinscena. E quella del giornalista Mikael Blomkvist, reporter indipendente e scomodo che con l’aiuto dell’hacker Lisbeth Salander, riesce ad avere ragione, non senza rischi, di un perfido serial killer “figlio d’arte”, è una vicenda che ricorda molto da vicino le atmosfere più tipiche non solo dei gialli letterari di Dürrenmatt, ma anche di quelli cinematografici di Hitchcock. E che il maestro inglese sia un costante punto di riferimento per Fincher è ben visibile in numerosi aspetti dell’opera – dall’uso misurato della suspense alla modulazione attenta del montaggio – ma soprattutto nella definizione impeccabile dei personaggi. Specialmente i due protagonisti – che proprio come nei film di Hitchcock si trovano al centro di intrighi più grandi di loro, sono accusati ingiustamente e costretti a tirarsi fuori dai guai solo con le proprie forze – svestono, nel tessuto filmico entro il quale il regista li immerge e li tratteggia, caratterizzazioni più tipicamente letterarie per assumere contorni più decisamente cinematografici.

 

 

Ma se è vero che il diavolo sta nei dettagli, è certo che sono proprio i particolari, anche quelli meno evidenti o più insignificanti – volendo assecondare solo per un attimo il futile giochino del trovare le differenze tra remake e originale – che rendono il film di Fincher una prova di gran lunga più convincente di quella offerta solo pochi anni fa da Oplev. Perché è proprio nei dettagli che il regista statunitense trova il modo di suggerire, pur nelle pastoie di una sceneggiatura di ferro e di un lavoro su commissione, il proprio modo di raccontare, di mettere in scena e di dar vita in modo evidente allo scarto, necessario, che sussiste fra trasposizione e interpretazione. Si pensi a tal proposito al modo nel quale Fincher, diversamente da Oplev, riesca ad assegnare alle immagini il ruolo cardine per la soluzione del caso. Lo spettatore, tanto quanto i protagonisti, è invitato a osservare, sovrapporre e (ri)costruire una realtà del tutto ipotetica tramite le innumerevoli fotografie che per tutta la durata del film affollano scrivanie, uffici e computer portatili. Per l’autore si tratta dell’intenzione non soltanto di offrire punti di vista differenti e angolazioni discordanti e mutevoli sempre dello stesso luogo (la strada e il marciapiede ove Harriet scompare all’improvviso), ma soprattutto di consentire all’elemento cinema – percepito come insieme di immagini in movimento – di assumere e appropriarsi in maniera totale della narrazione. E non è un caso, del resto, che proprio le immagini (i filmati, le fotografie, i files multimediali) intese come prolungamenti del mondo mediatico e informatizzato del quale il film si pone come archetipo, rappresentino da un lato il tema a cui tutta la pellicola gira intorno e dall’altro la possibilità per Fincher di proseguire il proprio ideale discorso sulle nuove tecnologie iniziato con The Social Network (2010).

 

 

Le atmosfere ambigue e spigolose che il regista dipinge, infatti, prendono vita non solo grazie al livido e diafano paesaggio svedese, ma anche per via di un clima soffocante di sospetto e insicurezza che deriva proprio dal carattere poco trasparente che nella vicenda assumono i mezzi di comunicazione. Un’ambiguità sintetizzata molto bene, peraltro, dall’essenza stessa dei personaggi principali: il giornalista e l’hacker. Due ruoli, cioè, che come il film e prima ancora il romanzo mettono in evidenza, non sono che due facce di una stessa medaglia. Metafore di un mondo globalizzato entro cui si è smarrito il labile confine tra pubblico e privato, certo, ma soprattutto perfetti ritratti in chiave thriller del discrimine e della difformità di senso che sussiste tra il precedente film di Fincher e quest’ultimo. O, se si preferisce restare su figure della nostra contemporaneità, fra Mark Zuckerberg e Julian Assange.

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