Esodo: le parole della libertà

26 Giugno 2023

Anni fa, mentre dal deserto del Negev stavo raggiungendo la penisola del Sinai, notai con sconcerto un improvviso mutamento del paesaggio: da una morbida distesa di colline sassose e dorate avevamo fatto ingresso in un vallone ferrigno, immenso e accidentato, dove incombevano aspre montagne di rocce rosso cupo, a loro volta solcate da burroni scabri e creste a dente di sega. Ovunque aleggiava un senso di potenza arcaica e immane, di energia cosmica devastante e silente, tremenda e fascinosa. Tant’è che con un brivido mi venne subito da pensare: “Questo sì che è il paesaggio dell’Esodo, queste sono le propaggini della grande montagna di Dio, dove Mosè ricevette le Tavole della Legge”. Come se il paesaggio stesso del Sinai fosse la “dimostrazione visiva” che la stupefacente vicenda dell’Esodo – con il popolo ebraico che vaga per «quel grande e terribile deserto» (Deuteronomio 1,19), guidato dalla «nuvola del Signore» (Esodo 40, 38) – fosse una vicenda storica avvenuta per davvero, secondo la precisa sequenza di eventi che i libri della Torah ci raccontano.

Dunque – mi venne da fantasticare fra me e me, appena giunto nel Sinai e travolto dalla potenza sacrale del luogo – quella dell’Esodo non era semplicemente una bella storia inventata. E non lo era perché La Bibbia aveva ragione, proprio così come recitava il titolo di un famoso libro dell’archeologo Werner Keller, pubblicato nel 1955, e oggi ormai ampiamente screditato. Perché, naturalmente, la Bibbia “non aveva ragione”, nel senso propugnato da Keller: gli archeologi e la ricerca storico-critica hanno ormai dimostrato che le vicende descritte nelle Scritture non corrispondono a fatti storici realmente accaduti, se non in modo molto indiretto, vago e impreciso.

E io a mia volta, durante quel viaggio nel Sinai, ero caduto nell’abbaglio di un’ingenua fascinazione visiva: credere che lo scenario sacrale del Sinai fosse tale proprio perché quelle montagne, dotate di tanta forza devastante, non potevano non essere “il luogo di Dio”, la forma in immagine della potenza di Dio. Doppio abbaglio, il mio: innanzitutto perché il Dio dell’Esodo e del Sinai – il Dio che interpella Mosè, affinché guidi il popolo nel passaggio dalla schiavitù egizia alla piena libertà – non può essere racchiuso in alcuna immagine, non è un Dio che si espone al nostro sguardo, neanche attraverso le sembianze di un paesaggio suggestivo quale quello del Sinai; e poi perché le ricerche archeologiche e filologiche sono ormai da tempo giunte alla conclusione che, dietro al celeberrimo racconto dell’Esodo e di Mosè che, guidato da Dio, conduce il popolo ebraico attraverso il passaggio del mar Rosso, e poi fino alle pendici del Sinai, e quindi fino ai confini della Terra Promessa – dietro a tutto questo grandioso e potentissimo racconto, dicevo, non è individuabile alcuna precisa realtà storica, alcun evento storicamente dimostrabile, che ci permetta di sostenere con certezza che sì, le cose sono andate effettivamente così come il libro dell’Esodo ce lo racconta, perché (purtroppo, si potrebbe aggiungere) la Bibbia, dal punto di vista dello svolgimento dei fatti concreti, storicizzabili, “non aveva ragione”. Il che però non significa che non avesse ragione in assoluto, ma che la sua ragione va individuata da tutt’altra parte. 

Quale sia allora quest’altra ragione che nelle Scritture bibliche si fa presente – in che cosa consista, anche sulla base delle ultime ricerche storiche, la plausibilità, la forza di convincimento e il senso inesauribile del racconto dell’Esodo – ce lo spiega con molta chiarezza e grande dovizia di ragionamenti e interpretazioni dei documenti antichi, un illustre egittologo, oltre che studioso di storia culturale: Jan Assman (Langelsheim, 1938) in un importantissimo libro del 2015, ora edito da Adelphi: Esodo. La rivoluzione del mondo antico. A dire il vero, non è la prima volta che Assmann si cimenta con il tema dell’Esodo e con la figura del suo grande protagonista, Mosè. Assman infatti aveva già pubblicato (sempre per Adelphi) Mosè l’egizio (2000) e La distinzione mosaica (2011). Ma in questo suo ultimo lavoro è lui stesso ad ammettere di aver dovuto mutare prospettiva: mentre nelle precedenti ricerche si era concentrato sul tema della continuità, delle analogie fra cultura egizia e cultura dell’antico Israele (somiglianze fra inni egizi e salmi biblici, fra sacrifici, tabù e riti del mondo ebraico e del mondo egizio…) il suo nuovo approccio di ricerca nasce da un drastico mutamento di indagine: individuare non più le affinità, bensì le discontinuità, le dissomiglianze, cogliere il senso della radicale opposizione di Israele al mondo egizio, e capire di conseguenza tutta la forza della novità ebraica rispetto agli ordinamenti e alle consuetudini del mondo antico. Israele infatti, con il racconto dell’Esodo – e con tutto ciò che ne consegue per le sue istituzioni religiose e per la sua identità di popolo – pone in essere uno statuto totalmente nuovo del vivere civile e della fede religiosa, un mutamento dirompente, rivoluzionario, che – sostiene Assmann – ritroviamo tuttora «a fondamento del mondo in cui oggi viviamo» (p. 16).

Questa radicale novità – continua il nostro autore – si pone «in relazione con il patto che YHWH stringe con i figli di Israele, liberandoli dalla servitù egizia ed eleggendoli a suo popolo. Con l’idea del patto viene al mondo la “fede”, che rappresenta l’autentica, rivoluzionaria novità del monoteismo biblico, sia esso veterotestamentario, neotestamentario o islamico. Nell’Antico Testamento “fede” ha lo stesso significato di “fedeltà”, ovvero fiducia nel patto, nelle promesse di Dio, nel giuramento da lui prestato ai padri e nella forza conciliatrice e giustificatrice delle leggi. Siamo di fronte a qualcosa di totalmente nuovo nel mondo dell’epoca, qualcosa che appartiene non all’ordine dell’essente, dell’evidente, del “non celato” (secondo l’interpretazione di Heidegger della parola greca aletheia, “verità”) bensì all’ordine di ciò che deve essere realizzato, di ciò che attraverso l’azione deve entrare a far parte del mondo e disvelarsi (…) La linea di questa tradizione (…) inizia con l’esodo dall’Egitto inteso come grande evento fondativo e salvifico che obbliga tutti coloro che sono stati liberati a un’eterna riconoscenza e fedeltà verso il liberatore. Il “monoteismo della fedeltà” è l’elemento nuovo e destinato a cambiare il mondo, che entra in scena con la religione biblica» (pp. 13-14).

Per comprendere meglio il senso di queste cruciali considerazioni di Assmann è forse bene riflettere ancora sulla dimensione (in ultima istanza inafferabile) della fede e sul suo inesauribile significato. Nella Lettera agli ebrei (uno scritto neotestamentario della fine del I secolo) troviamo questa grandiosa definizione: «Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono» (Ebrei 11,1). Intrisa ormai di cultura ellenistica, la concezione della fede che Ebrei ci propone ha dunque a che fare con una verità celata, inizialmente nascosta ma ora in via di disvelamento (Heidegger), a cui il credente aderisce con la totalità di sé, per incedere verso l’Invisibile, verso la vita eterna, ricolmo della speranza che il Signore Gesù Cristo, morto e risorto, ha portato nel mondo. 

Se invece ci spostiamo in territorio buddhista, la fede (saddhā, in lingua pali) non ha più a che fare con verità invisibili, trascendenti e indimostrabili, bensì diventa piena fiducia nel metodo di concentrazione, di illuminazione proposto dal Buddha quale maestro supremo: ho fede in lui non perché lo ritenga un dio, ma perché mi propone un percorso di crescita spirituale che sono sicuro possa “funzionare” bene per me, possa rivelarsi pienamente liberatorio per me.

Se poi ci volgiamo verso le religioni del mondo antico (compresa la religione degli egizi) fede diventa piuttosto accettazione che il mondo creato dagli dèi vada bene così com’è, perché appunto aderente a un ordine che gli dèi hanno stabilito. Noi siamo chiamati a contribuire (con i riti, le preghiere, il rispetto delle leggi, l’ubbidienza ai sovrani…) a questo buon andamento del mondo, che si ripeterà sempre uguale a sé stesso, secondo un ritmo ciclico del tempo, nel quale siamo sì invitati ad inserirci armoniosamente, ma che non possiamo presumere, con velleità sacrilega, di modificare. 

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Ma con il «monoteismo della fedeltà» messo in campo, secondo Assmann, dal racconto dell’Esodo, accade qualcosa di dirompente per la fede di allora e delle epoche a venire. Dio, il Dio biblico – colui che si rivela a Mosè nella scena famosa del roveto ardente (Esodo 3) e si autodichiara «Io sono colui che sono» – propone a Mosè, e poi a tutto il popolo ebraico, non tanto una definizione di sé stesso secondo verità, bensì l’annuncio di essere venuto come un Dio liberatore, in cui si può avere fede, fiducia, un Dio fedele, giunto a liberare il proprio popolo dalla «casa di schiavitù», l’Egitto, per portarlo verso una Terra Promessa «dove scorre latte e miele». Ma questo percorso di liberazione, in cui un popolo di schiavi si trasformerà in un popolo di persone pienamente libere, non più soggette ai capricci degli dèi e alle violenze dei sovrani, potrà avere seguito solo in base a un patto che Israele si trova invitato ad accettare.

Secondo tale patto, che Dio stesso propone, libertà, prosperità, e buona, futura vita nella Terra promessa, saranno fedelmente offerte e pienamente elargite da Dio, se Israele a propria volta aderirà liberamente al patto proposto. Il che significa che Israele dovrà quindi dimostrarsi disponibile a seguire da ora e per sempre le buone leggi di Dio, i buoni statuti di vita e di salvezza promulgati sul Sinai: vale a dire i Dieci Comandamenti che Mosè riceve, insieme agli altri ordinamenti per la vita sociale e per il culto. Ciò però implica un’inevitabile conseguenza: se invece Israele si distoglierà dal patto, negando la propria fiducia in Dio, ecco che la buona vita si trasformerà in una sequela di sventure e di nuove schiavitù. Israele incorrerà cioè in un doloroso asservimento al male e alle ingiustizie, una condizione di peccato dalla quale però si potrà sempre in futuro liberare, se riconoscerà le proprie colpe e manifesterà la propria volontà di tornare al patto con Dio. Perché Dio, lui sì, è un Dio fedele che per parte sua non disconosce mai il patto ed è sempre pronto a ristabilirlo con il proprio popolo. 

Questo racconto dell’Esodo – che Assmann ricostruisce passo passo in modo mirabile – avrà conseguenze immani non solo per la storia e l’identità di Israele (l’unico dei popoli antichi a non essere stato ingoiato dalla storia, proprio perché non ha disconosciuto il patto), ma anche per tanti popoli e movimenti politici che quel racconto dell’Esodo faranno proprio: esso ad esempio «divenne mito fondativo degli Stati Uniti d’America: nel diciassettesimo secolo i puritani emigrarono nel mondo nuovo come in una Terra promessa, forti della loro consapevolezza di essere, alla stregua di un novello Israele, gli eredi della promessa e della missione di fondare una società votata a vivere secondo i comandamenti di Dio» (p. 330).

Ma in che epoca, e in quali circostanze, sarebbe potuta avvenire tale rivelazione di Dio, tale donazione a Mosè delle Tavole della Legge? Che cosa esattamente sarebbe successo al Sinai, quando Dio si rivelò a Mosè? Niente, non si sa, non lo si potrà mai sapere: probabilmente quell’evento – così come il libro dell’Esodo ce lo descrive – non è mai avvenuto. Su questo punto Assmann è drastico, ma al tempo stesso anche pronto a indicare una nuova, promettente prospettiva. È inutile – sostiene il nostro autore – andare alla ricerca di un supposto Mosè storico, un uomo Mosè realmente vissuto, così come è inutile inseguire le tracce archeologiche o documentarie di un esodo dall’Egitto del popolo ebraico, così come il libro dell’Esodo ce lo racconta. Rincorrendo quelle labili piste non troveremmo mai nulla di preciso, nessun ritrovamento documentario capace di rivelarci che “la Bibbia aveva ragione”. È possibile che la figura di Mosè ricalchi vagamente le sembianze di un qualche eroico condottiero, forse di origine non ebraica, ma egizia. È possibile che un popolo in fuga – non necessariamente ebreo – si sia salvato in modo fortunoso e quasi miracoloso da un inseguimento mortale, e che sulla vaga reminiscenza e la successiva rielaborazione di quel lontano ricordo sia stato poi costruito il racconto del passaggio del Mar rosso. È addirittura possibile che il racconto della schiavitù degli ebrei in Egitto, sottoposti dal faraone a duri lavori di corvée, sia addirittura la trasposizione e la trasfigurazione dei duri lavori a cui il popolo ebraico era stato sottoposto per la costruzione del tempio di Salomone: come se il faraone si fosse rivelato una figura sostitutiva più adeguata, atta a salvaguardare la memoria del grande e sapiente re Salomone… È possibile ma… Ma in ogni caso non se ne viene a capo.

Occorre infatti tenere presente che il racconto dell’Esodo (che, è bene sottolinearlo, non si esaurisce con il libro dell’Esodo, ma prosegue anche in altri libri biblici) ha raggiunto la sua forma definitiva in epoca relativamente tarda, verso il V secolo a.C., cioè un migliaio di anni dopo i supposti eventi narrati. Dunque ci troveremmo di fronte a una rielaborazione tardiva, esito di un lento assemblamento e rifacimento di testi anteriori e di reminiscenze orali. Tale rielaborazione trova il suo senso profondo nella precaria situazione in cui Israele all’epoca versava. Nel V secolo a.C. infatti Israele si trovava in condizioni non di schiavitù ma di vassallaggio nei confronti dell’Impero persiano. Una posizione difficile e umiliante, in seguito alla quale si trattava sia di giustificare il presente, sia di spiegare il passato, così da rendere ragione di una lunga sequela di sventure (la fine dei regni di Israele e di Giuda, la distruzione di Gerusalemme e del tempio di Salomone, l’esilio a Babilonia, le difficoltà del ritorno in terra d’Israele e la stentata ricostruzione del tempio distrutto…) e di ribadire al tempo stesso la fedeltà di Dio e la validità del patto con lui. Chi era dunque Israele? Perché era incorso in tante sventure? Dio si era forse dimenticato del patto con il suo popolo? O non era piuttosto il popolo a essersi dimostrato infedele al patto? E ora, vi era una nuova possibilità di salvezza, un ritorno alla fedeltà del patto? 

Il racconto dell’Esodo nasce allora – nella sua versione definitiva – come ricostruzione di un passato difficile e grandioso, come ridefinizione della propria identità, riconoscimento dei propri errori, rinnovamento da parte del popolo del patto di fedeltà con Dio. Questo racconto viene così ad assumere una forza, una potenza tale, da permettere a Israele di sopravvivere fino ad oggi e da diventare modello anche per altri popoli e culture. Ma la grandiosità di un racconto non è di per sé garanzia di verità. E se quello dell’Esodo non fosse altro che un mito a bella posta inventato? Una suadente, consolatoria finzione letteraria? Qualcosa come una “splendida bugia”? No, non è così che bisogna ragionare – chiarisce Assmann nelle decisive pagine finali del suo lavoro. 

Secondo il nostro autore, infatti, occorre distinguere fra testi finzionali, puramente letterari, e testi performativi. «Performativi sono quei testi o quegli atti linguistici che creano una realtà nel momento stesso in cui la rappresentano. La verità sta nella loro osservanza o messa in pratica». Se io, tanto per intenderci, racconto la storia del matrimonio fra un dio del cielo e una principessa umana, ci troviamo di fronte a un testo letterario, finzionale. Ma se io, da ufficiale civile o da sacerdote, celebro un matrimonio seguendo un appropriato rituale, nel momento in cui dichiaro un uomo e una donna uniti in matrimonio, quel matrimonio avviene per davvero, non è più una finzione narrativa, diventa un fatto reale, incontrovertibile nel momento stesso in cui lo proclamo a parole e lo rappresento attraverso un rito. Così continua Assmann: «Il racconto dell’Esodo non scrive la storia, fa la storia. Il mondo a cui si richiama il racconto dell’Esodo nasce insieme a ciò che sul racconto si costruisce e che ne è l’elemento fondativo (…) La storia dell’Esodo è performativa nel senso che trasmette un’identità a coloro che la raccontano. È altrettanto reale quanto il popolo che in riferimento a essa si definisce e che, grazie a questa identificazione e definizione, è l’unico fra i popoli antichi a sopravvivere ancora oggi, nonostante tutte le persecuzioni subite» (pp. 324-325).

Un’ultima notazione: il linguaggio performativo non si esaurisce necessariamente nella piattezza di un atto linguistico di tipo burocratico come la celebrazione di un matrimonio. Può invece farsi innanzi a noi con una potenza abbagliante. Disponiamoci ad esempio all’ascolto delle seguenti parole: «Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Ascolta Israele, le leggi e le prescrizioni che oggi io proclamo davanti a voi: imparatele e mettetele diligentemente in pratica. Il Signore, il nostro Dio, stabilì con noi un patto in Oreb (Sinai). Il Signore non stabilì questo patto con i nostri padri, ma con noi, che siamo qui oggi tutti quanti in vita. Il Signore vi parlò faccia a faccia sul monte, dal fuoco. Io stavo allora fra il Signore e voi per riferirvi la parola del Signore (…) Egli disse: “Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me…”» (Deuteronomio 5, 1-7). Quando noi dunque, anche oggi, anche se non ebrei, anche se non credenti, ascoltiamo parole simili, possiamo accorgerci che discorsi di tal fatta sono dotati di una forza travolgente e aliena, come se venissero davvero da un Altrove, da un Qualcuno o un Qualcosa che ci chiama in causa, ci scuote, ci interpella, ci invita comunque a una risposta. Quel senso di potenza biblica, cosmica o trascendente, che erroneamente avevo creduto un tempo di intravedere nel paesaggio del Sinai, non si nasconde dunque tra le sembianze di quelle rocce, ma è invece udibile, ascoltabile nelle parole straordinarie, davvero rivoluzionarie – come sostiene Assmann – che il racconto biblico dell’Esodo continua a far risuonare per noi.  

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