Giuseppe Lupo e Alessandro Zaccuri / Scrittori e alberi

19 Giugno 2021

“Da sempre le piante esercitano una profondissima fascinazione sull’attività creativa degli scrittori. Con poche eccezioni, si potrebbe dire che ognuno di loro abbia legato a un albero, reale o immaginario, una parte spesso rilevante della sua opera”. Così è presentata la collana Bosco di scrittori, di Aboca Edizioni, fondata sul mandato assegnato agli autori di costruire e raccontare mondi narrativi a partire da una pianta totemica, da una suggestione botanica, dall’ammirazione per l’intelligenza vegetale e le sue “straordinarie qualità sistemiche”.

 

Così, a partire dall’etimo della parola libro, che rimanda al latino liber, la parte più cedevole e interna della corteccia degli alberi così come il greco byblos in origine designava la lamina fibrosa delle piante, gli scrittori sembrano inevitabilmente invischiati nella linfa che scorre negli alberi e le storie che vi crescono intorno ne conservano leggerezza, fibra e vigore.

Gli alberi stilizzati che crescono sulle copertine sono metafore di radici affondate nella propria terra, di un restare che prende le forme della resilienza e della memoria, del germogliare e disperdere i propri fiori nel vento, spargendo un po’ di sé in altre terre ed eternandosi in altre vite, del farsi materia viva, che si trasforma, che si fa tavola, carta, diventa veicolo di immagini e parole, così come nei romanzi di Giuseppe Lupo e Alessandro Zaccuri.

 

Giuseppe Lupo, Il pioppo del Sempione

 

L’albero nel romanzo di Giuseppe Lupo è un pioppo che cresce al centro della corte dei Villoresi, lungo la statale del Sempione, nella pianura lombarda, tra Nerviano e San Lorenzo di Parabiago.

La voce narrante nel libro è il supplente di un corso serale per stranieri e il pioppo fa la sua comparsa in classe, davanti a un gruppo sparuto di studenti, una manciata di lingue diverse che si incontrano in un italiano incerto e abbozzato, dentro un’aula fredda, in un edificio austero con intorno l’inverno padano. L’albero lo porta in classe nonno Paplush, un loquace vecchietto ribattezzato con il nome che hanno le infiorescenze dei pioppi nel suo dialetto sconosciuto. 

In quelle sere gelate il professore raduna di fronte a sé vite diverse e lontane, un crogiolo di culture, lingue e tribolazioni, che inciampano sui verbi italiani, impastano parole nuove con altre più familiari e si ritrovano l’un l’altra nelle aporie, negli spazi del linguaggio rimasti disabitati.

Chi li tiene insieme, però, non è la scuola, né l’attestato per il permesso di soggiorno a fine corso, bensì un vecchietto capitato lì per caso, perché non ha altro luogo in cui andare, che si porta dietro il ricordo di inverni, primavere e fioriture passate e il desiderio di raccontarle.

 

Paplush si presenta in classe e chiede il permesso di entrare, poi raccoglie l'attenzione di tutti e inizia a ricomporre un’autobiografia accidentale ma organica, come Sherazade, di sera in sera costruisce una storia fatta di episodi che gravitano intorno al tronco solido e maestoso del pioppo al centro della corte dei Villoresi, fulcro magnetico che ha attratto anche lui da una terra senza nome. Il pioppo vede passare giorni e stagioni in una Lombardia remota, di bruma, freddo e fatica, che sembra sprofondare in un passato ormai distante e allo stesso tempo così familiare per quegli studenti che sono anche operai e immigrati, come lo era Paplush nel tempo del suo racconto.

 

Come in Le mille e una notte la storia riprende ogni sera e ogni sera resta sospesa, con gli strascichi del racconto raccolti dal titolo del capitolo successivo. Pezzo per pezzo, si ricostruiscono le vicende del lavoro in fabbrica, degli scioperi, degli amici sopravvissuti al tempo e alla fatica, delle corse di biciclette lungo il serpentone del Sempione, delle serate alla locanda della Pesa, della locandiera Rossana e di una storia d’amore che ha i tempi lunghi e la pazienza dell’albero intorno a cui nasce. La storia di Paplush parla dell’aver scelto proprio quel posto tra tutti gli altri, un posto difficile, di nebbia e zanzare che salgono dall’acqua scura del canale e dell’averlo scelto perché ci ha ritrovato un pioppo sotto l’impalcatura delle montagne.

 

Le storie creano una bolla in cui gli studenti si ritrovano sospesi; stanchi, lontani dalla fatica del giorno, abbandonano volentieri l'astrattezza delle regole grammaticali italiane per entrare docilmente dentro le storie che quel nonno senza nipoti ricompone, storie di amicizia, di amori, di rimpianti: “le memorie che sentiamo raccontare hanno il potere di appianare le differenze perché è come se avessero ritrovato una voce comune, quella del tempo, che parla in ognuno di noi, ciascuno con le nostre lingue”.

 

Da che esiste l’essere umano, sono le storie a tenerci insieme, sembra voler ricordare il romanzo, è quello che fa la letteratura, sembra voler specificare il professore, che cerca senza troppo successo di srotolare dentro quelle sere assonnate la trama dei Promessi Sposi, ma inevitabilmente si arrende di fronte alla ben più grande abilità affabulatrice di nonno Paplush. La sua materia è la vita, gli ricorda un suo studente, e a raccontarla nonno Paplush è più bravo. La scuola è un riparo, “un luogo dove parlarci”, “l’aula  ci ha raccolti per un inverno, ha radunato le nostre vite come in una inaspettata e malinconica comunità, africani, mediorientali, albanesi, tutti qua dentro a cercare rifugio dal freddo e da quel che sta intorno”, e intorno c’è una guerra che traccia confini e fazioni nemiche, c’è la vita che continua in terre lontane e anche la morte, che arriva al telefono da spazi remoti e scava distanze ancora più profonde tra il luogo in cui si è e quello in cui si vorrebbe stare.

 

E piano piano la vita fuori rosicchia gli angoli di quel fragile spazio di sospensione e racconto e va a riprendersi le esistenze che le sono dovute, le strappa a quell’improbabile raduno di sconosciuti, così gli ascoltatori di Paplush si disperdono, risucchiati dalle loro vite difficili, spariscono nel nulla, uno alla volta, finché l'aula rimane quasi vuota e la voce che racconta non ha più nessuno ad ascoltarla.

Ma quando si spegne la voce che narra, le storie rimangono vive e hanno il potere di riunire i fili delle vite che hanno intrecciato, si riaccendono in chi le ha raccolte, come infiorescenze dei pioppi al primo soffio di vento, posati e attecchiti su una terra nuova.

“Per nonno Paplush il racconto del pioppo ha un’importanza strategica perché ha a che fare con il tempo”, così il soffione secco, conservato per trent’anni, ricorda la primavera in cui l’albero si è risvegliato da un sonno innaturale, dopo aver attraversato immobile i lunghi inverni padani rinunciando a schiudersi e sbocciare.

 

L’albero ha a che fare con il tempo ma anche con la memoria: come dice Amin, “nonno Paplush ci stava regalando un po’ della storia di Rossana perché la memoria deve spargere fiori come il pioppo”, come in una primavera di vento. Se non che la pianura lombarda di primavere ventose non ne vede spesso, e forse per questo, ribadisce Amin, la memoria non l’abbiamo più.

Il pioppo che ha attratto nonno Paplush dalla sua terra sconosciuta, così come la Lombardia ha attratto quei lavoratori da paesi lontani, si fa testimone di una memoria collettiva, una sentinella lungo il Sempione, la direttrice che fugge in mezzo alla campagna e attraversa il tempo, dagli anni di nonno Paplush, con la modernità che accelera lungo la statale accesa di neon e luci di auto-rimorchi, fino a oggi e alle file di camion che da Milano arrivano in Francia. Il finale sembra voler dire che le storie, se condivise, non muoiono, fecondano nuove storie, si fanno memoria, e le vicende di Nonno Paplush, che ha nel nome l’eredità di questa vocazione all’impollinazione, che ha scelto quel luogo perché c’erano il pioppo e il Monte Rosa che teneva su il cielo, suggeriscono un modo generoso e gentile di vivere la vita, di scegliere il luogo in cui fondare la propria storia e prendersene cura, e da lì trovare il modo per tramandarla.

 

 

Alessandro Zaccuri, La quercia di Bruegel

 

Dell’albero che dà il titolo al romanzo di Alessandro Zaccuri non si sa invece dove affondi le radici, né se mai sia esistito davvero esattamente così, come viene eternato dall’opera d’arte che lo contiene. È fibra di legno sopita nella tavola dipinta, ma è anche tronco stortato dal tempo con i rami che si piegano dentro un paesaggio innevato del rinascimento olandese.

Il protagonista ci si imbatte a Bruxelles, dentro una storia diversa da quella che stava cercando.

È il 22 marzo del 2016, due ordigni esplodono all’aeroporto di Bruxelles-National, uno in un vagone della metropolitana di Maelbeek, chi narra si trova bloccato tra la hall e il bar di un Best Western qualunque, in un limbo d’attesa, mentre nei televisori scorrono immagini della città sotto attacco, resoconti di paura e sgomento. 

Chi racconta è un autore, un artigiano della narrazione che vive costruendo storie su misura per lettori che vogliono stupirsi solo di ciò che già conoscono e che firma, con un ricco repertorio di pseudonimi (“Pessoa del luogo comune”), libri che si scelgono per la copertina, biografie romanzate d'artisti famosi, selezionati in base alla notorietà dei dipinti che dalle vetrine delle librerie occhieggeranno ai lettori come dalle tazze e dalle magliette nei bookshop dei musei.

 

A Bruxelles ci arriva sulle tracce dei Bruegel, Pieter il Vecchio e i suoi figli, oggetto della sua prossima opera, ma la strada verso il pittore olandese devia dal progetto editoriale e s’incaglia in una storia meno scontata grazie all’incontro con Matilde, un’altra italiana sospesa nell’aria di tragedia e d’attesa che riempie gli spazi comuni dell’albergo brussellese. Al bancone del bar, tra le sue carte spunta una monografia su Bruegel il Vecchio, la stessa Taschen su cui anche il protagonista da settimane prende note per il suo libro. Dentro quel libro c’è l’albero che dà il titolo al romanzo e c’è anche la storia di Massimo.

Matilde si racconta senza reticenze, parla del suo lavoro, dice di studiare il cervello, “quello che c’è dentro e quello che a volte manca”: “facciamo conto che ci sia un modo in cui il cervello funziona correttamente o, meglio, dovrebbe funzionare” – spiega al suo interlocutore. – “Ce ne sono moltissimi, invece, in cui funziona in modo difettoso, e sono tutti diversi tra loro. Ogni errore rivela qualcosa del quadro complessivo”.

 

Per rintracciare le variabili del trauma, circoscrivere il difetto e identificare il corto circuito, Matilde usa le immagini e ricorre alle arti figurative, studiando la reazione alla visione per delimitare il disturbo di percezione, riconoscerne i sintomi e risalire alle cause: “non esiste un modo giusto per vedere un’immagine. Ogni riproduzione comporta una distorsione della realtà. Un dipinto, una fotografia è sempre lo sguardo di qualcuno, nel quale lo sguardo di qualcun altro può o non può riconoscersi”. Illustrando il suo metodo Matilde introduce la storia di un suo paziente che si prende subito tutto lo spazio del racconto: Massimo è un manager di successo che, poco dopo essere rimasto vedovo, finisce in coma a causa di un incidente sulle piste da sci e ne esce con un problema cerebrale di difficile identificazione: “tutto gli si confondeva, alla vista e nella mente. Le cose diventano una cosa sola, una cosa strana, aveva provato a spiegare durante la prima seduta con Matilde”.

Di fronte ai suoi occhi le immagini perdono i contorni, le parole si scompongono, il mondo diventa una cosa irriconoscibile e, in assenza di riconoscimento, non ci sono stupore né meraviglia, solo spaesamento e paura.

 

Massimo se la cava bene con le cose che stanno al loro posto, conosciute e prevedibili, quelle che rimangono dentro i loro confini; l'imprevisto, invece, sbiadisce allo sguardo, si cancella in assenza di mezzi per elaborarlo.

Il romanzo si sviluppa in questo racconto nel racconto, l’autore vi posa al centro un incontro, in quell'incontro una storia e in quella storia un dettaglio, un albero. Nella caligine che gli si addensa davanti Massimo riconosce solo quello, dentro la riproduzione di un’opera proposta da Matilde, “L’Adorazione dei magi”, nell’angolo superiore a destra, incorniciato da una piccola feritoia sul nulla incastrata in un edificio diroccato. La finestra stessa sembra esistere solamente per consentire l’apparizione di quel tronco incerto, di quei ramoscelli tentennanti. La finestra ricorda che non tutto è già stato visto, non tutto è stato rivelato. La realtà ancora non ha smesso di essere reale, di mostrarsi nella sua incompiutezza”. L’albero è la chiave del riconoscimento, il dettaglio che affiora in superficie e si fa appiglio nel disordine di una realtà offuscata, un dettaglio che fa luce: “Con il tempo mi sono persuaso che Massimo avesse visto l’albero da una prospettiva diversa rispetto a quella in cui si trova lo spettatore del quadro. Non era stata una scoperta, era stato un riconoscimento”, il riconoscimento che è presupposto dello stupore.

 

Da lì in poi, Massimo riconoscerà solo alberi, solo nelle opere di Bruegel, solo uno per volta, alberi che crescono in scene confuse, dentro mondi di macchie sfocate dai contorni tremolanti e imprecisi.

Sono arbusti storti nati nello sguardo di un artista, tradotti in segni su tela, riprodotti in copie su monografie a colori e da lì affiorati dalla confusione dell’immagine pittorica e raccolti dagli occhi di Massimo, filtrati dalla sua mente annebbiata e ricaduti su un foglio, in mezzo a macchie e forme indefinite, unici dettagli identificabili e a fuoco anche per lo sguardo dell’altro, di chi lo guarda guardare e lo riconosce: “ma poi ho pensato a lei, dottoressa. – dice Massimo. – Mi sono reso conto che non basta che io veda qualcosa, ci dev’essere qualcun altro che mi vede in quel momento. Che mi guarda mentre guardo, non so se mi capisce. Altrimenti non ce la faccio più a guarire”.

 

E il guarire, oltre alla possibilità di ritornare a ricomporre i pezzi restanti del puzzle, porta con sé la possibilità di conservare uno sguardo capace di vedere oltre la superficie opaca delle cose, riconoscerne l’essenza, il nucleo duro che resiste, come la quercia. Se la quercia è l’unica cosa che nei dipinti conserva forma e solidità è perché rappresenta l’essenza materica del legno, l'albero è materia su cui l'artista disegna, la parte solida di una realtà che evapora di fronte allo sguardo. Osservare è domare la materia. “Avessi seguito il mio istinto e le mie convinzioni, avrei proclamato che l’unica maniera per dimostrarsi fedeli al significato di un’esistenza consiste non nel ricalcarne i contorni – come si faceva un tempo da bambini, appoggiando al vetro della finestra l’immagine da riprodurre e seguendone il profilo con la matita su un altro foglio, traballante e sovrapposto al primo – ma nell’individuare il nucleo, il centro, la ferita da cui tutto ha origine, e poi stravolgere le cronologie, differire gli eventi, travisare le situazioni pur di costringere quella vita a confessare la propria pena”, così parla il protagonista e così fa l’arte, semina dettagli luminosi, feritoie da cui si intravede il nucleo, da cui traluce l’essenza dura delle cose. 

 

Così fa anche Bruegel, e se i dettagli sono indomabili, come spiega Matilde, ciò che interessa l’artista è “l’ostinazione della materia, la stessa sostanza grezza che rende imperfetti e memorabili i volti dei suoi contadini, dei bambini che giocano nelle strade del villaggio, delle figure sfuggenti che festeggiano o si danno battaglia”. Sparge segnali nascosti per occhi capaci di coglierli, di riconoscerli “in quei disegni prodigiosi nei quali ci si perde, tanta è l’esattezza e la sovrabbondanza delle figure, eppure qualcosa rimane sempre isolato nella memoria: un mostro che spunta beffardo dalle acque, il profilo astratto di una città, il fusto di un albero che sale incerto, come se dovesse spezzarsi e soccombere, e invece attecchisce, butta gemme, sfida la malasorte, trionfa”.

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