Broggi: “Sì”, una vertigine di parole

9 Ottobre 2024

La scrittura di Alessandro Broggi è una vertigine di parole: il soggetto – il lettore, l’autore, i pronomi che abitano le pagine di un libro, gli oggetti, gli assenti, i morti – si trova immerso in uno stato di distorsione delle proprie percezioni sensoriali, dove prosa, saggistica, narrativa e poesia si mescolano continuamente, cambiando forma e identità, fino a disperdersi in uno spazio privato. E , l’ultimo libro di Broggi uscito per Tic edizioni nel 2024, è esattamente questo: una prosa che prova a contenere la letteratura, e una letteratura che a sua volta prova a sperimentare ogni aspetto del linguaggio per creare una prosa che vada oltre i confini della sintassi, dell’argomentazione, dell’espressione e del grado zero della scrittura.

Per chi si avvicina per la prima volta all’opera di Broggi, spaesamento e straniamento, insieme a un (inaspettato) sentimento di bellezza, sono due (o tre) delle possibili reazioni; e per questo, prima di procedere, credo che sia necessario dare alcune definizioni di massima, o meglio, delle approssimazioni per difetto, data l’indeterminatezza stessa di alcune categorie critiche – che però, anche per i lettori più attenti alle scritture contemporanee, risultano necessarie.

Dunque, seguendo un ordine cartesiano del tutto personale, partirei dalla sede editoriale e dal paratesto: , come dicevo, è del 2024 ed è uscito a tre anni di distanza da Noi, sempre per Tic edizioni, una “casa editrice indipendente, anche da sé stessa”, attiva dal 2011, che “pubblica libri, parole magnetiche e gadget”, per la quale sono uscite, nella collana UltraChapBooks, alcune delle principali e originali voci del contemporaneo: Gherardo Bortolotti – Low (una triologia), Christophe Tarkos (Anacronismo, 2020) e Nathalie Quintane (Pomodori, 2021) – entrambi tradotti da Michele Zaffarano –, Silvia Tripodi, Totem (2022), Giulio Marzaioli, Spin-off (2022) e Marco Giovenale, Oggettistica (2024). 

Nella loro totalità e diversità (ma con un dato in comune: la rottura volontaria dell’orizzonte d’attesa e di ogni aspettativa estetica per i lettori, anche per quelli più agguerriti e aggiornati), queste scritture possono essere definite “di ricerca”, anche se nemmeno gli sguardi più attenti della letteratura scientifica e della cultura militante – Claudia Crocco, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Paolo Zublena, o gli (altri) autori di Parola plurale (2005) – si trovano d’accordo (per metodo, e in alcuni casi per la pratica stessa della letteratura) sulla definizione stessa “di ricerca”. 

Ai fini della nostra lettura, questa etichetta potrebbe essere forse maggiormente digeribile se messa a confronto con la sua nemesi dichiarata (o antitesi, a seconda del punto di vista di chi legge, o di scrive): la poesia lirica. Ma anche qui, se accettiamo la definizione di lirica come un discorso legato al piano dell’espressione e dotato di un centro di enunciazione definito (l’io), ci troviamo immediatamente in un vicolo cieco: anche gli scrittori di ricerca, talvolta (o spesso), si esprimono in prima persona, benché l’annullamento del potere enunciativo del soggetto (insomma: della lirica intesa nella sua declinazione post-romantica) sia uno dei punti di forza di queste scritture – senza contare che pure le scritture più tradizionali sono, a loro modo, di ricerca, ma questa è un’altra questione. 

Che dire: come ogni definizione, anche quella di “scrittura di ricerca” è una coperta corta.

Tuttavia, ciò che è più interessante, e fondante, non è tanto l’assenza, o la presenza, dell’io, bensì i modi attraverso i quali la voce del soggetto (o di chi ne fa le veci: una persona, un personaggio, persino un oggetto) è veicolata in un testo di ricerca. Già in Noi, ci avvisava Broggi, “l’ego, in definitiva, non è che un epifenomeno, se non un’illusione”. 

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Nel paratesto di, l’autore espande ulteriormente la nota conclusiva del libro precedente con una serie di citazioni di carattere pronominale che espongono immediatamente il lettore al materiale linguistico del testo: “Tu è un pronome vuoto, che designa un centro deittico occupabile da qualunque destinatario” (Émile Benveniste); “Draw a distinction. / Watch its form. / Work its unrest. / Know your ignorance” (Dirk Baecker); “Io sono Quello, tu sei Quello, tutto questo è Quello, soltanto Quello è, e non c’è nient’altro al di fuori di Quello” (Veda). 

Ma parimenti alla lingua e al linguaggio, Broggi ci guida anche nel materiale immaginativo del libro e nelle sue modalità di percezione: “Posso sedermi e conversare con me stesso? Non sarebbe una cosa interessante? La verità è che lo facciamo di continuo, tutti i giorni, la gente non dà molto peso alla cosa, ma è così, tutti i giorni la gente parla tra sé. Che sto facendo? Perché l’ho fatto? Che cosa mi è venuto in mente? Ho detto la cosa giusta?” (Mike Cahill e Brit Marling); “Quando qualsiasi pensiero insorge, consideralo. Poi, d’acchito, abbandonalo” (Vigyan Bhairav Tantra); “Non c’è realtà al di là di ciò che definisci che sia: tutto è immaginazione” (Frase ascoltata a un satsang); “A che cosa devo rispondere?” (Rafael Spregelburd); “Pensi di essere completamente sveglio?” (Milton H. Erickson).

I libri di Tic edizioni, e in un certo senso anche quelli di Broggi, non hanno un inizio né una fine, e ogni parte testuale – dalla copertina alle epigrafi fino alle note bio-bibliografiche – appartiene a pieno diritto al libro in sé, come se, davvero, questo insieme di citazioni fossero l’inizio di (o una sua costola, un muro portante, una pezza d’appoggio). 

Insomma: linguistica testuale, sociologia, religione, arte, filosofia orientale, dialogismo, teatro, psicoanalisi – alle soglie e dentro il testo, il lettore è già immerso in un mondo dove il principio di identità è immediatamente messo in discussione attraverso l’indeterminatezza dei sistemi linguistici dotati di un centro enunciativo (l’io) e/o di ricezione (il tu), e dove ogni linea di demarcazione sociologica può essere riconosciuta solo attraverso l’esperienza e la percezione degli eventi, con la consapevolezza, però, che ogni esperienza e ogni percezione non può essere più necessariamente garante di una forma di conoscenza né di una presa di coscienza della nostra presenza nel mondo: “tutto è immaginazione”, tra il sogno e la veglia. Del resto, nell’avvertenza tipografica posta alle soglie dello Scioglimento (11-28) – ma , come leggiamo nell’indice, inizia già a pagina 5 – le “virgolette inglesi (“”) e quelle caporali («») individuano due differenti livelli enunciativi presenti nel testo” (8).

Nel mare magnum estetico della raccolta, tuttavia, Broggi fa due importanti distinzioni, che troviamo esibite nella nota conclusiva (119): Altri segni, Tertium quid e Ultimo esempio, poste in coda al libro, sono “prose”; diversamente, (Scioglimento), (Attività), (Riavvio) e (Comunicazione) sono un “mosaico di microtessere derivate, mai segnalate nel corpo del testo: vi è fatto cioè largo ricorso a strategie di reimpiego e ricontestualizzazione, attingendo a modalità costruttive e sfruttando risorse verbali – per lo più sintagmi ma anche frasi, riprese letteralmente o variate – prelevate da fonti disparate”.

Prose vs. non prose, poesia vs. poesia di ricerca, narrazione vs. dialogismo: una ineliminabile dicotomia regge l’intero impianto compositivo di , che mira, in tutta la sua complessità, a raccontare il mondo. Noi, con strumenti simili (la prosa, il mosaico a tessere, il gioco di citazioni, la decostruzione dell’io), eppure ben diverse, raccontava un viaggio dotato di un proprio orizzonte di senso, attraverso una progressione lineare, e priva di cesure, della scrittura, che, come ricordava Andrea Inglese, tendevano al non umano. In , questa progressione è totalmente de-costruita, de-centrata, de-marginalizzata: se seguiamo l’ordine numerico delle singole parti, parte da (Riavvio) (capitoli 1-13), prosegue con (Comunicazione) (14-30) e (Attività) (31-40) e finisce, per l’appunto, con (Scioglimento) (41-53).

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Vista l’anatomia complessiva del libro, il lettore, con un po’ di coraggio (e incoscienza), può scegliere con quale ordine leggere il testo. Le strategie di lettura sono esplicitate (la numerazione per parti) tanto quanto le strategie di costruzione del libero (la continuità discorsiva tra Noi e ). E, si badi, tutto ciò fa parte della poetica di Broggi, secondo un rapporto deliberatamente ricercato tra costruzione e de-costruzione di sé e del mondo (“la fisionomia delle facciate, la calma o l’agitazione dei cortili, e degli individui che frequentano i luoghi e abitano ogni singola dimora”, 71-72). 

All’inizio di (Riavvio), per l’appunto, leggiamo: “Del resto non hai raccontato nemmeno la metà di ciò che hai visto” in “Noi”, come recita la nota a piè di pagina: “qualcosa che stava costantemente per succedere e non era mai la stessa cosa” (51). Ma a questa altezza ci troviamo a nostro modo anche a metà delle quattro parti di , quando il testo, l’io, il sé, o chiunque parli / si rivolga all’io o al sé (cioè alle due voci, una maschile, l’altra femminile, che parlano e si identificano attraverso le virgolette inglesi e le virgolette caporali di fronte al proprio narratore e al proprio lettore), ha appena riavviato la trama discorsiva con cui era iniziato – lo (Scioglimento), la λύσιςc, che altro non è che la risoluzione della tragedia greca: “Dinnanzi a te prominenze si mutano in nervature, nervature sono volte in montanti e connessure: bave e pigmenti, percolati e grane, colori diversi sullo sfondo di altri colori ancora, il repertorio di ciò che esiste scandito nell’alternanza delle forme…” (11).
Ma qui, di scioglimenti, soluzioni o di interventi di un deus ex machina, non c’è alcuna traccia, anzi: “Come avviene per tutto ciò che è vivo: smarrendoti e ritrovandoti a perdita d’occhio come seguendo il filo di un’idea sfuggente…” (11). Anche i destini delle due voci sfuggono al narratore esterno e al lettore: in (Scioglimento), una figura rimane statica, immobile nel proprio “spazio”; l’altra, invece, si lascia andare nell’“acqua” (28). Eppure, alla fine del libro, è un’apostrofe a Maurizio – già presente in Noi, e unico dei quattro personaggi ad aver superato la soglia del 2021 e a rappresentare una delle due parti della totalità nel 2024 – a chiudere, in chiave interrogativa, i quattro tempi di (“Dove sei, Maurizio? Che cosa accade adesso?”, 92).

Dunque, per usare ancora le splendide parole di Broggi: cosa accade adesso

Altri segni si apre con la marca deittica pronominale Io e con “l’inizio della storia” (97). Il Tertium quid è, letteralmente, un terzo elemento che fa riferimento a due enti conosciuti (l’io e il sé delle prime quattro parti di ). Ultimo esempio sembra rievocare formalmente l’inizio del libro con due epigrafi e una volontà narrativa in medias res (“Perché l’esperienza che hanno del mondo è il mondo di cui hanno esperienza. Qualcosa si dispiega”, 115), eppure si chiude con un “cortocircuito […]. Non voglio aggiungere altro” (117). Che interrompe il discorso tra e Noi, di e di Noi.

Tra i molti libri, testi, fototesti, film, opere teatrali, saggistica di ogni genere, arti intermediali (la pagina facebook dell’autore è, a suo modo, un apparato testuale) – insomma: in tutto ciò che concerne l’apparato pre-testuale che di solito viene ricondotto all’immaginario di Broggi, e più in generale a quello delle scritture di ricerca, il nome di Jacques Derrida è quello meno presente. Se c’è un lavoro a cui, materialmente e filosoficamente, (e Noi: i due corpi sono contigui) assomigliano è Margini della filosofia, e la sua distruzione del logocentrismo – dell’io, in Broggi, ma pure in Derrida (l’io disperso tra i margini argomentativi della pagina filosofica), secondo un ribaltamento prospettico neanche troppo implicito, che vuole costruire una metafisica della presenza a partire dall’esperienza come centro deittico (“sei lo spazio che permette alla vita di scorrere, la vita che sospinge il tuo corpo: le concedi di muoversi attraverso te”, 21; “Ama nei sodalizi emotivi l’habitat vibrazionale di un diluvio di presenza”, 107). 

Ciò che serve, dunque, per attivare questo meccanismo, sono i corpi, che prendono forma attraverso la scrittura, in modo tale che il binarismo del libro trovi le sue singole componenti (l’io e il sé, poesia e prosa, narrazione e dialogismo, vita e morte) nella possibilità stessa di poter “concepire le cose” come se non avessero “forma o colore” (13) – o una specifica numeralità diacronica, una sequenzialità narrativa, una voce definita, un’identità, un io. E Broggi, come nessuno della sua generazione è riuscito a fare, parla al lettore di queste possibilità attraverso una riconfigurazione totale del corpo: “io sono di tutti, appartengo a tutti – ciascuno reca con sé qualcosa dell’altro perché l’altro è invariabilmente qualcuno che sta nella sua esperienza” (59). E proprio per questo nuovo concetto di esperienza (di corpi, di identità, di mondi), è, come leggiamo nella pagina dell’editore, puro “unanimismo”, senza un ordine, un inizio e una fine, proprio come il libro che ne ha accolto i concetti, le idee, e le forme.

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