Dizionario Fenoglio. Editoria
«Caro Fenoglio, lei è l’autore più silenzioso e più discreto ch’io conosca. Forse un po’ troppo»: era il 25 maggio 1959, e Livio Garzanti commentava così – comprensibilmente un po’ piccato – l’assoluto silenzio di Fenoglio dopo l’uscita di Primavera di bellezza.
Sono parole diventate famose, perché sembrano una sintesi perfetta del carattere di Beppe Fenoglio e del suo rapporto con l’editoria: schivo, silenzioso, appartato rispetto al mondo della stampa, con poche opere pubblicate prima della morte (e non quelli che sono comunemente indicati come i suoi capolavori, Una questione privata e Il partigiano Johnny), Fenoglio potrebbe facilmente far pensare a un caso di sfortuna editoriale dello scrittore in vita e di riconoscimento postumo. Anche le parole di Italo Calvino – che non si possono mai leggere senza emozione – su Una questione privata come il libro che tutti gli scrittori della generazione della lotta partigiana avevano sognato, e che poi aveva scritto «il più solitario di tutti […], e arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo […], e morì prima di vederlo pubblicato» contribuiscono a far pensare a una sorte di questo tipo. Sorte non infrequente, del resto, tra i grandi autori della nostra e di altre letterature. Nel caso di Fenoglio, però, si penserebbe male.
Da quello che si può capire – perché la maggior parte delle sue lettere è andata perduta (le sopravvissute sono raccolte in Lettere, a cura di Luca Bufano, Einaudi 2022) – i primi contatti di Fenoglio con il mondo editoriale sono simili a quelli di molti altri giovani scrittori: qualche rifiuto (Mondadori), qualche silenzio-dissenso (De Silva) e qualche porta che si apre più o meno timidamente (Bompiani, nella cui rivista «Pesci rossi» viene stampato Il trucco, il primo testo pubblicato da Fenoglio). Fenoglio parla dell’accordo con Bompiani – che in origine sembrava interessato a pubblicare su rivista un numero molto più consistente di racconti – con un’euforia che non tornerà più in nessun riferimento alla sua attività di scrittore:
Permetti alla mia vanagloria di spiegarti, se anche non occorre, che Valentino Bompiani è con Mondadori il numero uno dell’editoria italiana. […] trattandosi di «cose magistralmente sentite e dette» (testuali parole di Bompiani. Però, eh?), egli le ospiterà […] nella sua celebre e classica rivista mensile letteraria «Pesci rossi» (Pesci rossi vuol dire Rarità. Lo sarei una Rarità, a dire il vero, l’ho sempre creduto e sempre me lo sono aspettato.) […] che ne pensi? Bè, penso io per te e per te dico: mica male diventare al primo colpo un puledro della scuderia Bompiani.
Meno di un anno più tardi, alla fine dell’estate del 1950 (l’estate del suicidio di Pavese), Fenoglio prende contatto – forse per la prima volta, forse no – con il vivacissimo mondo culturale di Casa Einaudi, inviando loro in lettura La paga del sabato. Gli risponde Calvino, dandogli subito del tu, mentre Fenoglio per vari mesi continua con un rispettoso Caro Signor Calvino. È l’inizio di un’amicizia che resisterà a tutte le difficoltà lavorative, e che ha le sue fondamenta nel profondo riconoscimento di Calvino per la rara qualità di scrittore del suo interlocutore: in primo luogo la capacità di avere «idee fin troppo chiare» e saper con esse toccare il segno:
Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette […]. Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che davvero mi sembra rara.
Questa capacità riguarda anche – anzi, innanzitutto – il sempre più difficile nodo di descrivere i partigiani senza cadere nell’oleografia:
Non ultimo merito è quello di documento della storia di una generazione; l’aver parlato per la prima volta con rigorosa chiarezza del problema morale di tanti giovani ex-partigiani. Tu non dai giudizi espliciti, ma, come dev’essere, la morale è tutta implicita nel racconto, ed è quanto io credo debba fare lo scrittore.
All’Einaudi, Fenoglio trova lettori di eccezione: Calvino, Natalia Ginzburg, Elio Vittorini. Sono anche lettori eccezionalmente critici: pronti non solo a sottolineare i difetti ma a chiedere modifiche e riscritture anche sostanziali, a non pubblicare un’opera se non risponde pienamente a determinate esigenze. Ecco quindi che dopo essere stata «riveduta e corretta» in base alle indicazioni degli editori, su decisione di Vittorini La paga del sabato viene abbandonata in favore di una selezione dei racconti. L’intero percorso editoriale di Fenoglio in vita (dal libro d’esordio a Primavera di bellezza) mostra un mondo in cui l’editoria partecipava attivamente al farsi di un’opera – in particolare a Casa Einaudi, in cui le decisioni riguardo alla scelta e alla forma dei libri da pubblicare venivano prese a livello collegiale, attraverso lunghi scambi scritti e orali, e non di rado con accese discussioni. È proprio questa politica ad aver permesso alla casa editrice di svolgere il ruolo di punto di riferimento e anche di guida letteraria, intellettuale e morale che ha sostenuto per un trentennio.
Fenoglio accetta sempre di buon grado i suggerimenti e le decisioni dei suoi editori, perfino quando comportano l’aborto di una pubblicazione. Sulle sorti de La paga del sabato scrive a Calvino: «Non vorrei far torto a te ed anche alla Sig.ra Ginzburg che avete sempre difeso il mio romanzo, ma non ha forse ragione, in fondo, il Sig. Vittorini?». È in effetti uno scrittore singolarmente pronto ad abbandonare un’opera che non lo soddisfa del tutto – anche dopo vari interventi e riscritture – e a passare oltre, a qualcosa di nuovo: atteggiamento raro se si pensa alla possessività che, quasi inevitabilmente, ogni autore prova nei confronti delle proprie creature.
Altrettanto singolare è il modo con cui Fenoglio segue l’accoglienza riservata alle sue opere una volta pubblicate. Fin dalla primissima. I ventitré giorni della città di Alba escono nei «Gettoni» di Einaudi (la collana di Vittorini) nel giugno 1952 e vengono accolti da una folta schiera di recensioni su quotidiani e riviste, su cui scrivevano grandi nomi della critica e della cultura (Carlo Bo, Pietro Citati, Giuseppe De Robertis, Geno Pampaloni, Carlo Salinari… Le recensioni degli scritti fenogliani sono ora raccolte ne «L’Illuminista», 40-42 [2015], n. speciale su Beppe Fenoglio, a cura di Gabriele Pedullà).
La maggior parte di questi interventi guarda ai racconti come alla «sorpresa grossa, la sorpresa per eccellenza» dei «Gettoni» (sono le parole di De Robertis); anche perché, tra quelli che ai primi anni Cinquanta erano ormai avvertiti come i ‘tanti’ e i ‘soliti’ racconti partigiani, Fenoglio si distingue per la sua «continua e sapiente osservazione ironica, che sa distanziare i fatti anche più appassionanti e polemici, non già al fine di negar loro verità, ma anzi moltiplicandogliela» (Leone Piccioni). Proprio questo modo non convenzionale di raccontare la lotta partigiana, però, fa anche sì che un compatto schieramento di voci del PCI gridi allo scandalo dalle varie edizioni de «l’Unità».
Il commento più famoso è quello di Carlo Salinari, secondo cui «Fenoglio non solo ha scritto un cattivo romanzo, ma ha anche compiuto una cattiva azione»; il più feroce è quello di Davide Lajolo, che definisce I ventitré giorni «racconti ignobili». Ed è degno di nota che anche Pietro Chiodi, professore di liceo di Fenoglio (per quanto più anziano soltanto di pochi anni) e suo amico fino alla morte, ammette che all’uscita del libro «non seppi capire. […] soprattutto mi impediva di capire il modo in cui Fenoglio aveva trattato la materia partigiana, l’assenza completa nei suoi personaggi proprio di quei “valori” che io sapevo così gelosamente custoditi nella rimmemorazione della sua attiva partecipazione e nel rimpianto per i suoi amici scomparsi».
Il libro insomma – come tutti i buoni libri – fa discutere. Ma di questa discussione Fenoglio rimane beatamente inconsapevole: ha sì letto alcune delle recensioni dei nomi più illustri, come Bo e De Robertis, ma quando Vittorini accenna agli attacchi su «l’Unità» – naturalmente aspettandosi che l’autore ne sia già a conoscenza – risponde:
Non so a quali attacchi Ella alluda: di che si tratta? Io ne sono perfettamente all’oscuro (certamente ho sbagliato a non abbonarmi all’Eco della Stampa).
È un atteggiamento confermato da Anna Banti, che aveva vigorosamente difeso I ventitré giorni contro Salinari, e che racconta di aver ricevuto una cartolina di Fenoglio «dove non era un cenno di ringraziamento ma solo la domanda: “Chi ha detto che I ventitré giorni sono una cattiva azione?” Naturalmente non risposi, ma mi divertì l’eccezionale ingenuità di un giovane a cui non era passato per la testa di tener dietro alle sorti del suo primo lavoro. Un caso piuttosto singolare, anche allora».
Nei dieci anni successivi – fino alla morte a soli quarantun anni, nel febbraio ’63 – Fenoglio mantiene sostanzialmente inalterato il suo atteggiamento nei confronti del mondo editoriale. Pietro Chiodi ricorda:
Fenoglio inorridiva quando qualcuno lo diceva epigono di Pavese, o lo considerava scrittore di ispirazione contadina o provinciale. Ma non se la prendeva, non polemizzava, perché quanto si diceva su di lui non lo interessava minimamente.
Fenoglio aveva bisogno di soldi, ma sceglie molto raramente di concorrere per i premi letterari. Aveva profondamente a cuore il suo lavoro di scrittore, ma mai e poi mai insegue editori e case editrici, lasciando senza risposta anche i corrispondenti più illustri per settimane e magari mesi, preso dalle esigenze della ditta vinicola presso cui è impiegato (e poi, sempre di più, dai problemi di salute). Sarebbe senz’altro riduttivo imputare un comportamento del genere semplicemente a timidezza o a riservatezza caratteriali. È invece un atteggiamento volontariamente distaccato – e lo dice Fenoglio stesso, definendosi anzi addirittura «un po’ snob»:
vivo volontariamente troppo ai bordi e tratto queste cose con esagerato distacco e nonchalance da dilettante un po’ snob.
Sono parole che lo scrittore rivolge a Garzanti nel novembre 1961, nel tentativo di appianare un serio incidente provocato da questa sua «nonchalance»: la contesa tra Garzanti ed Einaudi per i diritti editoriali su Fenoglio.
Molte cose sono successe tra l’uscita dei Ventitré giorni e questo momento. Nel ’54 Fenoglio ha pubblicato nei «Gettoni» il suo secondo libro, La malora, accompagnato da un risvolto di copertina di Vittorini che, alla lettura, appare quanto mai singolare – soprattutto al giorno d’oggi, in cui quasi non c’è fascetta di una nuova pubblicazione che non annunci il capolavoro:
ci conferma [La malora] in un timore che abbiamo sul conto proprio dei più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile. Il timore che appena non trattino più di cose sperimentate personalmente, essi corrano il rischio di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’ottocento, i provinciali del naturalismo…
I risvolti erano lo strumento di cui Vittorini si serviva per gestire la sua collana: non li usava solo per presentare un’opera, ma per mostrare i rapporti esistenti tra i testi, organizzarli in una scala gerarchica, difendere le proprie scelte, oppure all’opposto – caso in cui Fenoglio non è solo – prendere le distanze da un testo. Le parole che dedica a La malora ribadiscono le riserve cui Vittorini aveva già dato voce nella corrispondenza con i compagni dell’Einaudi e con lo stesso Fenoglio; ma, espresse pubblicamente sul risvolto di copertina del libro, acquistano un peso e un sapore diversi. In effetti, La malora è il solo vero momento per cui si possa parlare di ‘sfortuna’ editoriale di Fenoglio.
Sebbene non manchino recensioni estremamente positive (anche se sono di più quelle che riprendono le parole di Vittorini come un giudizio definitivo sul romanzo), l’amarezza per il risvolto sembra avere la meglio su qualsiasi altra considerazione: nel Diario, Fenoglio si definisce «uno scrittore di quart’ordine» e, preda di una «atroce crisi di rabbia» (non incomprensibile, anche se anni dopo la ridimensionerà in uno «stupido risentimento»), interrompe per quasi due anni i rapporti con l’Einaudi.
È Calvino a riprendere i rapporti, e Calvino a insistere perché Fenoglio torni a pubblicare con Einaudi: «Quando ci dai un nuovo libro? Vorrei che il tuo prossimo uscisse nei ‘Coralli’». Fenoglio dice di sì, pensando a un secondo libro di racconti; l’anno successivo dice ancora di sì, dicendo questa volta di avere in preparazione «un libro grosso (alludo allo spessore)»; ma nel ’58 iniziano i contatti con Garzanti, e sarà Garzanti a ricevere il dattiloscritto del nuovo libro.
E qui si guardi la serrata sequenza cronologica: l’8 settembre ’58 Fenoglio, che ha ricevuto una lettera in cui Garzanti dà voce alle sue perplessità sul romanzo, risponde suggerendo «che Ella mi dia mano libera per il collocamento altrove» dell’opera; il 9 settembre scrive a Calvino annunciandogli un’imminente visita; ma il 10 riceve un’altra lettera di Garzanti, molto più rassicurante, in cui l’editore gli conferma tutta «la simpatia che desta per me il Suo libro» e ribadisce la sua volontà di pubblicarlo; Fenoglio gli risponde il 12 («La ringrazio e La prego di scusarmi. Ha ragione Lei»), non va a trovare Calvino («Non ti sei fatto vedere. Sono impaziente di parlarti e di leggere il tuo romanzo») e prende tempo finché non saranno i fatti a informare Calvino che Primavera di bellezza uscirà per Garzanti. Distaccato finché si vuole, Fenoglio è insomma ben deciso a tenersi aperta una doppia strada per la pubblicazione; e sceglie di privilegiare Garzanti. Non interrompe comunque i rapporti con Einaudi, e anzi nel ’60, quando il raffreddamento provocato da La malora sembra superato, proclama la sua intenzione di tornare alla sua «casa editrice natale»:
Non ho mai dimenticato, scrive a Calvino, che essa è «la mia casa editrice natale» e per un dilettante come me il sentimento ha un valore assolutamente preponderante. Forse non ci crederai, ma il mio abbandono dell’Einaudi ha turbato me più d’ogni altro. […] Se lo ritieni opportuno, assicura formalmente il Dott. Einaudi che ho più voglia io di tornare che voi di riavermi. E quando tornerò mi leverò un peso dallo stomaco.
Fenoglio si definisce un dilettante; e dal punto di vista strettamente tecnico ha ragione: dilettante è “chi svolge un'attività non per professione, né per lucro, ma per piacere proprio”. Ma Fenoglio è anche arrivato là dove prometteva fin dai Ventitré giorni: a essere non solo uno scrittore notato e apprezzato dalla critica, ma uno scrittore di successo presso il pubblico. In meno di un mese, Primavera di bellezza vende 2500 copie, e a un anno circa dalla pubblicazione ha accumulato 160 recensioni (il conteggio è di Fenoglio, che a questo punto si è abbonato a l’Eco della Stampa).
È tutt’altro che sorprendente, quindi, che Einaudi e Garzanti continuino a contendersi lo scrittore per i due anni successivi: una contesa provocata dal fatto che Fenoglio, quanto mai incautamente, ha firmato un contratto esclusivo con Garzanti per poi consegnare un suo libro a Einaudi. Garzanti interviene facendo valere i suoi diritti, e la pubblicazione del libro – già in bozze – viene bloccata; dopo lunghe trattative tra Calvino (per Einaudi) e Citati (per Garzanti), scambi di lettere, un paio di accordi saltati, Einaudi rinuncia al libro – e contemporaneamente le condizioni di salute di Fenoglio precipitano. Gli scritti cui aveva lavorato nell’ultimo periodo della sua vita (gli ultimi racconti e soprattutto Una questione privata) vengono pubblicati da Garzanti; ma cinque anni dopo, scaduti i termini del contratto con Garzanti, sarà Einaudi a ritrovare tra le carte dell’autore il «libro grosso», che Lorenzo Mondo, suo scopritore, battezza Il partigiano Johnny.
E qui comincia un’altra fase, anzi un’altra storia della fortuna editoriale di Fenoglio: perché la morte accende sempre i riflettori, e Fenoglio era morto lasciandosi dietro un romanzo pressoché perfetto come Una questione privata, che si era attirato una pioggia di recensioni, tutte positive; figuriamoci cosa succede quando esce un libro di cinquecento pagine, scritto in un impasto italo-inglese che sembra fatto apposta (anche se non era certo l’intenzione di Fenoglio) per riscuotere l’approvazione dell’età delle avanguardie. E così la «sorpresa per eccellenza» tra i giovani scrittori dei primi anni Cinquanta diventa, quindici anni dopo, nel pieno del ’68, uno dei casi letterari del secolo; e lo scrittore «più solitario» della Resistenza ne diventa il simbolo.
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