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Diario russo 16. Potere e giornalismo
Il problema del potere come esercizio e determinazione dei nostri spazi, di quel che (appunto) possiamo e non possiamo, già nella vita quotidiana è presente più di quel che pensiamo, dal pagamento del parcheggio alla nostra giornata lavorativa. Nella Russia della guerra chiamata operazione speciale la riflessione sui meccanismi insiti del potere, in un contesto dove solo poco più di una settimana fa Putin ha firmato circa un centinaio di nuove leggi, alcune delle quali particolarmente pericolose, diventa attuale e non può che far riferimento all’esperienza storica del paese.
Al 5 maggio 2022, quindi due mesi e mezzo dopo l’inizio della guerra, son stati bloccati 3000 siti, mentre vi sono stati circa 120.000 pagine censurate, secondo i dati dell’Authority russa sulle comunicazioni, Roskomnadzor: forse mai vi è stata una tagliola così rapida e in grado di colpire così tanti media in poco tempo. Misure che hanno colpito anche quelle figure e quegli spazi ritenuti “protetti” da sincere amicizie e da un certo atteggiamento paternalista, come Aleksej Venediktov e la sua radio Echo Moskvy, simbolo di un certo modo di intendere le idee liberali e l’informazione nella Russia post-sovietica, messi a tacere nelle prime settimane di guerra. Una svolta, se si vuole, perché le relazioni personali e i legami informali han spesso permesso di poter mantenere delle voci non allineate, ma proprio la natura mai ufficiale e regolamentata di questi rapporti ne ha consentito l’interruzione repentina.
Nulla di nuovo, nel complesso rapporto tra potere e giornalismo, se si legge la monografia di Svetlana Vološina, specialista di storia della letteratura russa dell’Ottocento, intitolata Vlast’ i žurnalistika. Nikolaj I, Andrej Kraevskij i drugie (Il potere e il giornalismo. Nicola I, Andrej Kraevskij e altri), che alla luce degli avvenimenti di oggi risulta di particolare interesse. L’autrice del poderoso volume (664 pagine) ripercorre la vita di Kraevskij, figura assai particolare di intellettuale ed editore del XIX secolo, per analizzare il ruolo sempre più fondamentale della stampa nell’opinione pubblica dell’epoca.
Scrive la Vološina nell’introduzione, mettendo in chiaro una delle tesi presentate nell’opera: “Senza la collaborazione stretta (spesso forzata, addirittura inevitabile) con il potere nessun periodico avrebbe potuto contare su un’esistenza più o meno lunga né su un’attività realmente significativa”. Una condizione che però non implicava l’assenza di contrasti e di posizioni diverse, spesso risolte anche in modo tragico, tra esili di lunga durata (si veda il caso di Aleksandr Herzen) e arresti e deportazioni, in un continuo conflitto per ridefinire i confini dell’assai limitata libertà d’espressione dell’epoca.
In questo quadro la forte personalità di Kraevskij, che da giovane senz’arte né parte diventa a ventinove anni direttore e editore di Otečestvennye zapiski, tra le prime riviste letterarie russe, riesce a manovrare in spazi assai angusti, incontrando e pubblicando i testi del meglio della letteratura russa, come il già menzionato Herzen, Gogol’, Lermontov, Belinskij e un giovane Dostoevskij, con cui i rapporti non furono mai facili. Un’epoca, quella del regno di Nicola I, segnata dall’affermarsi di una lettura militarista e univoca dell’autocrazia, e in cui son due paure a caratterizzarne scelte e posizioni: il tentativo decabrista del dicembre 1825 e la primavera dei popoli del 1848 che attraversa l’Europa.
“La misura più importante adottata dallo zar” – scrive l’autrice a proposito delle prime reazioni alle notizie delle barricate a Parigi e in Italia – “fu la formazione di un’unica opinione pubblica, unita e “corretta”: in particolare a tal fine venne redatto e ampiamente diffuso tra il pubblico un altro Manifesto, venne rafforzata la sorveglianza sulla “opinione generale e sullo spirito popolare” e vennero adottate misure severe per il controllo della stampa, in primo luogo quella periodica.”
Sarebbe facile prodursi in tentativi d’analogia storica tra Nicola I e Putin, senza tener conto delle ovvie differenze, e probabilmente tali prove di confronto potrebbero produrre risultati positivi assai insperati per lo zar, ma alcune linee di fondo permangono, nella ricostruzione post-moderna della storia russa promossa oggi dal Cremlino, dove a prevalere sono gli aspetti autoritari e gendarmeschi; in più Nicola I si proponeva come garante della stabilità europea scaturita dal Congresso di Vienna, e anche in suo nome interviene in Ungheria in aiuto di Vienna in difficoltà di fronte alla rivoluzione, mentre Putin oggi ha messo la parola fine ai fragili equilibri del post-1991.
Resta il fatto che per il giornalismo russo non è mai semplice riuscire a viver tempi tranquilli, forse un po’ noiosi ma dove la libertà d’espressione possa essere qualcosa di così banale da non dover essere minacciata, e dove un articolo non debba esser alla base di un atto d’accusa. Semplicemente la possibilità di poter riportare una notizia, realizzare un reportage, raccogliere informazioni, senza dover sentirsi perseguitati dagli occhiuti ochraniteli (si può tradurre come “conservatori”, “custodi”), come oggi si definiscono gli agenti delle forze di sicurezza, che si ritengono discendenti di quella Terza Sezione d’età zarista e al tempo stesso della Čeka e del Kgb, senza alcuna sofferenza per l’evidente contraddizione, appare un lusso per tanti corrispondenti e giornalisti, autori di tanti testi e articoli preziosissimi in queste settimane di guerra e terrore. Un giornalismo che non si confonde più nella letteratura, ma non privo di una intrinseca poesia nella descrizione dei fatti e delle persone, e della tensione ideale di alcuni grandi autori dell’Ottocento.
Speriamo in un’epoca finalmente più noiosa.
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