Un saggio di Stefania Zuliani / Esposizioni: istruzioni per l’uso
“Quello che sta emergendo in questi anni è che effettivamente il sistema sta diventando il vero protagonista, il vero elemento di drammaturgia: gli artisti trovano spazi, ma trovano spazi all’interno di una costruzione che è sempre di più appunto la fiera, il mercato, l’istituzione. Il sistema sta assumendo un’importanza maggiore della produzione stessa”. Questa considerazione di Antoni Muntadas, un artista che trae il suo materiale da un vigile scandaglio dei meccanismi sociali e politici contemporanei, tratteggia la condizione del “mondo dell’arte” del nostro tempo: un sistema che partecipa di alcune delle logiche culturali profonde del tardocapitalismo – a partire da quella “economia creativa” fatta di velocità e continue reinvenzioni e ibridazioni che innerva i processi di consumo e i connessi meccanismi di notorietà, obsolescenza, ecc. –, che intrattiene un’ambigua relazione con il potere, istituzionale o finanziario (ammesso si possano distinguere), ma che coltiva nondimeno una distanza, una volontà di salvaguardare le proprie interne ragioni, la propria, problematica eteronomia, che ha sin qui resistito agli assalti di quanti – sociologi, attivisti, critici tradizionalisti, radical thinkers – ne hanno variamente stigmatizzato le presunte depravazioni, l’irrilevanza culturale, o predetto l’inevitabile estinzione.
Questo panorama è il recalcitrante oggetto di indagine di un recente saggio di Stefania Zuliani, Esposizioni. Emergenze della critica d’arte contemporanea (Bruno Mondadori, pp. 136, € 12), che affronta le complesse relazioni tra istituzioni museali, teoria e critica d’arte, incuneandosi nell’interstizio tra campo artistico e campo sociale senza cedere alla tentazione di annettere il primo al secondo, rischiando di rendere la questione dell’opera d’arte, del suo spazio discorsivo ed esperienziale, superflua o pateticamente attardata. Se il punto di vista è risolutamente attuale – ricorrono nel libro riferimenti a mostre, eventi e testi recentissimi –, si tratta infatti per Zuliani non tanto di costruire un’ennesima tassonomia – l’inevitabile elenco-di-cose-scritte-viste-pensate in cui si manifesta la tipica ossessione antologizzante della nostra epoca –, quanto di far emergere e interrogare la problematicità di figure e istituzioni che del “mondo dell’arte” costituiscono oggi di fatto l’ossatura fondamentale: il museo e il curatore.
A questa figura in particolare, “un artista radicalmente secolarizzato”, secondo l’acuta definizione di Boris Groys, cioè privato del residuo potere “magico” dell’artista, la trasformazione delle cose inerti in opere vive, Zuliani dedica alcune delle pagine più efficaci del libro, mettendo in luce l’irrisolto groviglio, teorico quanto pratico, in cui si muove l’azione curatoriale, soprattutto quando esercitata direttamente dagli artisti. La figura del curator sembra in effetti riassumere in forma emblematica la condizione indebolita dell’opera d’arte, la sua implicita dipendenza, secondo la classica lettura postmodernista, da un sistema istituzionale – l’esposizione – che la assoggetta alla propria drammaturgia, al suo disegno di autoperpetuazione, nel momento stesso in cui diviene l’essenziale veicolo del suo potenziale critico. Molto interessante appare da questo punto di vista la lettura che il libro offre di diversi casi di curatela da parte di artisti, ad esempio di celebrità postmoderne come Jeff Koons e Maurizio Cattelan, dove il progetto curatoriale, per quanto intelligente, ironico, spregiudicato, appare consustanziale a ciò che potrei chiamare il potere di conversione, il lavorio minutamente, implacabilmente disumanizzante del monismo capitalista contemporaneo.
La pratica della cura rivela insomma una fondamentale contraddizione tra l’indispensabile aspirazione (come condizione di “autenticità” dell’intera esperienza artistica) a un rinnovamento del potenziale estetico dell’immagine, ad esempio decostruendo lo stesso dispositivo espositivo e i criteri ideologici e narrativi che lo sottendono, e l’inevitabile effetto di asseverazione che ogni “cura” esplica nei confronti del sistema di riferimento entro cui si muove e prende senso. È la ben nota aporia postmoderna: se ogni forma critica finisce per rafforzare il sistema che cerca di modificare o abbattere, dove si situerà il potenziale di resistenza, il guadagno di esperienza, la differenza che l’opera tenacemente incarna? Una questione, come sottolinea a ragione l’autrice, che interroga direttamente il ruolo dell’arte nella società attuale e si proietta dal piano estetico a quello più propriamente politico.
Il libro di Stefania Zuliani Esposizioni. Emergenze della critica d’arte contemporanea viene presentato al MACRO - Museo d’arte contemporanea di Roma il prossimo 22 novembre alle ore 18.