Attualità di Lacan
Ogni lettore che si rispetti lo sa bene: ci sono libri che si limitano ad aggiungere semplici didascalie e libri che producono concatenamenti, aprendo nuovi e imprevedibili orizzonti di ricerca. Questo secondo è certamente il caso di Attualità di Lacan (a cura di Alex Pagliardini e Rocco Ronchi per Textus edizioni, 2014), un libro imperdibile per chi non sia allergico a quella fondamentale passione dell’essere che lo psicoanalista francese definiva ignoranza.
L’ignoranza è, non a caso rispetto a ciò che ci interessa sottolineare, quella passione che secondo il Lacan del Seminario I si situa sulla linea di giunzione del simbolico con il reale e che, in quanto terzo che introduce un’asimmetria tra amore e odio, fonda l’atto analitico. D’altronde, quando si prova a ricercare la verità in quanto tale, come negli intenti di questo volume, è, statene certi, perché ci si situa per intero nella dimensione appassionata dell’ignoranza (del desiderio di sapere), cioè proprio dove simbolico e reale confondono i loro confini.
Attualità è una parola che si declina al singolare o al plurale? In questo caso, nel caso di questo testo, direi al plurale. Ci sono infatti delle specularità, dei giochi allo specchio tra i diversi, tutti eccellenti, contributi, perché qui vengono supposte e proposte diverse attualità di Lacan. Alcune differenti argomentazioni che rivendicano una per una un’attualità dell’insegnamento lacaniano. I saggi che vengono presentati non sono infatti tutti interni alla stessa prospettiva “etica”.
Non si traccia qui una sola etica della psicoanalisi. E però al contempo il filo rosso c’è e si vede, in quanto tutti i contributi accolgono senza timore la necessità di rileggere Lacan di fronte allo strafottente smarrimento contemporaneo dei sessi, di fronte alla crisi della presenza del soggetto sociale, di fronte al crollo del centripeto sistema solare della modernità.
Il gioco di specchi, in altre parole, si articola, per chi è esperto di lessico lacaniano tra l’Uno e l’Altro. Il gioco che si gioca in questo libro è ingaggiato negli spazi di aderenza, sugli interstizi, che il simbolico, l’immaginario e il reale circoscrivono nel tentativo di tenere assieme il parlessere che abita il nostro tempo presente.
Ma cosa significa evocare un’attualità? A mio avviso l’attualità è sempre una politica. Un modo particolare di usare un valore, una dimensione che interroga l’orientamento e la cogenza normativa dell’agire e del fare. Dunque il titolo del volume, in questo senso, conterrebbe un’invocazione ad agire, un fare atto (il contrario di fare tesoro) dell’insegnamento di Lacan. E non è poco, visto che lo stesso lacanismo si presta oggi sempre di più a divenire chiacchera per dissaperi (concedetemi questo neologismo) accademici o più banalmente festivalieri.
Nella prefazione all’edizione americana de L’anti-Edipo datata 1977 Michel Foucault aveva tracciato i bordi di quell’ontologia dell’attualità che, in guisa di etica del soggetto, ha poi raccolto la posta in gioco (l’en-Je) del suo intero insegnamento filosofico. In quegli stessi anni (non per caso, quindi) Lacan era alle prese con la preoccupazione di rimanere imbrigliato tra le maglie stringenti e sterilizzanti di quelle che qui, in questo suo testo americano, Foucault chiamava “le categorie del Negativo” (Legge, castrazione, mancanza, limite).
L’attualità di Lacan è allora secondo noi rintracciata dagli autori e rintracciabile in generale, prima di tutto, nel movimento che lo psicoanalista deve fare per evitare che una analisi, che sia teorica o clinica, finisca dritta nelle braccia del discorso dell’Altro o ancor peggio del capitalista, che è il discorso che gira, come fosse indiavolato, sul perno della contabilità del godimento, o meglio il discorso “che sacrifica ed esige il sacrificio del godimento” (p. 319). Il capitalismo attuale, quello cognitivo e biopolitico, non sarebbe infatti, come alcune interpretazioni vogliono farci credere, un trionfo del godimento ma, diversamente, la sua incessante produzione sotto forma di merce al fine di sostenere l’accumulazione del capitale.
Per non rischiare di fraintendere la questione occorre allora individuare la sporgenza, il passo avanti, che si produce all’interno dell’insegnamento lacaniano a partire dalla fine dei sessanta. Il passo decisivo è quello affermato da Lacan con il “c’è dell’Uno”, come i curatori sottolineano più volte nel testo, e l’impasse che tale concetto tenta di superare è quella della castrazione (si veda ad esempio p. 318). Il passo avanti è in altre parole quello che Miller (ma tra gli altri anche, con convinzione, Soler) riferendosi a Lacan definisce come il passaggio dall’inconscio strutturato come un linguaggio all’inconscio Reale. Ma questo passo dobbiamo spingerlo avanti con cautela, senza correre. Ne va della stessa attualità di Lacan che qui vogliamo con gli autori del libro sostenere fino in fondo.
A questo fine ci sono due importanti questioni deleuziane (e in gran parte anche guattariniane), che incrociano e risuonano nell’insegnamento lacaniano, che meritano di essere rapidamente riprese per fissare e chiarire questa cautela. La nostra convinzione è che tali questioni irrompano nell’ultimo Lacan, non direttamente o analiticamente ma, diciamo, per sinestesia, per accostamento indiretto, introducendo al suo interno, nel suo stesso cuore (o meglio nel suo fallo), una non sempre netta ma in ogni caso fondamentale soluzione di continuità, una torsione, una piega.
La prima è l’idea che l’inconscio funzioni come una macchina, una macchina desiderante, e non come uno spazio di figurazione/rappresentazione (“L’inconscio come fabbrica e non una scena di teatro”). La seconda riguarda il concetto di intensità. Entrambe le questioni convergono, ci pare, nel mostrarci da un lato l’ampiezza decisiva del passo che il c’è dell’Uno (senza’Altro!), di cui Pagliardini e Ronchi ci parlano insistentemente nel libro, introduce nel determinare l’attualità di Lacan, e dall’altro ad illuminare convergenze teoriche non ancora considerate a dovere che portano Lacan al di là del frantumato e scricchiolante umanesimo del disagio della civiltà freudiano.
Deleuze, nel 1972, impegnato in una accesa discussione sull’appena edito anti-Edipo è lapidario: “L’inconscio non ha un significato, perché le macchine non hanno significati, si accontentano di funzionare, di produrre e di guastarsi, perché noi cerchiamo soltanto come qualcosa funziona nel reale (Deleuze e Guattari, Macchine desideranti, ombre corte, 2012, p. 25). Ancora: “Ciò che noi rimproveriamo alla psicoanalisi è di divenire una concezione religiosa, con la mancanza e la castrazione, una specie di teologia negativa che comporta un richiamo alla rassegnazione infinita (la Legge, l’impossibile ecc..).
È contro questo che proponiamo una concezione positiva del desiderio, come desiderio che produce, non desiderio che manca” (Ivi, p. 28). La rassegnazione infinita è quella che sul fronte della psicoanalisi si chiama passione del sacrificio. “Credo stia qui, nella necessità del sacrificio, l’impasse della teoria della fine analisi nella quale Lacan si trova e che egli stesso afferma in quel “e non faremo un passo avanti” (p. 315). Occorre insomma liberare la psicoanalisi e gli psicoanalisti dalla idea che l’accettazione del godimento dell’Altro (dell’Altro che gode del soggetto) sia la postura cui dobbiamo imparare a rassegnarci.
Questo è un punto che a nostro avviso fa attrito, nel senso che c’è un contatto ruvido e sonoro, tra il Lacan dell’inconscio Reale e della pulsione acefala degli anni settanta e il Deleuze “politico” de L’anti-Edipo. L’inconscio Reale è infatti anch’esso un inconscio produttivo che, come sottolinea Miller, pone l’accento sul senza legge, sul fuori senso, sul c’è dell’Uno, e al contempo mostra con una certa chiarezza il pronunciarsi dell’insoddisfazione di Lacan verso una psicoanalisi che intende rifondare la funzione simbolica del Nome-del-Padre come unico progetto di civiltà possibile.
Il rapporto non scritto tra il Reale lacaniano e la Macchina desiderante è descritto molto bene da Guattari: “Non sono del tutto sicuro che il concetto d’oggetto a in Lacan sia qualcosa di diverso da un punto di fuga, da un sottrarsi proprio al carattere dispotico delle catene significanti”. Questo ci pare un punto decisivo di Attualità di Lacan, anche se per certi versi resta qui non sufficientemente esplorato. È fondamentale nel senso che apre la questione del farsi consistente del soggetto al di fuori della relazione verticale e gerarchica del moderno e della “civiltà edipica”. In sintesi a partire da questo punto si apre lo scenario fantasmatico dell’al di là dell’Edipo come nuova condizione strutturale per la difficile costruzione di nuovi legami sociali basati sul sapere che l’Altro è barrato, che non c’è Altro dell’Altro. Quale domanda sociale è più attuale di questa?
Ecco allora che il nesso castrazione-soggettivazione assume una prospettiva nuova, tutta da rileggere e ricollocare cartograficamente nella grande trasformazione del capitalismo contemporaneo. Una questione che ha a che fare, a nostro avviso, con la generazione non più procrastinabile di un nuovo aperto che implichi la messa in scacco del discorso capitalista e l’urgenza della produzione di un nuovo orizzonte politico dell’essere in comune per dirla alla Nancy.
Il concetto di intensità è inoltre a nostro avviso cruciale per comprendere il registro Reale e di conseguenza l’attualità lacaniana di cui qui si parla. Al contempo però la questione è davvero molto complessa; se non altro perché il Reale, lacanianamente, è in primo luogo ciò di cui non si può dire nulla, e questo nonostante che lo stesso non smetta mai di insistere (di ripetersi) all’interno del mai chiuso laboratorio soggettivo. Il Reale, potremmo dire, è descrivibile solo come un’intensità, è intensità, che è in primo luogo eccedenza, inassimilabilità, sporgenza continua, spinta pulsionale indomabile. Un Reale (o una intensità se preferite) che non si può dire (tanto meno scrivere) ma di cui è impossibile non fare esperienza.
In tal senso l’intensità si può definire anche come una struttura complessa di indiscernibilità tra attuale e virtuale. Un’oscillazione mai risolta tra virtuale e attuale che si infiltra e riempie il corpo del parlessere, deformandolo di motèrialism e traumatizzandolo. Ecco allora che il trauma del soggetto è prima di tutto irruzione dell’Uno, dell’Uno reale come impatto tra significante e vivente: “Inutile ricordare come per Lacan, per certi versi sin dall’inizio del suo insegnamento, il vero trauma stia in questo impatto. […] Mi limito a sottolineare che […] con trauma Lacan intende l’impatto tra il significante Uno e il vivente. […] Bisogna intendere bene questa irruzione perché sta qui la chiave per cogliere la portata del c’è dell’Uno e il ribaltamento che questa provoca alla concezione stessa dell’analisi. Bisogna intendere bene questo passaggio perché proprio qui Lacan è costretto a oltrepassare l’irriducibilità del godimento dell’Altro e della castrazione” (p. 336).
L’intensità è in altre parole ciò che secondo Deleuze rende possibile ogni esperienza sensibile, il campo delle condizioni sub rappresentative dell’esperienza, in quanto ontologicamente intensiva è la materia del reale in sé. Concordiamo quindi con Paolo Godani quando definisce, seguendo Deleuze, il campo intensivo come ciò “che precede ogni organizzazione e che anzi manifesta il reale come ciò che per sua stessa natura è inorganizzato”.
Tommy Ingberg – Get in Line
Ronchi direbbe a tal proposito che occorre un Reale che viene prima, un previo “orizzonte di manifestività”, che situandosi a priori rispetto al nostro incontro con l’ente, renda una esperienza possibile (p. 27). L’intensità sarà dunque “pure molteplicità positive ove tutto è possibile, senza esclusione o negazione, sintesi che operano senza piano, ove le connessioni sono trasversali, le disgiunzioni inclusive, le congiunzioni polivoche, indifferenti al loro supporto poiché questa materia che serve loro appunto da supporto non è specificata in alcuna unità strutturale o personale, ma appare come il corpo senza organi che riempie lo spazio ogni volta che un’intensità lo riempie” (Deleuze e Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, 2002, p. 352).
Ecco allora che il significante assume in Lacan, nel Lacan del c’è dell’Uno, una nuova e materiale consistenza: “Lacan arriva così a sostenere che l’azione del significante, l’impatto del significante sul vivente, non produce tanto castrazione quanto irruzione di godimento. In questo passaggio si compie il ribaltamento dal significante come Altro al significante come Uno”. (p. 328) ma soprattutto qui, in questo ribaltamento, si precisa il concetto di Lacan de lalangue che nella cartografia concettuale che proponiamo segna a nostro parere esattamente il punto di congiunzione sinestetico tra intensità deleuziana e Reale lacaniano.
A partire dal Seminario XX la parola diventa infatti per Lacan il luogo dove si gode. La parola non è trattenuta all’interno della dialettica intersoggettiva del riconoscimento. “Lalingua – si chiede Lacan – serve innanzitutto al dialogo? Niente è meno certo di questo.” Lalangue è un impasto che eccede la dimensione del dialogo e che ha la consistenza singolare del corpo. “Essa designa ciò che è affar nostro, di ognuno”, l’impronta materna sul linguaggio. Infatti, afferma Lacan, il linguaggio sarebbe “quel che si cerca di sapere circa la funzione de lalangue”. Oppure: “il linguaggio sarebbe un’elucubrazione di sapere su lalangue” (Lacan, Seminario. Libro XX, p.139). “Noi parlanti che siamo subordinati alle leggi del linguaggio siamo prima di tutto affetti da Lalangue. Lalangue è ciò che sostiene il linguaggio, come fosse una dimensione precategoriale materna del linguaggio” (Recalcati).
“Questo dire procede solo dal fatto che l’inconscio, essendo “strutturato come un linguaggio” ovvero lalingua che esso abita, è assoggettato all’equivoco per cui ciascuna lingua si distingue. Una lingua fra tante altre non è niente di più che l’integrale degli equivoci che la storia vi ha lasciato persistere”. (Lacan, Lo stordito, in Altri scritti, cit., p. 488). Lalingua è allora rintracciabile in quel corpo dove significante e godimento diventano la stessa cosa. Dove reale e simbolico sono in un certo senso consustanziali, riserva linguistica virtuale e stracolma per il soggetto.
Lalingua lacaniana è dunque a nostro avviso il condensato concettuale della attualità del discorso lacaniano. “In questo passaggio si compie il ribaltamento dal significante come Altro al significante come Uno. In questo rovesciamento sta anche il passaggio dal linguaggio alla lalingua” (p. 328).
Quale è allora, in conclusione, la posta gioco dell’attualità di Lacan? In che modo è possibile istituire un discorso capace di fare legame senza Altro dell’Altro e al contempo acconsentire al godimento? Certamente occorre abbandonare l’idea che il simbolico e il reale si contrappongano e siano l’uno come la possibile bonifica dell’altro. Occorre invece sviluppare una clinica e una teorica che assumano la loro inestricabile prossimità come punto di incandescenza necessario per generare nuovi legami che permettano e di “acconsentire al godimento che si è” (p. 349), e di aprire alla produzione di un nuovo simbolico che prima di ogni altra cosa sia veicolo e temporalità per l’incontro necessario, tutto da prodursi, tra dimensione comune e dimensione singolare del parlessere.