Debussy a casa di Palladio

4 Novembre 2023

Aveva qualche ragione il musicologo francese René Leibowitz, quando osservava che ad ogni ascolto di Pelléas et Mélisande si sente mancare qualcosa. Anche se subito si affrettava a correggere il tiro, affermando che tuttavia proprio da queste mancanze nasce l’impressione della profonda originalità del lavoro di Claude Debussy. L’originalità non è revocabile in dubbio: si tratta di un’opera effettivamente senza precedenti, quanto meno per il rigore con cui l’autore francese – in una gestazione decennale – cercò di prendere le distanze dalle vischiose sirene wagneriane e dai cascami dell’opera romantica francese, puntando a creare una sorta di “amplificazione” della poetica simbolista affermata nell’omonimo dramma di Maurice Maeterlinck, grazie a un linguaggio musicale e vocale decisamente innovativo. E tuttavia il destino del Pelléas (Parigi, Opéra-Comique, 30 aprile 1902) era anche quello di rimanere lettera morta nelle vicende del teatro musicale del XX secolo almeno fino al momento in cui l’avanguardia avrebbe fatto di Debussy il proprio nume tutelare, cioè dopo la seconda guerra mondiale: non solo un caso unico e isolato (con tutto il fascino che ciò comporta), ma anche per certi aspetti un esempio accuratamente a lungo evitato, se si considerano gli sviluppi del genere nella prima metà del Novecento, fra espressionismo e neoclassicismo.  

Tornando allo spunto di Leibowitz, nell’unica opera del compositore francese più che le mancanze, appaiono semmai evidenti alcune diseguaglianze stilistiche e drammatiche, considerando le diversità di registro che attraversano questa composizione, forse un po’ apoditticamente considerata una delle pietre miliari della modernità nella musica. 

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Bernard Richter (Pelléas), Patricia Petibon (Mélisande) e Yvonne Naef (Geneviève), Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

Il culmine della partitura è raggiunto subito, ad apertura di sipario e si può immaginare lo sconcerto del pubblico della prima assoluta (che infatti si divise con plateali contrasti fra conservatori e modernisti): il “clima” in cui l’opera si apre è difficilmente descrivibile, per la portata allusiva e indecifrabile dell’incontro in una foresta fra la misteriosa fanciulla Mélisande e quello che diventerà il suo sposo, Golaud. Oltre la formidabile coesione espressiva fra la parola evocativa e distante di Maeterlinck e la maniera in cui Debussy rimodella il canto, portandolo a una forza introspettiva quasi senza precedenti, affascina la scrittura strumentale con cui la parola viene sostenuta e semanticamente amplificata. All’interno della pur vasta compagine strumentale di cui si serve, il compositore suddivide le parti con un effetto drammaturgico immediato, trova nuclei cameristici insospettati, dipinge trasparenze diafane e oscurità insondabili, alle quali la sostanziale libertà da ogni schema armonico di scuola attribuisce risonanze ancora più accattivanti. Questi misuratissimi “gesti” timbrici, queste pennellate armoniche implicitamente significanti aderiscono e sostengono un declamato che fa piazza pulita di ogni seduzione vocalistica esteriore, lasciando della melodia comunemente intesa solo una sensazione quasi evanescente.

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Richter, Naef e Franz Josef Selig nella parte del re Arkel, Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

Nei primi due atti, ciò che accade pertiene quasi esclusivamente alla psicologia e alla sua rappresentazione simbolica. E se avviene qualcosa di concreto, è sempre altrove e si viene a sapere perché è raccontato da qualche personaggio. L’atmosfera è misteriosa, trasognata, allusiva. Si assiste alla nascita del fatale legame fra Mélisande e il fratellastro del suo sposo, Pelléas, ma non si riesce a inquadrare tale legame a causa di un linguaggio volutamente “lontano”, di una musica a sua volta radicalmente aliena da tutto ciò che si può immaginare di melodrammatico. E tuttavia, qualcosa a un certo momento nell’opera avviene, ed è qualcosa che inevitabilmente riporta quest’opera “a terra”. Anche qui, come in mille altri drammi musicali, l’amore si manifesta nella sua dimensione concreta e porta la morte: nel terzo e nel quarto atto, l’atmosfera resta uguale solo come cornice generale, ma cambiano le situazioni ed emergono aspetti molto più riconoscibili dagli appassionati del teatro musicale: da un lato la passione erotica di Pelléas – sia pure apparentemente purificata nel trasporto per i lunghi capelli di Mélisande – dall’altro il crescere tumultuoso in Golaud del sospetto, della gelosia, della violenza. La musica corrisponde. Si ascoltano dialoghi che assomigliano molto a duetti, anche se non lo sono in tutto e per tutto; la vocalità concede qualcosa, a tratti molto alle esigenze espressive di tradizione: intervalli più ampi, ampliamento della tessitura verso l’acuto; le dinamiche sono più accentuate, fino a grandi esplosioni strumentali (e vocali). Alla fine del quarto atto, Pelléas muore passato a fil di spada dal fratello. Un esito non diverso da quello di tante opere romantiche e veriste.

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Il direttore Iván Fischer e la Budapest Festival Orchestra nella foresta al teatro Olimpico, Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

Ma ciò che nella tradizione melodrammatica era per convenzione conclusivo, qui lascia il posto – altro formidabile colpo di genio debussiano – a un inatteso e ancora oggi per molti aspetti sconcertante ritorno al clima poetico-musicale e alla indeterminatezza drammatica della prima parte. Il quinto atto è una grande scena di morte a due, se così si può dire. Da un lato c’è la psiche devastata di Golaud, assassino di Pelléas sconvolto dall’impossibilità di sapere quale sia la verità; dall’altro le visioni e una sorta di esoterica consapevolezza del mondo “oltre” da parte di Mélisande. Della cui causa di morte, peraltro, nulla è dato sapere. Così come una sorpresa che causa nello spettatore mille domande senza risposta è la scoperta che la protagonista ha da poco dato alla luce una figlioletta. Lontano dal realismo sfiorato nei due atti precedenti, quest’opera nata negli stessi anni in cui nasceva la psicanalisi si conclude anche musicalmente nella stessa simbolistica aura poetica con cui si era aperta.

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Bernard Richter e Patrica Petibon, Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

Titolo tutt’altro che frequente sui palcoscenici italiani, Pelléas et Mélisande è approdato alla fine di ottobre al Teatro Olimpico di Vicenza nell’ambito del breve festival operistico che vi si tiene dal 2018 a cura di Iván Fischer, protagonista la Budapest Festival Orchestra da lui fondata quarant’anni fa. Al cospetto della scena di Palladio e Scamozzi, l’interpretazione del direttore magiaro è parsa esemplare quando la sua lettura ha scandagliato, in maniera che non si può definire altrimenti che virtuosistica, l’inesauribile gamma di sfumature che rendono i primi due atti il capolavoro assoluto del simbolismo musicale. Con l’apporto determinante della sua rifinitissima compagine orchestrale, Fischer ha proposto un’esecuzione nella quale i colori e le dinamiche, i tempi e il fraseggio avevano in pieno l’indeterminatezza poetica inseguita da Debussy nella sua intenzione di portare il simbolismo letterario al compimento dentro la musica. Nel seguito, con l’ovvia eccezione del quinto atto, si potrebbe dire che Fischer non ha fatto sconti al musicista francese, mettendo in luce senza remore le sue “concessioni” a una drammaturgia musicale più tradizionale, fatta anche di grandi perorazioni strumentali, di un’espressività più estroversa o comunque “teatrale”, del resto nobilitata da una brillantezza molto francese, che serpeggia comunque lungo la partitura (e che traspare nelle numerose per quanto brevi pagine solo strumentali che la trapuntano).

Abbastanza sorprendentemente (anche considerando i precedenti nell’ambito di questo festival), la compagnia di canto si è dimostrata solo in parte all’altezza della sofisticata impronta musicale data all’esecuzione da Iván Fischer. Il risultato migliore si è avuto dalle voci gravi maschili: sugli scudi il baritono Tassis Christoyannis, un Golaud sofferto, divorato dai propri fantasmi psichici, capace di una linea di canto tutta dentro alle parole di Maeterlinck e alla linea vocale essenziale disegnata per il personaggio da Debussy. Assai bene anche il basso Franz-Josef Selig, che nei panni del vecchio re Arkel si è proposto con attonita e arcana profondità di accenti. Discorso diverso per i due protagonisti nei ruoli del titolo. Bernard Richter è stato un Pelléas dal controllo intermittente e dalla scelta stilistica non del tutto a fuoco, vocalmente con qualche tensione nella zona alta della tessitura, quando la parte sale nel terzo e nel quarto atto; Patricia Petibon ha dato vita a una Mélisande di pittorica presenza scenica ma di vocalità raramente suggestiva e introspettiva come vorrebbe una parte nella quale la poetica simbolista di Debussy incrocia il gusto coloristico impressionista, e si è rifugiata spesso in una maniera piuttosto lontana dal mistero che è l’essenza del personaggio. Nei ruoli secondari, misurata e positiva Yvonne Naef come Geneviève, preciso Peter Harvey nei panni prima di un pastore e nel finale del dottore. Il piccolo Yniold, figlio di primo letto di Golaud, aveva la voce un po’ esile del ragazzino Oliver Michael.

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Tassis Christoyannis (Golaud) e Patricia Petibon, Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

L’allestimento portato all’Olimpico – co-firmato per la regia dallo stesso Fischer e da Marco Gandini, come d’abitudine da qualche anno – era quello con cui questa produzione è stata proposta inizialmente a Budapest, poi anche ad Amburgo e all’inizio dell’estate al festival di Spoleto. È ovvio che al momento dell’impostazione dello spettacolo (le scene erano di Andrea Tocchio, le luci di Tamás Bányal, i costumi, splendidi nelle loro allusioni preraffaellite, di Anna Biagiotti) era presente anche la destinazione palladiana, ma forse mai uno spettacolo all’Olimpico è stato basato su una scenografia così d’impatto e così “naturalistica” – in evidente e non risolto contrasto con il manierismo classicista di Palladio e di Scamozzi (autore della scenografia prospettica con le celebri “Vie di Tebe”), inevitabilmente lasciato a fare da sfondo inerte, il più possibile oscurato.

Il punto centrale dell’immaginario voluto da Fischer (e lungamente argomentato in un’intervista non del tutto condivisibile pubblicata nel programma di sala) è la foresta come archètipo psicanalitico principe di tutta l’opera. Visione almeno parziale, visto che ci sono anche altri elementi intorno ai quali la psicologia di questo lavoro si sviluppa. Su tutti l’acqua – quasi onnipresente – e la profondità oscura e inesplorata di luoghi temibili come pozzi, fontane senza fondo, caverne. 

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Il teatro Olimpico e la foresta per "Pelléas et Melisande", Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

Di fatto, la foresta vista all’Olimpico (un imponente viluppo tronchi contorti e striscianti e di fogliame rigorosamente di plastica) era funzionale a una sorta di esecuzione immersiva, visto che al suo interno era sistemata tutta l’orchestra, abbigliata – come lo stesso direttore – in maniera mimetica, con palandrane di color verde. Effetto in larga parte raggiunto, a prezzo però di una sorta di “congestione” rappresentativa che ha trovato sollievo solo nelle scene realizzate su alcune piattaforme che si alzavano e abbassavano. Soluzione interessante, quest’ultima, per delineare gli spazi non esterni dell’opera. E necessaria, perché un luogo cruciale è il castello dove tutti vivono, con le sue torri e le sue sale. Totalmente assente invece il mare che dal castello si vede, per quanto meravigliosamente presente nella partitura e da tutti i personaggi citato, contemplato, vagheggiato. Eppure, le videoproiezioni, oggi, fanno miracoli. 

Resta il fatto che, al di là della sua problematica collocazione in un teatro rinascimentale, il descrittivismo naturalistico a senso unico dello spettacolo ha finito per offrire del mondo largamente onirico e indeterminato di Debussy un’immagine da “graphic novel” senza troppa inventiva e soprattutto lontana dall’indispensabile allusività, dal costante riferimento “altro” delineato da parole e musica.

Rappresentata a Vicenza per tre sere con il tutto esaurito, Pelléas et Melisande è stata accolta dopo la prima da applausi cortesi anche se un po’ circospetti.

In copertina, La scena della torre nell'opera di Debussy, Francesco Dalla Pozza - Colorfoto.

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