Domenico Mangano. Lavorare è vivere
Werken is leven (“lavorare è vivere”) è il titolo dell’ultima mostra di Domenico Mangano curata da Lorenzo Benedetti al Magazzino di Roma. Due olandesi d’adozione, si può dire. Benedetti ha infatti curato il Padiglione olandese all’ultima Biennale di Venezia, mentre Mangano vive da qualche anno ad Amsterdam.
Posando il suo sguardo sulla realtà, dalla Sicilia alla Grecia all’Est Europa, l’artista siciliano racconta ogni luogo, ogni cultura, nei suoi aspetti universali, partendo dal dettaglio, privilegiando l’uso del video e dell’immagine fotografica. Al centro delle sue opere Mangano mette il riflesso di contrasti e contraddizioni delle specifiche identità. Storie private sintomo e rappresentazione di trasformazioni sociali e culturali esterne ad esse, raccontate “senza enfasi spettacolare”.
Così è stato dai suoi primi lavori legati alla Sicilia, La storia di Mimmo (1999-2000) e Encastrolo (2001), a quando ha raccolto le testimonianze degli artisti greci sulla situazione del loro paese (Empty Papers Athens, 2010), fino a immaginare un Gaetano Bresci in un bagno di piume dentro la Reggia di Monza (515, 2011). Nei suoi ultimi lavori Mangano vede ora l’Olanda, affondando le mani a ritroso nel tempo a cercare il nodo che giunge fino a oggi.
Werken is Leven non è tuttavia un lavoro su questa terra: è ancora una volta un lavoro sull’uomo, anche se i comportamenti evidenti del singolo e delle comunità lasciano il posto alle regole invisibili che li condizionano, o provano a farlo. Qui, in un sistema in cui il controllo del territorio e della popolazione da parte dello Stato è più evidente, una nuova percezione del tempo, della luce e dell’ambiente trova il suo spazio e suggerisce nuove prospettive d’indagine.
In occasione della mostra ho incontrato Domenico Mangano per farmi raccontare di Werken is Leven, della mostra e dei lavori esposti. Di come sono nati, dei cambiamenti che gli sono connessi e delle suggestioni di uno scenario così distante da quello mediterraneo con cui si era confrontato in passato.
Werken Is Leven, 2013, C-Print, 150 x 100 cm
DV: Sono ormai alcuni anni che ti sei trasferito in Olanda e per la tua mostra personale da Magazzino, con Werken is Leven (Lavorare è vivere), presenti un progetto interamente dedicato a questa terra d’adozione. Il primo tratto evidente, rispetto ai lavori precedenti, è la scomparsa della figura umana, prima centrale, a favore di un paesaggio, urbano o campestre, che appare privo di movimento.
DM: Ho sempre fondato le basi della mia ricerca meditando sulle piccole comunità come espressione di un’identità più ampia, partendo dall’ambiente in cui mi trovo per estrarne una visione estesa. La posta in gioco è perdersi metaforicamente nei particolari, per arrivare a presentare una relazione universale con uno scenario fatto di umanità, lingue e paesaggi. Partendo da queste personali ossessioni l’esperienza olandese mi ha messo di fronte ad una situazione sociale e culturale impostata sull’ordine e sul rispetto delle regole, in cui tutto è apparentemente nitido e privo di sfumature. La mancanza di contrasti in superficie se inizialmente poteva presentarsi come un limite per la mia ricerca, si è rivelata invece un campo inesplorato: stimolo per rintracciare le varie incoerenze del “regolare” Nord Europa.
DV: Come nasce quindi Werken is Leven?
DM: In Werken is Leven ho immaginato un personale viaggio a ritroso nei Paesi Bassi svelando alcuni aspetti originari che ne precedevano gli sviluppi economici e i progressi tecnici. Ripercorrendo le tappe di questa evoluzione ho fotografato le paludi di torba che caratterizzavano alcune zone del paesaggio olandese e costituivano una fonte primaria di energia. In principio pensavo di realizzare un lavoro sul tempo naturale e la sua dilatazione da parte dell’intervento umano, poi la scoperta, proprio all’interno di questi campi di combustibile naturale, del piccolo villaggio di Veenhuizen e delle sue case “parlanti” ha modellato tutto il resto del progetto, a iniziare dal dittico Peatland & Werken is Leven.
Veenhuizen, che tradotto significa “case sulla torba”, mi ha subito colpito per questa convergenza tra il paesaggio naturale originario e l’ossessione culturale per il controllo, la rieducazione e l’integrazione, e mi è sembrato una metafora ideale del sistema olandese.
Il villaggio era in origine una colonia di rieducazione per i senza tetto, costruita nel XIX secolo e poi trasformata in colonia penale. Qui, ieri come oggi le sue case sussurrano decine di austere sentenze morali, che fissano con una limpidezza metafisica diciture come: “Lavorare è vivere”, “Ordine e disciplina”, “Sapere è potere”, “Lavoro e preghiera”, “Devozione”, “Amore per la fedeltà” ecc… Oggi Veenhuizen è diventato un parco naturale con tanto di nomination per entrare a far parte dell’UNESCO. Un villaggio sospeso nel tempo che sino a trenta anni fa era inaccessibile alle persone comuni.
Celkap, 2013, olio su carta, ognuno 27,9 x 35,6 cm
DV: Oltre al dittico che dà il titolo alla mostra, legati allo stesso villaggio hai realizzato un video (Orderliness), alcune piccole pitture (Celkap) e una seconda serie di fotografie (Veenhuizen). Iniziamo a parlare del video?
DM: Orderliness è una registrazione in presa diretta e frontale delle abitazioni con le relative scritte in evidenza, una dopo l’altra. È un lavoro molto asciutto, realizzato di giorno a camera fissa e che ho intenzionalmente privato dell’audio. Così ho voluto amplificare la possibilità di chi guarda di concentrarsi e “ascoltare” cosa hanno da dire le facce di queste case: il villaggio, la comunità, la storia, l’Olanda. Ogni casa, ogni sua parola, è come una conversazione intima in cui si ha il tempo di immedesimarsi e stabilire un contatto con quello che si ha davanti. Il silenzio e l’immobilità restituiscono perfettamente quell’idea immateriale, di un’atmosfera inabitata dove tutto appare inesistente, fermo, in cui vive solo la natura.
DV: Nel ricercare il movimento, caratteristica tipica del mezzo video, ma poi negarlo con la fissità dello sguardo, c’è una matrice pittorica?
DM: Probabilmente sì, credo che sia una predisposizione spontanea visto che il mio background è pittorico. Sin dai primi lavori video e fotografici ho sempre ricercato questa tensione pittorica, usando soprattutto mezzi low tech e presentando video sgranati o foto sfocate. Lo ritengo un valore aggiunto specie se il punto di partenza, come nel mio caso, è presentare la realtà. Magari adesso che nella mia produzione più recente i video sono immobili e caratterizzati da un processo di sintesi ai minimi termini questa sensazione, o somiglianza con i tableaux vivant, risulta ancora più evidente.
Orderliness, 2012, HD video, 9’
DV: Se Oderliness ritrae l’ambiente attraverso il video, con Celkap inquadri i personaggi che lo hanno abitato, raffigurati con le maschere che dovevano indossare durante i processi, in un perverso meccanismo di livellamento.
DM: Questi piccoli dipinti su carta ricalcano una tradizione olandese del XIX secolo, quando i prigionieri erano obbligati a indossare una maschera (Celkap). Questo sistema evitava il riconoscimento tra i prigionieri cancellandone di conseguenza anche le personalità. Il lavoro sull’identità e sull’integrazione, che faccio normalmente, qui si trasforma e converge nella maschera. Da siciliano, quando c’è di mezzo una maschera, il richiamo va ovviamente a Luigi Pirandello. Penso al mistero, all’aspetto perturbante, alla maschera teatrale, alla moltiplicazione e all’azzeramento delle identità (Uno, nessuno e centomila).
Kennis is Macht, da Veenhuizen Series, 2012, stampa in b/n su carta e porporina, 75 x 50 cm
DV: La mostra include anche delle fotografie in bianco e nero che prendono il nome del villaggio stesso: Veenhuizen. Di che si tratta?
DM: La serie fotografica Veenhuizen è l’origine e la fine di tutta l’operazione dedicata a questo particolare posto. Le dodici immagini in bianco e nero sono la parte progettuale dell’intervento site specific che vorrei realizzare a scala ambientale nell’intero villaggio. Così ho sovrapposto, come in un fotomontaggio, una scritta a rilievo fatta con i glitter che evocano l’effetto di lampadine.
DV: In cosa consiste esattamente?
DM: La mia intenzione è di coinvolgere l’intera comunità di Veenhuizen, i detenuti e la gente che ha vissuto nel villaggio, per riformulare delle nuove “Parole” con cui rimpiazzare temporaneamente quelle già esistenti. Da una prima fase, costituita da interviste e workshop con la collettività, emergerebbero i nuovi “messaggi e valori” che potrebbero funzionare oggi. In seguito, dopo aver trovato i nuovi monitida scrivere, questi sarebbero trasformati in luminarie, grazie ai laboratori artigianali all’interno delle prigioni. Le luminarie “collettive”, una volta installate sulle case e sovrapposte a quelle che mi piace chiamare “scritte reperto”, ne ribalterebbero il significato e porterebbero un’atmosfera diversa e giocosa al villaggio. Infine si girerebbe un video in notturna: una ripresa unica in un piano sequenza attraverso il paese avvolto nell’oscurità e illuminato solo dalle nuove scritte, lasciando sparire il villaggio dietro alle parole.
Electric Candles, 2013, C-Print, 45 x 30cm
DV: Dal paese confinato tra le paludi di torba alle chiese disseminate sul territorio Electric Candles è un’altra serie fotografica dedicata all’Olanda, ma territorialmente più estesa.
DM: Sono dieci scatti che presentano alcune chiese moderniste di Amsterdam costruite dal dopoguerra in poi. Anche in questo progetto il punto di partenza era la collettività e il sogno utopico di ordinarla. L’idea del Governo, alla base di queste costruzioni, era di incanalare il processo d’integrazione etnica attraverso i centri religiosi. Quindi in qualsiasi agglomerato urbano accanto ad una chiesa protestante doveva esserci quella cattolica o di un altro culto, a seconda del tipo di religione prevalente nel quartiere. Da qui la prolifica costruzione in quegli anni di settemila chiese in tutta l’area dei Paesi Bassi. Questi edifici religiosi sono come delle astronavi atterrate senza una relazione effettiva con il territorio. Imposizione che, sommata al diminuire della pratica religiosa, ha spinto la popolazione a non identificarsi con questi “monumenti funzionali” e quindi ad avviarne il fallimento, avvenuto a partire dagli anni settanta, quando, sotto l’influenza dei cambiamenti politici e culturali, le strade olandesi si riempivano e le chiese si svuotavano. Molti di questi edifici di culto sono diventati quindi obsoleti e fatiscenti, alcuni furono demoliti, riconvertiti o riutilizzati per altri scopi; sono diventate palestre, centri commerciali, o addirittura moschee; altri ancora oggi sono abbandonati in attesa di soluzione. Penso che Lorenzo Benedetti abbia trovato le parole più adatte per esprimere il contrasto tra la visione controllata del futuro e la sua impossibilità: “Nelle piccole foto appese nella stanza accanto all’ufficio in modo asimmetrico si presentano queste architetture tipiche del funzionalismo come una prefigurazione del futuro. Non era proprio quell’aspetto visionario del modernismo pronto a comprendere quella complessità nella formulazione asimmetrica e funzionale, quell’aspetto visionario così funzionale che ha realizzato una prospettiva del futuro talmente precisa, che, come tutte le prospettive si è persa nei suoi punti di fuga”.
DV: Nell’osservare le regole attuate da un governo, il controllo effettuato sui corpi e sui bisogni, le loro metafore e i loro fallimenti, non ti sposti anche su un piano politico?
DM: Qualsiasi artista, a meno che non lavori idealmente solo con la forma, con l’estetica pura, è politico. Se nel mio lavoro racconto delle persone, una storia, una società, è ovviamente politica. Ogni organizzazione per me è politica. Quindi la scelta di parlare di una comunità è già un atto politico. Però, un aspetto fondamentale sin dai miei inizi, è che anche quando scelgo di lavorare su dei soggetti politicamente forti non intendo mai esprimere una posizione. Il mio intervento come artista è di stare dentro e al tempo stesso fuori dalle cose. Racconto la storia, la svelo attraverso i miei occhi, ma ne resto al di fuori, neutro e invisibile.
Electric Candles, 2013, C-Print, 45 x 30cm
DV: Però entrambe queste ultime ricerche, dallo scavare negli archivi di una colonia di rieducazione sospesa nel tempo, al recupero delle vicende di edifici religiosi e delle loro trasformazioni, ti proiettano in una prospettiva più storica, non è così?
DM: È una considerazione che hanno fatto in molti. Per me è una storia, non la Storia. Le date e gli archivi non mi coinvolgono. Ovviamente quando lavori con uno spazio storico, fortemente connotato, hai il dovere di spiegarne l’origine, però la mia intenzione è di assumerlo e di riscriverlo. Mi interessa il racconto di quello che vedo attraverso i miei occhi e di cosa è arrivato oggi di queste storie.
Elenco completo delle iscrizioni:
Arbeid is Zegen = Il Lavoro è Benedizione
Flink en Vlug = Con Forza e Rapidità
Kennis is Macht = La conoscenza è potere
Humaniteit = Umanità
Opvoeding = Educazione
Werken is Leven = Lavoro è Vita
Orde en Tucht = Ordine e Disciplina
Ontwikkeling = Sviluppo
Hou en Trouw = Amore e Lealtà
Werk en Bid = Lavoro e Preghiera
Levenslust = Passione per la vita
Een van Zin = Tutti insieme
Domenico Mangano. Werken is Leven, a cura di Lorenzo Benedetti, Magazzino, Roma, fino al 10.09.2013