Il design in doppiozero
Francesca Picchi. Il design italiano oltre la crisi. Autarchia, austerità, autoproduzione
Il design è un gran chiacchiericcio, un continuo compromesso, anche un lavoro sporco, un’opera di seduzione e di persuasione occulta che porta chi compra una sedia o un secchio a vederci riflesso un mondo di desideri, significati, valori. La premessa è che tutti possano possedere questi oggetti, perché sono accessibili, costano il giusto. Questo almeno nelle intenzioni, perché il design alla resa dei conti si paga profumatamente. […] Se dobbiamo circondarci di forme gridate da autori che cercano di affermare la propria presenza, allora tanto vale far da sé, e circondarsi piuttosto della propria voce.
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Yosuke Taki. L'albero della progettazione
Oggi, il design non è più uguale alla progettazione. Quanti veri progettisti con queste caratteristiche incontreremmo al Salone del Mobile? Ormai quasi nessuno. È diventata una figura pressoché estinta nel campo del design, in questo mondo industriale e globalizzato. Invece sarebbe proprio la capacità indispensabile all’Umanità (intesa come organismo vivente) per sopravvivere al grande cambiamento in atto nel mondo di oggi.
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Giovanni Anceschi. Fondamenta del design
Adesso il postmodern non è più trendy, e si parla a torto e a traverso di simplicity […] Ma forse la diffusione della Simplicity è un indizio. Di un fastidio crescente per palmette e ziggurat, per coloracci e formine, per bieche semantizzazioni e bambinizzazioni inconsulte.
C’è voglia di oggetti che ci sono ma possono sparire, che fanno quello che devono fare ma non si sbracciano per farsi guardare. C’è voglia di artefatti comunicativi che ci porgano con garbo i contenuti informativi di cui abbiamo bisogno e c’è voglia di interfacce interattive che ci prendano per mano e ci pilotino attraverso il mondo virtuale ma anche attraverso quello fattuale: il labirinto del mondo fisico.
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Marco Belpoliti. Salone del mobile | Designers, il proletariato creativo
Il proletariato creativo è deluso, insoddisfatto, risentito, anche se pur sempre innamorato del proprio mestiere di creatore: una schiera di entusiasti. Tracciare l’identità professionale del designer non era tra i compiti di questa inchiesta, ma un dato colpisce: la struttura tradizionale del lavoro scelta. Pochi usano la forma del co-working, luoghi e spazi dove si condividono spese, competenze, contatti, consulenze. Prevale ancora la logica dello studio, magari in due o tre, come se il lavoro di designer fosse un lavoro solitario e, tutto sommato, gerarchico (il “vecchio” con i “giovani” assistenti).
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Ivan Carozzi. Karl Marx al Salone del Mobile
Con Lapo Elkann e Fabio Novembre
Che cosa è quindi che nel glam design, e grazie a questo fluire di energia, fa si che un tavolo, una panca, una lampada, sembrino altro da ciò che fondamentalmente sono, cioè prodotti del lavoro umano? E' cambiata la natura della merce dal tempo della morte di Marx? Le merci si sono fino in fondo trasformate in una fantasmagoria, cioè in ciò che Marx aveva intuito all'inizio della rivoluzione industriale?
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Ivan Carozzi. Una zebra al Salone del Mobile
La conoscenza si muove da un punto all'altro come polline nel mondo on line e off line del dopo Gutenberg. Senza sosta. E ci attraversa. E allo stesso modo io mi sposto per Milano, flâneur da un quartiere all'altro della Design Week. Cammino fra cloud umane di visitatori – con le loro grandi barbe hipster disegnate a carboncino, le scarpe forellate, le labbra tinte di rossetto sotto gli occhiali fumé – che sembrano intonare un bergamasco, ma in realtà parlano l'accento sordo di un dialetto dell'Est Europa.
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Marco Sironi. Salone del mobile | Pierluigi Ghianda: se fare è pensare
I lavori di Ghianda si affacciano dalla parte di un fare che è già pensiero (e viceversa, intrecciando bene), come depositi di un sentire che è già sempre modo di immaginare le cose: modo di concepirle e farle essere, dando loro la giusta forma e il colore, a partire da quello strato elementare dell’esperienza che è l’attrito del tocco, dell’uso. Innanzi tutto dalla parte di chi fa: di chi conosce i modi opportuni della lavorazione e sa corrispondere alla materia in una forma di dedizione, di assiduità e frequentazione amorosa, che poi resta stranamente presa, come deposta nelle cose, e in qualche maniera si comunica a chi le usa e riscopre.
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Alessio Erioli. Design, controllo e creatività
Focalizzando il discorso all’ambito dell’architettura, programmare sistemi di agenti costruttori significherà in futuro mettere a punto organismi biotecnologici infondendo loro regole di interazione per la creazione di costruzioni o coordinarne i comportamenti collettivi. La ragione più generale sta nel fatto che tutto questo sta già accadendo ed è quindi indispensabile che, come per tutte le innovazioni, se ne esplorino le possibili estetiche, intendendo con estetica non solo ciò che riguarda il “bello” ma soprattutto il territorio di interazione tra forma e struttura, contenuti irradiati e nascosti, implicazioni frutto dell’interpretazione, rielaborazione e propagazione degli stessi, incluse le influenze che ne scaturiscono.
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Marco Sironi. La sindrome dell'Influenza
Dopo una visita al museo del design in Triennale, sesta edizione
A ogni riedizione il museo milanese ripropone e saggia per approssimazioni, con più o meno felice esito e pertinenza, la domanda sul design italiano, che risuona nel bisogno di una ridefinizione o indefinizione continua. E nel far questo ha il grande pregio di considerarlo, il design, non come l’oggetto di un sapere concluso, ma di riproporlo al pensiero come palinsesto, nella sua costitutiva complessità e sporcizia, nel suo travaglio; di lasciarlo talvolta intuire come flusso o energia che a tratti s’addensa in corrente principale, a tratti si frange in rivoli e cede dentro un terreno zuppo e fertile, con vapori di marcite, per sprofondare e quietarsi in polle ancora non guaste.
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Marco Belpoliti. Tutto Sottsass
A seguire la sua molteplice attività si corre il rischio di dispersione, se non fosse che Ettore Sottsass possiede una coerenza assoluta: il perno di tutto resta sempre lui, il suo segno inconfondibile, che s’identifica con la sua persona fisica. Un rapporto strettissimo in ogni momento, anche quando gli capita di esitare, di prendere una possibile tangente che lo può portare lontano da tutto, ma mai da lui stesso: la stella Polare di Ettore Sottsass è Ettore Sottsass. Sempre. L’ironia segna alla pari della malinconia la sua personalità di artista e artefice.
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Marco Biraghi. Ettore Sottsass. Scritto di notte
È la vita la vera protagonista del libro di Sottsass: una vita guardata con rispetto, e a tratti anche con timore (“Io sono amico della gente incerta, perplessa, modesta che cerca di capire e che sempre è nello stato di uno che non ha capito. Sono molto amico della gente che ha paura”); una vita che alla fine dispensa qualcosa, forse proprio ciò che si attendeva, ma non prima di aver costretto a riflettere, a coltivare la propria incertezza. E anche la propria amarezza, i propri dolori. Non prima di avere costretto a riflettere sui propri errori.
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Francesca Picchi. Intorno a Ettore Sottsass
Un conversazione con Andrea Branzi
«Ho sempre pensato al design italiano come a un caso unico perché riguarda il design di un paese senza casa, dove non esisteva una tradizione di tipologie condivise. Per progettare un tavolo o un divano, quindi, bisognava ripartire da zero e quest’attitudine è diventata una caratteristica. È sempre esistita, di fatto, una certa tendenza a una rifondazione radicale: non ci sono mai stati due prodotti che si somigliavano…»
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Giuseppe Varchetta. Sottsass. Tornano sempre le primavere, no?
Mi aveva bisbigliato, come di sfuggita: «Sai, ti fanno l’antologica alla mia età, quella giusta, e poi ti seppelliscono». Da allora ho cercato di cogliere quel tremore, come nell’immagine in cui sorride un po’ restio, e sembra volersi proteggere, non si sa da cosa, con il gesto della mano, o come quando se ne sta appartato davanti a un suo vaso a sognare a occhi aperti, o insieme al vecchio amico Brugola, suo artigiano di fiducia: sembra guardare fuori, lontano.
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Francesca Picchi. Nanda Vigo: l'intellettuale dello spazio
Mi piace pensare a Nanda Vigo come a una sofisticata intellettuale dello spazio, un’esploratrice che conosce il linguaggio dello spazio per eludere quello delle parole, della forma e del colore e addentrarsi soltanto in esso. […] L’essersi collocata nel punto di intersezione tra architettura e arte non le ha permesso di essere incasellata in un profilo riconoscibile, confinandola ai margini. Né architetto. Né artista. Un autore dunque non facilmente riconducibile a una disciplina ferma: architettura, arte, design. Come è noto, ciò che si muove è difficile da fotografare e infatti ho l’impressione che Nanda Vigo sia sempre venuta un po’ mossa.
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Roberto Marone. Intervista ad Alessandro Mendini
«Il modo col quale adesso si riprendono nel design certe forme degli anni '50, '60, '70, è una specie di rapina: si attualizzano forme per riproporle sotto forma di prodotti. È un po', in maniera diversa, quello che accade con i maestri di Cassina: i mobili del Bauhaus – che erano artigianali, un'utopia di industrializzazione, ma di fatto costruiti da fabbri, pieni di fascino – vengono riprogettati completamente con una ingegnerizzazione diversa; un grande falso, compiuto violentando la forza utopica di un progetto quale era stato quello…»
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Dario Mangano e Gianfranco Marrone. Intervista video a Donald Norman
La formula segreta del design è in fondo il buon senso: progettare cose è progettare persone, e viceversa. Non esistono cose semplici in sé, o tecnologie complicate di per sé. Nella storia, nella società, nella cultura ci sono solo relazioni, incontri, dialoghi, conflitti fra cose e corpi, oggetti e soggetti, tecnologie e menti. Dopo aver tanto caldeggiato la semplicità a tutti i costi, valore assoluto cui adeguarsi quasi religiosamente, nel suo nuovo libro Vivere con la complessità il grande psicologo e consulente Donald Norman fa un passo indietro. O forse avanti: occorre vivere perseguendo una troppo umana complessità, senza confonderla con l’inutile complicazione dei cattivi designer.
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Marco Belpoliti. Intervista video a Giovanni Anceschi
«Tutti gli oggetti tendono a venire rappresentati in funzione del loro uso mediatico, anche gli oggetti d'uso. Io non sono assolutamente contrario al fatto che ci sia un aspetto fortemente comunicativo nel design, il problema è quando questo soffoca l'uso.»
«Mi viene in mente un'affermazione del Maldonado di Uhlm, della Metodolatria…: “gli insegnanti (e i designers) non devono portare soluzioni, ma dubbi”. Insorgere vuol dire avere dubbi»
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Francesca Picchi. Ugo La Pietra, il disequilibrista
Il bisogno di coinvolgere gli altri per condividere i risultati della propria ricerca, la presenza di un io narrante (un onnipresente La Pietra che veste caratteri da personaggio di un fumetto) e la dimensione discorsiva resa ancora più accessibile e disarmante attraverso la chiave dell’ironia: sono gli elementi che più mi colpiscono dell’approccio narrativo di La Pietra, perché in questo mi sembra di riconoscere il suo essere architetto e designer anche quando tocca i territori dell’arte o del cinema. Un’attitudine a raccontare storie da condividere e fare proprie che suona come un invito a ripeterle e a praticarle per partecipare tutti alla grande esperienza del progettare…
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Marco Sironi. Sulle tracce/facce di Munari
Insisteva Munari sull’idea di una creatività in cui raziocinio e fantasia si sposano a produrre, a mandare avanti un progetto – tutta diversa dall’estemporaneo manifestarsi del gusto individuale, senza radici, che poi sarebbe il talento degli attuali creativi (un po’ artisti, un po’ stilisti o designer), così distanti dall’insistenza e dalla costanza del cercare.
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Alberto Saibene. Piero Fornasetti. Cent'anni di follia pratica
Nemo propheta in patria: anche se a denti stretti, i quasi coetanei Sottsass, Zanuso, ne ammettono il talento, ma il fatto stesso che sia un decoratore - non un designer, almeno per i criteri 'puristi' dell’epoca- lo pone un gradino più in basso. Fornasetti ne avrà certo sofferto, ma non resta con le mani in mano. Anzi, il problema è proprio l'opposto; a un certo punto della mostra si ha la vertigine dell'horror vacui. Specie quando si guarda il bel filmato ambientato nella casa-studio-museo di Barnaba Fornasetti. A un certo punto un gatto scappa per le scale, si tira un sospiro di sollievo che almeno lui si sia sottratto al furore decorativo, ai soli, alle facce.
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Francesca Picchi. Cini Boeri. Sei oggetti messi in fila per un storia
I casi selezionati da Cini Boeri sono tutti oggetti positivi, intelligenti, felici, che rimandano a una stagione vissuta dentro un sogno condiviso da un’intera collettività: il sogno di vivere dentro un miracolo. Un evento prodigioso calato in una società avviata verso un grande futuro. […] Sono però anche il segno di una nuovo linguaggio formale, libero dalle regole del passato, dalle sue convenzioni, dalle consuetudini, dal suo galateo conformista. In questo senso sono oggetti nuovi.
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Marco Sironi. Castiglioni maestri del design
Abitare per primi lo spazio del progetto: non è quello l’inizio del progettare? Capire se vale la pena rifarlo quello spazio, quell’oggetto, e se vi è qualcosa – al punto dove ci troviamo – che fa intravedere le possibilità di un intervento attivo, un qualche segno che porta verso altre funzioni e preannuncia usi a venire. Bisognerebbe tornare sulla presenza attiva del corpo nel luogo del progetto, in una maniera che differisce dallo studio misurato degli ergonomi: vedere innanzi tutto questo luogo abitato dalla presenza corporea del designer come un teatro dei gesti, dove la messa in scena dell’abitare possibile anticipa l’oggetto e lo spazio a venire, dispone al farsi delle forme, alla dislocazione dei pezzi e delle parti, ed è l’inizio di un progettante pensare-immaginare.
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Marco Biraghi. Tavoli | Cini Boeri
Forse ciò che permette di avvicinare l'attività di Cini Boeri attraverso il suo tavolo sono le due gomme Staedler riposte nella lunga vaschetta di plastica dedicata alla cancelleria. Una è praticamente nuova. L'altra invece è visibilmente consumata: la carta in cui è avvolta strappata, la gomma smangiata, sporca e segnata da scie di grafite. In un mondo dominato da "atti" tecnologici che non lasciano più tracce, e che dunque sembrano non conoscere alcuna indecisione, le gomme di Cini Boeri dischiudono l'eventualità di un lavoro che sa farsi forte dei propri dubbi e delle proprie esitazioni.
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Enrico Morteo. Tavoli | Alberto Alessi
Alla fascinazione fantastica dell’armadio contrapponevo l’esibita chiarezza delle scrivanie, la cui accumulazione più o meno ordinata di carte e di oggetti mi faceva pensare alla struttura lineare del saggio, esposizione a tema in cui le conclusioni sono già implicite nelle premesse stesse dello scritto. Non so se le cose stiano davvero così, ma quel pensiero mi è tornato alla mente guardando il tavolo di lavoro di Alberto Alessi, anima dell’omonima azienda del Verbano, capofila del migliore design italiano…
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Bertram Niessen. Tavoli | Denis Santachiara
Nell’immaginario del design contemporaneo Denis Santachiara è sinonimo di luci al neon, fosforescenze, sfere giocose dai colori carichi. E invece, il suo spazio di lavoro è il più vuoto possibile. Bianca la sedia, bianca la scrivania, bianco il Mac. Bianca anche la luce che arriva da fuori, dal cielo di Milano…
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Alessandro Giammei. Tavoli | Giovanni Anceschi
All'occhio non è concesso di attraversare la superficie del tavolino bianco che Giovanni Anceschi ha disegnato per sé alla leggendaria scuola di Ulm e che i colleghi di una classe della Metallwerkstatt hanno realizzato per lui, né può interrogarlo sui viaggi che, nel corso di quasi mezzo secolo, lo hanno portato come un rigido tappeto volante estetico-funzionale dal continente alla penisola fino in Algeria e di lì ancora a Roma e a Milano.
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Giuseppe Varchetta. Tavoli | Michele De Lucchi
Il tavolo di Michele appare insieme ordinato e disordinato. Michele con alta probabilità abita spazi intermedi, capaci di apprezzare l’aura del dormiveglia (al di là della piena coscienza e del sonno profondo) e la vita brulicante del bagnasciuga (al di là del rifugio della spiaggia e dell’attrazione del mare). Ordine e disordine possono convivere in una prospettiva non oppositiva; il nuovo abita, infatti, il riconoscimento delle relazioni, la propensione alla coesistenza, l’inclusione del terzo.
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