Tutto Sottsass

10 Giugno 2014

Il 18 settembre 1981 Ettore Sottsass e Barbara Radice arrivano in taxi alla Design Gallery di Milano. Sono emozionati e anche un poco terrorizzati. S’inaugura nel pomeriggio la mostra di Memphis, il gruppo di designer fondato nel dicembre dell’anno precedente nel loro appartamento milanese, che comprende Martine Bedin, Aldo Cibic, Michele De Lucchi, Matteo Thun e Marco Zanini. Non credono ai loro occhi: oltre duemila persone occupano lo spazio dello showroom. Dentro ci sono: trentun mobili, tre orologi, dieci lampade, undici ceramiche.

 

La folla dilaga per le strade attorno bloccando il traffico. Ettore e Barbara non capiscono cosa stia succedendo; pensano a un incidente. Nessun evento di design ha mai radunato tanta folla, e soprattutto nessuno sa dire come abbia fatto ad arrivare sin lì tutta quella gente. Sull’invito della mostra c’è un Tyrannosaurus Rex con la bocca spalancata, i denti bianchi ben in mostra e l’occhio vivo. Una promessa suggestiva, quasi una provocazione: Memphis come un dinosauro divorerà il design moderno? Quel giorno di settembre degli anni Ottanta rappresenta il punto culminante nella popolarità del padre e fondatore del neo-movimento, Ettore Sottsass, classe 1917, nato a Innsbruck alla fine della Prima guerra mondiale, madre austriaca e padre trentino, un architetto di cui porterà il nome e cognome, con l’aggiunta dell’inconsueto: Jr. Memphis durerà solo cinque anni, poi Sottsass lascerà il gruppo nonostante il grande successo: oltre quattrocento articoli su quotidiani e riviste.

 

Libreria Carlton, 1981

 

Acclamato e perseguitato come una celebrità, fatto oggetto di un culto nel circolo mediatico, che proprio in quegli anni sta estendendo il proprio campo d’azione dallo spettacolo all’arte e al design, Sottsass deciderà nel 1985 di staccarsi da Memphis, decretando nel giro di poco tempo la fine ravvicinata dei favolosi anni Ottanta al loro primo giro di boa. L’oggetto centrale dell’affollata esposizione, il suo totem, letteralmente, è una libreria: “Carlton”. Opera di Sottsass, composta di piani orizzontali e diagonali, coloratissima, ricorda un altare indigeno, su cui è assisa una struttura simile a un uomo di legno, braccia alzate e gambe aperte; la parte sottostante è costituita da piani inclinati a destra e sinistra, una cassettiera in basso che poggia su un parallelepipedo decorato in bianco e nero. “Carlton” diventerà il mobile tabù dell’intero movimento, anche se chiamarlo movimento non è proprio esatto, perché non ha avuto né lo avrà un manifesto di fondazione, né un programma esplicito, ma solo una campagna promozionale, una cartella stampa, un libro e alcune mostre in rapida successione, segnando l’irresistibile ascesa di quello che qualcuno definirà il postmoderno all’italiana. Il nome Memphis deriva dal titolo di una canzone che sta girando sul riproduttore di casa-Radice nel momento in cui nasce il gruppo: Stuck inside of mobile with Memphis Blues again, cantata da Bob Dylan. “Ok, chiamamola Memphis”, propone Sottsass.

 

Si tratta dello stesso Bob Dylan che figura giovanissimo in una foto che il designer ha scattato nel 1965 a San Francisco: Ferlinghetti, Ginsberg, Dylan, Peter e Julian Orlovsky. Era l’epoca della sua frequentazione della Beat generation insieme alla prima moglie, Fernanda Pivano. In quel 1981, anno del trionfo, Sottsass ha sessantaquattro anni e una lunga carriera alle spalle, che l’ha portato dalla Torino degli anni Quaranta, dove ha collaborato con il padre nella progettazione di architetture sociali, alla Factory dell’Olivetti, tra computer, macchine per scrivere, calcolatrici e pubblicità, un percorso unico e originale che un libro di grande formato, Sottsass (Phaidon Electa, pp. 469, € 160), curato da Philippe Thomé, ricostruisce. Ma chi è stato Ettore Sottsass, che ruolo ha avuto nel design italiano e internazionale? Nel saggio d’apertura, Design: il cammino verso Memphis, Francesca Picchi indica in Sottsass colui che ha rivendicato un ruolo intellettuale per il designer, una forma di libertà di muoversi dentro, intorno, fuori, la cultura industriale cui la sua opera, nonostante il suo deciso carattere artistico, resta indissolubilmente legata. Sottsass descrive un campo d’azione che partendo dall’architettura attraversa l’attività artistica e pittorica, quindi definisce il proprio rapporto privilegiato con l’industria leader negli anni Cinquanta, la mitica Olivetti.

 

Il culmine del suo percorso, identificabile in Memphis, prevede il ruolo autonomo del designer, che inventa un campo d’azione in cui la forma-funzione di eredità primo novecentesca lascia spazio alla nuova estetica sensoriale. Se lo si confronta con un designer come Dieter Rams, legato alla tedesca Braun, contemporaneo di Sottsass, si capisce immediatamente come l’attività dell’italiano sia volta a una forma di visionarietà, ad una poeticità e a un ruolo critico continuo. Forse bisognerebbe dire, scorrendo le pagine del libro a lui dedicato, che l’opera migliore di Ettore Sottsass sia stata Ettore Sottsass, la sua capacità di reinventarsi di continuo attraverso cambi di rotta, aggiustamenti tattici, inversioni di marcia, per diventare quello che probabilmente già era, ovvero un uomo deciso a vivere con intensità la propria avventura. Francesca Picchi scrive che il design “è la disciplina che s’interroga sul destino dell’uomo di fronte alla civilizzazione industriale”, e si misura con questa forza innovativa, ma anche distruttrice, che è implicita in questo grande cambiamento.

 

A suo modo, Sottsass è sempre stato un marginale, pur occupando un ruolo centrale in un punto importante di quella civilizzazione, un marginale che, anno dopo anno, ha operato uno spostamento dell’idea di design, riportandola alla sua radice prima, pre-industriale, artigiana, da un lato, e artistica, dall’altro, facendo così vivere il suo lavoro tra questi aspetti, ampliando quello spazio intermedio – beetwin – che è sempre esistito nel campo della progettazione. Sarà stata l’origine austriaca, l’amore per il Biedermeier, l’esperienza progettuale con il padre, gli anni torinesi al Politecnico e la frequentazione del pittore Luigi Spazzapan, il suo edonismo di fondo, la ricerca del bello, l’appartenere culturalmente all’esperienza degli anni Trenta, al post-fascismo e alla post-ideologia, l’amore per gli oggetti, per la carta, la malinconia di fondo che lo abita (i suoi ritratti fotografici sono davvero emblematici, come ha mostrato anche di recente il libro dello psicologo-fotografo Pino Varchetta, edito da Johan & Levi), il desidero di felicità, che emerge con forza da quel capolavoro letterario e autobiografico che è Scritto di notte (Adelphi). Ebbene per tutto questo, e per altro ancora, Ettore Sottsass è uno dei personaggi più interessanti del design italiano e internazionale, insieme agli altri due singolari autori: Bruno Munari e Enzo Mari. Un terzetto di personalità e orientamenti progettuali così differenti, eppure convergenti verso un’idea non-funzionalistica del design stesso.

 

Proviamo a descrivere il percorso di Sottsass come emerge da questo libro composto di schede dedicate ai suoi lavori, immagini uscite dal suo archivio e da quello di Barbara Radice. Lei è l’ispiratrice di questo libro, biografa oltre che compagna e moglie, complice e osservatrice distante dell’intero percorso di questo maestro dell’arte di pensare e fare. Si deve partire da quel primo trauma che è stata la scomparsa improvvisa del padre, dopo la collaborazione comune, nell’ottobre del 1953. Ma già nella sua vita è entrata Fernanda Pivano, che Ettore ha sposato nel 1949. A questo punto è prima di tutto un architetto. Dipinge nello stile dell’epoca, tra Picasso e Arp, segue una forma d’Informale che ricorda la lezione astrattista. Espone anche, perché, come appare ben presto evidente, l’attività espositiva è perfetta per il suo carattere e per il suo talento. Sottsass disegna e dipinge sempre per sé, ma l’elemento comunicativo, al suo apice nell’esposizione, è decisivo. Comunica sempre, con gli schizzi e con le parole. Usa il doppio linguaggio, dato che l’attività di collaboratore di riviste, a partire da “Domus”, gli è consueta. Teorizza anche. Non è un maestro che insegna, come Achille Castiglioni, di cui in questi giorni sono usciti gli appunti delle lezioni presso Corraini (La voce del maestro). Piuttosto enuncia idee generali sul suo fare, o sul fare in generale, perché la sua vocazione novecentesca è quella dell’artista-teorico.

 

Valentine per Olivetti (1969)

 

Una scrittura a tratti onirica e poetica, a tratti pratica e teorica, che ricorda quella di autori come Brancusi, che visita con la Pivano, ma anche le ossessioni di Alberto Giacometti raccolte nei suoi Scritti. La teoria di Sottsass è leggera, aerea, a tratti impalpabile, seducente come una nuvola; lo stato consueto della sua creatività è gassoso. Per contrastare questa volatilità del suo pensare, dire e fare, s’impossessa della materia ceramica. La tratta però da pittore, in cui il colore prevale sulla forma, che seppur ben presente e connotante, è al servizio della sensorialità del fare. Ma eccolo alla Olivetti nel 1958, quando ha inizio la Divisione Elettronica, alle prese con Elea, il grande calcolatore elettronico che viene chiamato a vestire, a dargli una forma che si interfacci con gli uomini che ci lavorano. Progetta un sistema modulare, lo trasforma in un mobile: ogni armadio, che custodisce la “macchina”, è rivestito di pannelli di alluminio vagamente rispecchianti, ci ricorda Picchi, rimandando una immagine diafana, appannata, a chi vi si specchia. Qui c’è già in nuce molto del suo lavoro successivo, per quanto si tratti di forme ancora contenute dentro un involucro decisamente industriale. Nel contempo con la pittura e la ceramica comincia a sperimentare il suo lavoro estetico, facendone un banco di prova delle future forme colorate e giocose, che denotano il suo lavoro: un ambito questo dove la metafisica di Giorgio de Chirico, con il suo senso del mistero, si apparenta ai giocattoli dipinti dal fratello, Alberto Savinio, di cui Sottsass sembra il naturale continuatore nella terza dimensione, nello spazio della casa, del negozio, nell’architettura in generale, quale arte dello spazio. Ma gli serviranno davvero molti anni per arrivare là, per raggiungere la pienezza di una espressione che mescola gioco, ovvero divertimento, e malinconia, ovvero rimpianto: futuro e passato. I suoi oggetti si caricheranno via via di una malia antifunzionalista, giocosa, eppure toccata da un senso del tragico, presenza quasi invisibile, ma tangibile, come una corda che suona tra altre prevalenti: il tempo che passa come motivo dominante.

 

La presenza di Fernanda Pivano, su cui si sono soffermati in molti biografi e critici, lo mette in contatto con tre realtà decisive per definire la sua poetica: la poesia beat, il pop, l’India. In verità, Sottsass è già pop prima del pop. Lo è per via della sua origine viennese, per il suo amore per la decorazione, per il Barocco, ma anche per ciò che appartiene alla cultura popolare, che si tratti di una vecchia casa rurale o del biglietto del tram. È pop perché collezionista, come racconta in Scritto di notte, e lo è fin dall’infanzia; il suo rapporto privilegiato con le “cose” equivale in lui al rapporto con le “persone”: anzi le “cose” sembrano interessarlo quasi più delle “persone”.

 

Ettore Sottsass e Fernanda Pivano

 

Dal viaggiare in America con la Pivano, dalla creazione di Pianeta Fresco, la seconda rivista che produce, discendono molte cose che poi si vedranno funzionare al meglio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Un Sottsass da leggenda, immerso nel mondo beat, con Ginsberg e Kerouac, Dylan e Ferlinghetti. Arriva anche una malattia, che quasi lo distrugge, forse contratta in un viaggio in India, il primo viaggio di esplorazione del mondo-altro. Dalla nefrite si salva a Palo Alto, dove lo invia provvidamente Roberto Olivetti, personaggio straordinario, di cui bisognerà prima o poi scrivere una biografia, dato che è stato tante cose, tra cui il primo finanziatore di Adelphi. Nella Room East 128 dell’ospedale californiano dà vita alla prima delle tre riviste della sua vita di artista e designer: Room East 128 (1962); cui seguono Pianeta Fresco (1967-68) e Terrazzo (anni Novanta).

 

La rivista come oggetto d’arte, ma anche come messaggio trasversale, atto privilegiato di progettazione su carta. Sottsass, com’è stato detto, è un perfetto fabbricatore di riviste. Accanto al proto-hippy c’è anche il designer di Asteoide, della macchina per scrivere Valentina, e di Poltronova: designer e architetto di interni. A seguire la sua molteplice attività si corre il rischio di dispersione, se non fosse che Ettore Sottsass possiede una coerenza assoluta: il perno di tutto resta sempre lui, il suo segno inconfondibile, che s’identifica con la sua persona fisica. Un rapporto strettissimo in ogni momento, anche quando gli capita di esitare, di prendere una possibile tangente che lo può portare lontano da tutto, ma mai da lui stesso: la stella Polare di Ettore Sottsass è Ettore Sottsass. Sempre. L’ironia segna alla pari della malinconia la sua personalità di artista e artefice. Del resto, l’ironia ha bisogno della malinconia per non diventare sarcasmo, per mantenersi leggera, per restare gioco e rimbalzo continuo tra affermazione e smentita: affermare smentendo. Deyan Sudijc nel suo scritto L’architettura della memoria, compreso nel volume, ha colto bene questa unitarietà nella varietà: “L’approccio di Sottsass è uguale in tutti i progetti: le case somigliano a liberi assemblaggi di elementi distinti, come lui stesso una volta afferma, sembrano piccole città, con edifici singoli raggruppati attorno alle piazze”. Riguardo all’architettura Aldo Rossi, suo sodale in più di una occasione, ha sottolineato che il tratto comune a entrambi è la “distruzione di una architettura stabile, alla ricerca di un superiore livello di ricomposizione”.

 

Questo punto superiore, dice bene Rossi, è l’eros vitale, centro propulsore di tutta l’arte di Sottsass, compresa la scrittura. E qui appare curioso che proprio quest’aspirazione a un Eros vitale, connesso alla “malinconia dissolutoria” (definizione di Aldo Rossi), produca in entrambi gli architetti forme così poco erotiche, mentre è affidato al colore il ruolo vitale. Forse bisogna ricordare che le forme costruttive di Rossi e Sottsass rimandano a un mondo del gioco infantile, dove la costruzione è aggregazione, riuso, a partire da forme già date: una sorta di grande Lego, o meccano, in cui s’incanala e trionfa l’Eros bambino. Molto ci sarebbe ancora da raccontare della ricca e intensa vita di Sottsass, dai viaggi alla fondazione di Sottsass Associati, dalla decisione di recidere il rapporto con Olivetti all’attività di progettista di oggetti e forme per vari committenti, tra cui Alessi. Il libro contiene tutto questo, così che lo si sfoglia come un album, un raccoglitore, uno schedario, un racconto, dove vita e opere si mescolano in modo inestricabile, biografia e progetti sono tutt’uno.

 

Ci sono i testi di Emily King e Francesco Zanot, in particolare quest’ultimo che avvia il discorso sulla fotografia di Sottsass, modo di vedere, rappresentare, esplorare, ricordare, scrivere, godere. Si potrebbe forse tentare di chiudere questa lettura del volume con due citazioni. La prima la fornisce Francesca Picchi, traendola dal designer stesso, che ci ricorda come la sua intenzione sia stata quella di “affiancare all’ideologia razionalista la presenza della cultura ‘dei sensi’, di una cultura del peso, del liscio e del rugoso, del silenzio e del rumore, delle temperature, delle asimmetrie e delle dissimmetrie, e altro”.

 

Pensiero che ricorda l’ispirazione dei racconti dei “cinque sensi” che a inizio degli anni Ottanta Italo Calvino sta scrivendo, e poi le stesse Lezioni americane (parallelo ancora da fare questo, tra il designer e lo scrittore, per definire uno dei campi di forza degli Ottanta). L’altra citazione è di Barbara Radice che ha scritto: “L’obiettivo a lungo termine di Sottsass non era quello di ridare forma al mondo secondo l’immagine del design, ma di riformulare il design secondo l’immagine del mondo”. Altro pensiero che ci riporta ancora a Calvino, al suo signor Palomar, al fallimento del “sistema dei sistemi”, che sono state le ideologie politiche e sociali della prima metà del XX secolo da Sottsass ben conosciute. Con il designer il mondo guarda il mondo, alla faccia del design e delle sue categorie. Morto senza eredi, ha scritto Andrea Branzi, Sottsass non lascia altra eredità che se stesso. Tante cose, idee, immagini, pensieri, suggestioni, ricordi. Moltissimo.

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