Tibetani in fiamme
Esiste latente, nella spiritualità del buddhismo tibetano, la predisposizione allo scatenamento di forme estreme di resistenza nei confronti dell’oppressione politica e culturale? Nelle pratiche meditative, nelle liturgie, nei rituali dell’antica tradizione che fa capo agli insegnamenti secolari dei lama, si annidano forse i presupposti per liberare energie devastanti, per dare vita a proteste inaudite e sconvolgenti contro la repressione di un regime occupante? Anni fa, presso un monastero di rifugiati tibetani a Boudhanath, in Nepal, mi capitò di assistere a una puja, una cerimonia liturgica, durante la quale i monaci, in ampie tonache rosse, recitavano sacri testi del Vajrayāna, o Veicolo del Diamante, la forma di buddhismo diffusa appunto in Tibet e fra le regioni dell’area himalayana. Nella sala di meditazione, dove un ritratto del Dalai Lama campeggiava tra drappi dorati, colonne di legno purpureo, sacri stendardi raffiguranti forze cosmiche in forma di divinità sinuose, i monaci declamavano nella posizione del loto, assisi in due file contrapposte che parevano sfidarsi a vicenda per far vibrare sempre più in alto, sempre più in profondo, un rombo ritmato, carico di energia talmente possente da frantumare ogni divisione fra individuo e cosmo, come se fremendo in quel modo la mente potesse uscire da se stessa, entrare nella natura del Buddha cosmico, per poi riprecipitare dentro se stessa, fino a scoprire che la natura del Buddha è dentro di noi, è fuori di noi, è nel Vuoto di nessun luogo.
Mi vennero i capelli ritti in capo, uscii sconvolto da quella sala di meditazione. Mi pareva di percepire che nel Veicolo di Diamante, in quel Vajrayāna del buddhismo tibetano, si celasse una potenza di portata dirompente, capace sì di confrontarsi con le verità ultime del mondo, ma anche aperta, affacciata su possibilità abissali, inconcepibili, addirittura infernali… Non riuscivo a capire bene, e continuai a non capire quale fosse quella soglia terrifica che il Vajrayāna pareva in grado di varcare. Era per me un enigma, ma talmente perturbante che preferii non affrontarlo e che quindi finii per accantonare, trascurare. Finché il problema – una vera questione da brividi – non mi si è ora ripresentato e imposto di nuovo, leggendo il bellissimo, terribile libro di Barbara Demick, I mangiatori di Buddha. Vita e ribellione in una città del Tibet (Iperborea, 2024).
L’autrice non è un’orientalista e nemmeno una praticante di qualche via buddhista. Corrispondente per il “Los Angeles Times”, si è invece specializzata in inchieste su luoghi “estremi”: la Corea del Nord; Sarajevo durante le guerre balcaniche; e appunto il Tibet nei lunghi anni dell’inesorabile, schiacciante occupazione cinese. Il titolo del libro, già di per sé sconcertante – Eat the Buddha, nel testo originale – fa riferimento a un episodio drammatico e premonitore, accaduto nel 1934 a Ngaba, una cittadina del Tibet orientale, a quell’epoca capitale del piccolo regno buddhista di Mei. Occorre tenere presente che il Tibet, inteso come area geografica e culturale, è molto più vasto dell’attuale Regione Autonoma del Tibet, che ha Lhasa come capitale. Si tratta infatti di un immenso altopiano (due milioni di chilometri quadrati!) suddiviso, fino alla costituzione della Repubblica Popolare Cinese, in una serie di regni e centri monastici che riconoscevano nella figura del Dalai Lama il proprio capo spirituale e che avevano sempre mantenuto una propria indipendenza, e una propria distanza, nei confronti dell’Impero prima e dello Stato cinese poi. Ma all’epoca della Lunga Marcia avvenne un primo, inquietante impatto fra i due mondi. Un distaccamento dell’Armata Rossa, infatti, superò la frontiera dell’altopiano e si spinse fino a Ngaba, il primo centro tibetano che s’incontra salendo dalla grande città cinese di Chengdu. Si trattava di una colonna di militari mal equipaggiati, a corto di viveri: provenienti dalle pianure, si trovavano per la prima volta in un mondo totalmente estraneo, dove non si parlava nemmeno cinese. Ci fu subito una resistenza. I tibetani, per quanto male armati, si opposero con lance, schioppi, moschetti e amuleti, poi si ritirarono sulle montagne dove i soldati dell’Armata Rossa, troppo deboli e affamati, non li avrebbero inseguiti. In compenso i cinesi saccheggiarono la città, rubarono le esigue scorte di grano, macellarono i pochi animali. Ancora disperati per la fame, si ridussero a divorare le statuette fatte con farina d’orzo e di burro, collocate nei monasteri come offerte votive. E poiché quei piccoli manufatti avevano forma di Buddha in miniatura, i soldati stessi si dissero che stavano “mangiando il Buddha”. Sapevano di compiere un sacrilegio, ma a loro non importava: consideravano quelle offerte sacre, ma commestibili, solo frutto di superstizione. Poi l’Armata Rossa si ritirò da Ngaba, e tutto sembrò tornare come prima. Fino a quando, nel 1950, una volta costituita la Repubblica Popolare, i cinesi non si ripresentarono in gran forza, per non andarsene mai più, annientare la sovranità del Dalai Lama e ridurre l’intero Tibet in un possedimento sotto il pieno controllo di Pechino.
Ma in tutti questi decenni, dalla prima occupazione degli anni Cinquanta fino a oggi, che cosa è accaduto nella piccola città di Ngaba? Come se la sono cavata i tibetani di laggiù? È questo l’interrogativo cui ha cercato di rispondere Barbara Demick, nel suo straordinario e struggente racconto. Giornalista sobria e severa, guidata da un grande senso di onestà e umanità, non ha voluto comporre un’opera romanzata ed emotiva, carica di abbellimenti letterari. Fedele alla sua vocazione di reporter, si è attenuta strettamente ai fatti e alle testimonianze che ha potuto raccogliere in una serie di viaggi perigliosi, spesso compiuti in semiclandestinità, che fra il 2010 e il 2020, l’hanno portata non solo a Ngaba e dintorni, ma pure a Dharamsala, in India, dove si trova il governo in esilio del Dalai Lama e dove hanno trovato rifugio anche molti esuli da Ngaba. Ha ascoltato con puntiglio e con delicatezza, a più riprese, i racconti dolenti di tanti uomini e donne, giovani e vecchi, monaci e laici, gente di alto lignaggio e di bassissimo lignaggio, passati attraverso le desolanti vicissitudini di chi si è trovato sotto il controllo inesorabile e spesso crudele dell’occupazione cinese.
Veniamo così a conoscere la dolente storia di Gonpo, ultima principessa del regno di Mei, vessata in quanto aristocratica dal regime, esiliata nel remoto Xinjiang, poi trasformata a Nanchino in “ragazza totalmente cinese”, infine fuggita a Dharamsala dove diverrà preziosa assistente del Dalai Lama. Incontriamo il monaco Amdo Delek, sfuggito fortunosamente da bambino al massacro della propria famiglia. Testimone nel 1958 dei primi, vani tentativi di resistenza armata dei tibetani di Ngaba contro l’invasione cinese, Amdo Delek fu costretto ad assistere, anno dopo anno, alle umiliazioni dei monaci, alle devastazioni dei monasteri, agli arresti di massa (fino al 20 per cento della popolazione locale) verso prigioni dalle quali non si tornava… Poi ascoltiamo le vicissitudini di povere vedove, silenziosi pastori, gente semplice, aliena dall’impegno politico, e tuttavia travolta dalle persecuzioni di un regime che non concepiva la possibilità di concedere ai tibetani la minima autonomia, per imporre solo la piena integrazione, o meglio sottomissione, al regime cinese.
Raccolte con partecipe rispetto, ma anche con estremo puntiglio documentario, queste testimonianze non ci permettono solo di conoscere da vicino un mondo altamente tribolato, ma malgrado tutto affascinante e mirabile, nella sua compassionevole umiltà. Ci fanno anche capire, anno dopo anno, la tragedia senza sbocchi della questione tibetana, con il Dalai Lama che dall’esilio di Dharamsala continuava a proporre compromessi al ribasso (“Non vogliamo l’indipendenza del Tibet, solo autonomia, solo un po’ di autonomia…”), mentre la controparte, il partito, si fingeva ogni volta disponibile a trattare per poi concludere immancabilmente con insulti sempre più violenti, nel tipico linguaggio stereotipato e triviale dei regimi: “Respingiamo le proposte truffaldine del Dalai Lama, lugubre fantoccio al soldo delle potenze imperialiste… il Dalai Lama, un essere demoniaco e malvagio, manovrato solo dalla sua sete smisurata di potere… faremo poltiglia della cricca infida del Dalai Lama che, fingendo di accettare l’integrazione nella Repubblica Popolare Cinese, manovra per sabotarla…”. Insulti biasimevoli per le nostre orecchie, ma addirittura sacrileghi e angoscianti per i tibetani che vedono nel Dalai Lama una figura sacra, intangibile, addirittura emanazione, manifestazione terrena di Avalokiteśvara, il bodhisattva della misericordia…
Non è certo possibile qui riassumere tutta l’intricata questione tibetana, con le sue fasi alterne di deboli aperture e rinnovate chiusure, dove brevi speranze iniziali sfociavano ogni volta in campagne di repressione sempre più feroce. Fedeli alla via della nonviolenza predicata dal buddhismo e raccomandata a più riprese dal Dalai Lama, i movimenti di tibetani di protesta si sono limitati il più delle volte a inscenare manifestazioni di piazza o di resistenza passiva, senza quasi mai dare vita a episodi violenti. Non è servito: per quanto pacifica, la resistenza tibetana otteneva solo torture e arresti. Il che ha portato a un’esasperazione angosciata, apparentemente priva di vie d’uscita. La politica della nonviolenza, perseguita senza tentennamenti dal Dalai Lama, sembrava dimostrare solo la sua inefficacia. Ed è stata proprio tale condizione di disperazione senza sbocchi, a portare verso una trasmutazione inaudita: invece di rigettare la nonviolenza per abbracciare il terrorismo o la lotta armata, i tibetani hanno rovesciato la violenza su se stessi, si sono dati fuoco.
Il fenomeno terrificante cominciò a Ngaba nel 2008, quando un giovane monaco, Lobsang Tachi, s’immolò sulla strada principale, proprio vicino a un’auto della polizia. L’evento inatteso sconvolse tutti, tanto più che i militari avevano immediatamente sequestrato il corpo in fiamme, impedendo di portare la vittima a casa della famiglia, per le preghiere di cordoglio. L’episodio era stato giudicato sconcertante e inammissibile dai tibetani stessi, anche perché il suicidio, nella tradizione buddhista, non è considerato buona cosa. Agendo con violenza contro se stessi, infatti, si altera il ciclo naturale di morte e rinascita, si compie comunque un atto distruttivo che avrà conseguenze negative sulle rinascite future della vittima e anche sulla comunità cui appartiene. È vero che vi erano stati in passato episodi isolati di autocremazione. Nel 1998 un esule tibetano si era immolato a Delhi, e un altro nel 2006, sempre in India, per protestare contro la visita dell’allora presidente cinese Hu Jintao. Ma si trattava di eventi che non sembravano in grado di ispirare gesti analoghi. E invece, dopo quel sacrificio del 2008 a Ngaba, successe di nuovo, con sempre maggior frequenza, in varie parti del Tibet, e soprattutto a Ngaba, proprio a Ngaba.
Nel 2011 un altro monaco in fiamme, poi in rapida sequenza altri due ex monaci, giovanissimi. Non sapendo come fermare il fenomeno, destabilizzante per le stesse autorità occupanti, la Corte suprema cinese stabilì che chiunque avesse avuto a che fare con l’immolazione, anche semplicemente per avervi assistito, poteva essere accusato di omicidio volontario, e venire arrestato avendo messo a repentaglio la sicurezza e l’ordine sociale. E poiché gli immolati compivano il loro gesto sempre in luoghi pubblici, a ogni sacrificio seguiva immancabilmente una sequela di arresti e persecuzioni. Ma non servì a nulla. A novembre 2019 si erano immolati addirittura 156 tibetani, un terzo dei quali a Ngaba o nei suoi dintorni. Non solo monaci ma anche monache, non solo religiosi ma anche civili. Lo stesso Dalai Lama, che non aveva mai incoraggiato simili pratiche autodistruttive, si trovava in grave imbarazzo: «Se dicessi qualcosa di positivo, i cinesi sarebbero pronti ad accusarmi, e se dicessi qualcosa di negativo, sarebbe un grande dolore per i famigliari di queste persone. Hanno sacrificato la loro vita. Non è facile». Acutamente, Barbara Demick commenta: «Il Dalai Lama era in difficoltà. I giovani uomini e donne che si uccidevano, lo facevano in suo nome, mostrando la sua fotografia e augurandogli lunga vita (…) E tuttavia le immolazioni rappresentavano anche un implicito rifiuto delle sue scelte politiche. I suoi appelli alla nonviolenza, alla pazienza, alla cooperazione con i cinesi erano inutili; dandosi fuoco, i tibetani evidenziavano il fallimento della loro guida spirituale».
Eppure qualcosa di positivo alla fine accadde. Perché ad essere sconvolte dall’enormità delle immolazioni furono anche le autorità cinesi, che si ritrovarono platealmente delegittimate, anche a livello internazionale, da un simile rifiuto della loro politica di occupazione. Non potendo comunque riconoscere l’autonomia del Tibet e l’autorità spirituale del Dalai Lama, scelsero la via di allentare a poco a poco la morsa dell’occupazione. Decisero così di mantenere sì la repressione politica e il controllo sul dissenso, ma concedendo qualche sollievo sul piano del benessere economico e sulle manifestazioni del folklore e della vita spirituale. Riaprirono i monasteri, favorirono l’edilizia popolare, il piccolo commercio, lo sfogo del consumo e dei divertimenti innocui. Offrivano insomma ai tibetani la possibilità di una vita accettabile, purché rinunciassero alla pretesa della libertà. La nuova prospettiva ha più o meno funzionato. Le immolazioni sono cessate, i tibetani si sono avviati sulla via della rassegnazione e dell’accomodamento, tanto più che la politica proposta del Dalai Lama ha perso progressivamente di prestigio e di prospettive… Non è granché, se vogliamo, ma è sempre meglio di dover assistere ai monaci che si contorcono fra le fiamme, mentre la gente intorno leva lamenti strazianti, come di animali a propria volta macellati…
Resta però da chiedersi. Come mai questo fenomeno eclatante delle immolazioni in Tibet? Negli stessi anni anche gli uiguri musulmani dello Xinjiang hanno cercato di opporsi alla repressione cinese, ma hanno scelto, pure loro senza alcun successo, la via degli attentati e dell’opposizione violenta. Mentre i monaci birmani (di tradizione Theravada), per opporsi alla violenza della giunta militare, sono scesi in piazza con le ciotole della questua rovesciate: un gesto simbolico, ma eclatante perché toglieva ogni legittimità spirituale ai militari; però non si sono immolati. Si era dato fuoco, nel 2011, il fruttivendolo tunisino Mohamed Bouazizi, dopo la confisca della sua bilancia da parte della polizia, scatenando così le rivolte della Primavera araba. L’aveva fatto il praghese Jan Palach che nel 1969 si immolò in piazza San Venceslao, per protestare contro l’occupazione sovietica. E pensiamo pure al monaco vietnamita Thich Quang Duc, che nel 1963, a Saigon, scelse l’autocremazione pubblica per protestare contro la guerra e l’oppressione della comunità buddhista. Ma si tratta appunto di casi singoli, che non hanno scatenato fenomeni imitativi. Perché invece è successo in Tibet?
Torniamo così alla domanda iniziale. Nella spiritualità del buddhismo Vajrayāna è forse latente una “forza” capace di scatenare una sequela di immolazioni? Non ne sono del tutto sicuro ma credo di sì. Esiste infatti in quella tradizione una pratica meditativa che consiste nella visualizzazione intensa di divinità irate, preposte alla difesa del Dharma, la dottrina buddhista. Non si tratta di demoni del male, ma di simboli delle forze interiori, delle energie coscienziali che il praticante deve visualizzare in forma furente dinanzi a sé, per poi interiorizzarle, dominarle, e infine assorbirle così da ascendere verso stati via via più elevati di coscienza. Ebbene, queste divinità terrifiche sono sempre raffigurate in preda a una rabbia sfrenata, tanto da essere chiamate beruka, “bevitrici di sangue”. Non perché siano dei vampiri, ma per la loro capacità di superare l’attaccamento al concetto di Io, di persona, rappresentato appunto dal sangue. Ebbene, la meditazione Vajrayāna – basata sulla raffigurazione visiva e poi l’interiorizzazione di simili divinità terribili – può scatenare nel praticante un’energia psichica di forza sconvolgente. Se sono le angosce, le paure, le meschinità, il panico quelle forze che impediscono all’adepto di progredire, questi deve allora trasformare tali energie sommamente negative in forze interiori che portino fino alla liberazione finale della “Mente di Buddha”, fino alla manifestazione della “Mente di pura luce” nascosta in ogni praticante, anzi in ognuno di noi.
Simili pratiche, diffuse da secoli in Tibet, sono famigliari non solo ai monaci più elevati, ma permeano la vita spirituale di tutta una cultura, anche di coloro che semplicemente frequentano da novizi o da laici devoti la vita di un monastero, seguono i rituali dei lama, ascoltano i loro insegnamenti. Per arrivare alla decisione estrema di darsi fuoco, di uccidersi in pubblico fra le fiamme, occorrono un coraggio e una forza immani. Ma occorre anche essere permeati da una spiritualità che insegna a dominare, a rivolgere su di sé le potenze delle divinità terrifiche. Certo, si tratta di una spiritualità che persegue il controllo del negativo, per trascenderlo nel cammino sublime verso il Vuoto. Ma quando quel cammino è precluso, impraticabile, ecco presentarsi l’ultima, estrema soluzione. Diventare energia pura, diventare fiamma, per la salvezza del Tibet e della sua civiltà che rischia di perire.