Di deserto in deserto

25 Ottobre 2023

«Ero assillato da una domanda sui deserti, che era anche una domanda da marinai: se nessuno ti vede, come ti comporti? Nel segreto dell’immaginazione, fino a quali estremi, a quali “poli dell’inaccessibilità” avrebbe potuto vagare la mente?». Detto in altri termini: cosa ti succede quando ti trovi di fronte all’Incommensurabile? Nel momento in cui metti piede in un mondo vuoto e sterminato, del tutto silente, privo di variazioni e di confini fino all’ultimo visibile orizzonte, che cos’è che vedi? Cosa succede al tuo sguardo? E tu, lì in mezzo, come ti senti, posto che tu riesca ancora a percepirti come una persona distinta, ancora padrona di sé e non invece annientata da un simile Vuoto che ti circonda per ogni dove? 

  Spinto o, meglio ancora, ammaliato da questi interrogativi a loro volta sconfinati, il giornalista e scrittore inglese William Atkins ha percorso uno dopo l’altro, in lenti e lunghi viaggi compiuti tra il 2016 e il 2017, alcuni deserti tra i più estremi del nostro Pianeta e li ha raccontati nell’affascinante Un mondo senza confini (trad. it. Francesco Francis, Adelphi 2023, p. 440): il Rub’ al-Khali, nell’Oman; il Gran Deserto Victoria, nell’Australia meridionale; il Gobi e il Taklamakan, nella Cina nord-occidentale; l’Aralkum, nel Kazakistan; il Deserto di Sonora, in Arizona; il Black Rock Desert, nel Nevada; il Deserto Orientale, in Egitto. Dunque sette lande immense e desolate, a loro volta parte di un qualcosa di più grande ancora: il cosiddetto Quarto Vuoto. Secondo un’antica tradizione araba, infatti, il mondo intero può essere diviso in quattro quarti. Di questi, due quarti sono costituiti dagli oceani e un quarto dalle terre fertili e abitate; viene poi un ultimo quarto in cui ci sono solo deserti, sabbia e silenzio: il Quarto Vuoto, appunto.

Quando ti inoltri lì dentro, basta un passo sbagliato, perdi la strada e non la ritrovi più: sei morto. Oppure ti siedi su una pietra innocua e vieni morso da un invisibile serpente, acquattato lì sotto: di nuovo, sei morto. Di fronte a simili pericoli, Atkins non si è sottratto, non si è risparmiato: micidiali tempeste di polvere, che l’hanno trasformato per giorni in un uomo completamente bianco, dalla pelle incartapecorita come quella di una mummia; marce estenuanti nella sabbia rovente, verso una meta che alla fine si rivela evanescente e ti costringe fra gli stenti a tornare indietro… Ma ciò che più sembra colpirlo, anzi rintronarlo, è il disorientamento percettivo. Eccolo ad esempio nel Taklamakan: «Cavalcavamo in un bacino cinto da dune, e quando risalivamo un crinale fino alla cima, vedevamo le stesse identiche dune (tali mi sembravano) salire e scendere fino all’orizzonte. Era come trovarsi tra due pareti a specchio, la stessa immagine riflessa all’infinito in ogni direzione». Oppure, eccolo in treno, mentre attraversa il Gobi: 

«La piattezza era senza limiti, o meglio, il suo unico limite era l’orizzonte, o la visibilità, la variabile nitidezza dell’aria. Nella mia cuccetta ascoltavo il doppio colpo cadenzato del battito cardiaco del treno, e solo quello mi dava il senso del movimento; il paesaggio fuori non diceva quasi nulla. Ogni venti minuti circa mi sedevo sulla cuccetta per guardare il deserto da entrambi i lati – dal finestrino del mio scompartimento e da quello del corridoio – con la sensazione di perdermi qualcosa; ma il panorama non cambiava quasi per nulla da un’ora all’altra ed era identico, così mi sembrava, da una parte e dall’altra del treno. Era come trovarsi su un tapis roulant». 

Dentro questa immensa sfera aniconica e anecoica – in cui non pare succedere più nulla, come se anche il tempo si rigirasse su se stesso – non tutti riescono a resistere a lungo. Lo confida ad Atkins un agente della Polizia di Frontiera che, in Arizona, deve controllare l’eventuale passaggio di clandestini, rimanendo fermo in auto, completamente solo, per otto o nove ore, gli occhi sempre fissi sul confine col Messico. Per quanto uno cerchi di distrarsi fissando la forma dei cespugli, il colore dei sassi, il volo degli avvoltoi (a loro volta in cerca di clandestini in agonia), dopo un po’ di tempo, inevitabilmente, lo sguardo ti si ribalta verso l’interno e cominci a fissare con inquietudine te stesso: «È allora che gli uomini crollano, disse Tom, oppure avvertono il pericolo dentro di sé e lasciano la polizia». 

E Atkins? Lui non è crollato? Diciamo che ci è andato vicino più volte, ma no, non è crollato, per una serie di motivi che riguardano non solo il suo temperamento – evidentemente attratto da quella che lui stesso chiama «l’anarchia del deserto» – ma anche l’impostazione del suo metodo di viaggio e della sua scrittura. Un approccio che rende ancora più interessante e coinvolgente il racconto di tali desertiche esplorazioni. Innanzitutto Atkins ha scelto di non basarsi esclusivamente sul proprio sguardo, sulle proprie impressioni di fronte al grande Vuoto, per privilegiare invece le testimonianze di chi in quegli stessi luoghi c’era già stato: esploratori, missionari, anacoreti, sulle cui tracce Atkins s’incammina tenendo sempre come guida gli scritti che costoro avevano lasciato. Leggendo ad esempio il resoconto di un viaggio che un frate domenicano svizzero, Felix Fabri, aveva compiuto in Terrasanta verso la fine del Quattrocento, Atkins intuisce l’esistenza di un misterioso paradosso che si ripresenta spesso in chi s’incammina nelle terre estreme: «Era lì: la zona iper-arida in tutta la sua abbondanza; solitaria, senza Dio, desolata, mortale, spoglia, priva d’acqua, senza sentieri, impraticabile, infestata, maledetta, dimenticata e tuttavia, allo stesso tempo, luogo di rivelazione, di contemplazione, e santuario. In mezzo a tanti orrori, la pace: una pace esaltata da quegli orrori». Così assicurava Felix Fabri nel suo scritto. Ma com’è possibile una simile quiete, scaturita addirittura dalla desolazione? Cosa significa? 

Significa che le condizioni estreme in cui l’esperienza umana si trova trascinata quando s’inoltra nel deserto, possono portare a un ribaltamento della coscienza, fino a farci scorgere una pace ineffabile dentro la disgregazione stessa, qualcosa come un “sublime infernale”, un meraviglioso raccapricciante. In questi termini, effettivamente, lo descrive un altro esploratore citato da Atkins, e cioè William Henry Tietkens che per la prima volta, nel 1875, attraversò il micidiale Gran Deserto Victoria dell’Australia: «Vi regnava la bizzarra, orribile, demoniaca bellezza della sterilità (…) Ci troviamo nel peggior deserto sulla faccia della terra, ma questo fatto non dovrebbe che accrescere il piacere della sua conquista». È come se l’avere volontariamente accettato la sfida di inoltrarsi nel Vuoto estremo, nel fondo di una fatica estrema che annienta ogni piacevolezza del buon vivere, portasse fino a un punto in cui la disperazione stessa si ribalta nella effusione di una nuova esaltazione, di una nuova vita senza limiti. Ecco infatti la testimonianza di un’altra viaggiatrice, che Atkins ha assunto come propria guida spirituale: la missionaria inglese Mildred Cable, rimasta nel deserto di Gobi dal 1901 fino al 1936. Arrivata laggiù, «la mia prima impressione fu un senso inebriante di liberazione. Sollevai le braccia come per alzarmi in volo e dissi: “Ho la libertà degli spazi e posso andare ovunque”». In altri termini, privazioni, fatiche, solitudine, la sottomissione a una regola di vita rigorosa, foriera di tante sofferenze, non significa necessariamente prigionia e soffocamento, bensì apertura verso un’inattesa, totale, raggiante libertà, svincolata ormai da ogni condizionamento umano. 

Lo sanno bene i monaci copti del deserto egiziano, che Atkins raggiunge per soggiornare insieme a loro nell’antichissimo monastero di Sant’Antonio, sui desolati monti Galala. Eccoli ad esempio mentre cantano in coro, durante il mattutino: 

«I padri, in nero, sono come diminuiti – diminuiti dalla vita: magri, ma non fragili, leggermente curvi, più lenti nei movimenti. Vi è in loro qualcosa di avvizzito. Avvizziti, forse, ma non privi di gioia. Quello che percepisco più di ogni altra cosa è l’amore: ognuno tocca le mani di tutti quelli che incontra, per benedirli o riceverne la benedizione. Ci sono molti sorrisi affettuosi, una mano sulla spalla o sulla schiena mentre si scambiano due parole. Agape, dal greco antico per “amore”, è il termine usato dai copti per la celebrazione comune dei misteri cristiani». 

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Questi monaci – aggiunge poi Atkins – hanno raggiunto l’apatheia, l’imperturbabilità: «uno stato di santa tranquillità che equivale a disinteresse, indifferenza, distacco. Disinteresse non verso i doveri, ma verso le aspettative sociali; indifferenza alle opinioni altrui; distacco dalle leggi del mondo umano: questa è apatheia». Ma tale imperturbabilità dipende a propria volta dall’apophasis, dalla rinuncia a spiegare con parole umane, con concetti razionali, il mistero di Dio. Un simile mistero, infatti, rimane sempre, per essenza, avvolto nel silenzio. E dunque la disponibilità a immergersi nell’abisso del silenzio divino porta a poco a poco verso l’imperturbabilità. Ma non finisce qui. Perché l’apatheia del deserto, il distacco dalle passioni nel silenzio delle sabbie e delle aride rocce, produce a propria volta agape, l’amore. «È questo – l’amore, l’agape – che riluce nel comportamento dei padri più anziani durante il mattutino: la loro riverenza nei confronti della Chiesa, della liturgia, dei loro predecessori, i piccoli gesti di tenerezza per gli altri monaci, i novizi. Il deserto, nella sua durezza, è il complemento esterno dell’indifferenza che l’amore richiede».

I monaci che Atkins ha incontrato – lo sottolinea lui stesso più volte – si rifanno direttamente alla tradizione dei Padri e delle Madri del Deserto: quegli anacoreti (uomini e donne), che fra il IV e V secolo si inoltrarono nelle solitudini del deserto egiziano per interrogarsi sui propri peccati e chiedere a Dio la grazia della salvezza. Sfogliando uno dei tanti apophthégmata (cioè “detti”, “sentenze”) che ci hanno lasciato, possiamo leggere ad esempio: «Abba Alonio disse: “Se l’uomo non dice nel suo cuore: “Io e Dio siamo soli al mondo”, non avrà riposo”» (da: Detti editi e inediti dei Padri del Deserto, ed. Qiqajon, 2002). Mistero abissale di un simile detto, dove la mia solitudine si rispecchia addirittura nell’inconcepibile, straziante solitudine di Dio; e proprio in quel rispecchiamento trova la pace, il riposo. O ancora: «Abba Poimen disse: “Se sei silenzioso, troverai riposo in qualunque luogo abiterai”». E di nuovo: «Abba Poimen disse: “Qualunque pena ti giunga, la vittoria è tacere”» Forse perché in quel tuo silenzio potrai avvertire il Silenzio di Dio? Forse perché scoprirai, in spirito, che tale Silenzio di Dio è già il germe della sua Parola di grazia e di salvezza?

Già la tradizione ebraica, ancor prima di questi eremiti egiziani, sapeva che proprio nel deserto Dio si rivela, donando al popolo di Israele le tavole della Legge, o meglio, della Testimonianza. Come dire che Dio parla da un silenzio portato fino all’estremo, e in questo silenzio “scrive” per il suo popolo i cosiddetti Dieci Comandamenti. Infatti le tavole della Testimonianza sono state «scritte con il dito di Dio» (Esodo 31,18). Il che ci svela un vertiginoso collegamento fra silenzio, deserto, Parola divina, Scrittura di Dio. E proprio su questo collegamento ha poi lavorato senza tregua un poeta sommo come Edmond Jabès (Il Cairo, 1912 – Parigi 1991). Ascoltiamo anche lui per un istante: «Al deserto segue il deserto, come alla morte la morte». E ancora: «Il silenzio della Parola di Dio è l’infinito silenzio delle nostre parole quotidiane e destituite di senso». Infine: «“Sai”, diceva, “che cos’è che, nel deserto, dà talvolta ai granelli di sabbia un colore grigiastro? – Non è l’approssimarsi della notte, ma quel velo di cenere che ricopre i nostri libri senza domani”» (da: Edmond Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, trad. di Antonio Prete, Feltrinelli 1984). 

Dunque vi è una lunghissima linea di pensiero – citata a più riprese da Atkins – che vede il silenzio estremo del deserto come fonte originaria di ogni parola e al tempo stesso come abisso finale dove ogni parola si sprofonda, per ritornare nel silenzio. E proprio qui, procedendo di deserto in deserto, è possibile però il vertiginoso incontro con una pace senza nome… Ma la cosa interessante del libro di Atkins, e del suo metodo di scrittura, è che lui – pur facendo riferimento a questa tradizione apofatica, che racchiude la parola umana entro una dimensione desertica di silenzio estremo – non fa totalmente propria questa tradizione: la tiene sì presente, ma non vi si identifica. E se ne tiene a relativa distanza non solo perché non è un eremita cristiano e nemmeno un poeta alla stregua di Jabès, ma innanzitutto perché si muove come un giornalista, uno scrittore curioso dei fatti, attratto dalla varietà delle storie umane e dagli innumerevoli, concreti aspetti del mondo naturale. Così Atkins non si accontenta di celebrare il deserto come grande Nulla, ma poi va a vedere concretamente di cosa è fatto questo nulla: i diversi colori delle sabbie, i tipi di pietre e di cespugli, le variazioni di colori e di clima da un deserto all’altro…

Da questo punto di vista, la sua scrittura è più simile a quella di un viaggiatore attento alle cose, come Alberto Moravia: uno scrittore ironicamente e lucidamente capace di descrivere i fatti, come pure i propri pensieri su tali fatti, nel momento stesso in cui li vede. Prendiamo ad esempio questo passo, che leggiamo in Lettere dal Sahara: «Il viaggiatore inesperto, alla fine della sua pista, si troverà tutto ad un tratto nel nulla assoluto, cioè in un vallone di sabbia gialla e intatta, tra dune anch’esse gialle e intatte che, con i loro contorni puri e luminosi, sembrano simulare i glutei, le anche, le spalle di una gigantessa addormentata. Un turbine cilindrico e trasparente di sabbia, leggero e volatile come fumo, si leverà improvvisamente e, zufolando sommesso, prenderà a correre a zig zag per il deserto». Ecco, la scrittura di Atkins si avvicina a questo stile preciso e asciutto, capace con ironica intelligenza di descrivere le cose così come ci si fanno incontro nella loro concretezza di cose, senza mai astrarle fino a contornarle con un alone mitico o metafisico. 

Ed è proprio questa aderenza alle caratteristiche geografiche e storiche dei singoli deserti ad avere spinto Atkins non già verso i deserti più puri, più sublimi, più incontaminati – là dove facilmente avrebbe potuto cantare il mito deserto – bensì verso quelle aree che, pur essendo aride e disabitate, sono state negli ultimi anni contaminate, degradate, deturpate dall’intervento umano. Ecco perché, ad esempio, Atkins è andato proprio nel Gran Deserto Victoria dell’Australia: perché lì, negli anni Cinquanta e Sessanta, i britannici condussero ripetuti esperimenti nucleari, con esplosioni radioattive i cui inquietanti lasciti s’incontrano ancora oggi: scalcinati, desolati, avvelenati residui atomici che Atkins descrive con indignata precisione. Ed ecco perché si è poi spinto fin nell’Aralkum del Kazakistan. Perché quel deserto è in gran parte prodotto dal forsennato, dissennato prosciugamento dell’immenso lago Aral, le cui acque sono state utilizzate per deviarle verso inquinanti piantagioni di cotone. E questi i risultati: 

«La strada si fece di colpo malagevole, una pista di fango e pietre. Serik fece una sosta per fumare accanto a un campo di rifiuti: scarti di cucina, materiali da costruzione, mobili rotti, vestiti, ossa, le ubique, interminabili bottiglie di vodka dell’Asia centrale. Era la discarica della città, e ovviamente era lì che cominciava il deserto – un deserto considerato anch’esso una gigantesca discarica». 

Questa è l’amara, cruda lezione dell’importante libro di Atkins: non esiste più alcun luogo della Terra che ci permetta l’esperienza di un puro incanto. Anche inoltrandosi nel Quarto Vuoto non incontriamo più quel “deserto assoluto”, quel paneremos, di cui i primi monaci egiziani andavano in cerca, e che era perdurato intatto fino a pochi decenni fa. Ancora negli anni Settanta, Alberto Moravia poteva attraversare le dune del Sahara incontrando solo le «tende brune di poche famiglie tuareg sparse, con misteriosa casualità, in un punto qualsiasi del deserto». Mentre ora queste stesse splendide, sublimi dune sono percorse da truci milizie armate e sordidi trafficanti di migranti, come ci mostra il drammatico film Io capitano, di Matteo Garrone. Un film che, inaspettatamente, entra in profonda risonanza con il libro di Atkins, e viceversa. Vale la pena leggere l’uno e vedere l’altro, in sequenza. Impareremo qualcosa di più sul difficile mondo di oggi. E anche sulla speranza, che continua a splendere, malgrado tutto, di là dagli orizzonti di sabbia. Perché Atkins e Garrone rimangono uomini di speranza: sono capaci di mostrarci l’insistenza della speranza anche là dove sembrava perduta.      

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