Un libro di Andrea Pinotti / Tuffarsi nel visivo

11 Dicembre 2021

In un capitolo di Infanzia berlinese Walter Benjamin parla della leggenda del famoso pittore cinese Wu Tao-tzu, incaricato di realizzare un dipinto di paesaggio per una parete del palazzo imperiale. Una volta conclusa la sua opera e invitato il sovrano Xuan Zong ad ammirarla da vicino, con un battito di mani il pittore fece spalancare una porta ai piedi della montagna dipinta, vi entrò dentro e scomparve lasciando stupefatto il sovrano. Ripresa in seguito anche in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la storia ci parla della trasgressione di una soglia, del rapporto di compenetrazione tra rappresentazione e realtà. Questa vicenda del pittore che scompare nel proprio quadro, non ha interessato solo Benjamin ma anche teorici del cinema come Béla Balázs e Siegfried Kracauer che hanno riflettuto sul rapporto tra il dentro e il fuori dallo schermo.

 

L’ultimo libro di Andrea Pinotti, Alla soglia dell’immagine (Einaudi), nasce dall’incontro con questa leggenda ma si spinge oltre. Se l’ingresso nell’immagine è un desiderio rintracciabile fin dagli albori della mitologia, non possiamo non interrogarci sul suo contrappunto, ovvero l’emersione dell’immagine nel nostro mondo. Attraversando una vasta costellazione di casi che dalla cultura visuale antica arriva ai contemporanei dispositivi immersivi di realtà virtuale, Pinotti propone un’analisi critica di quelle immagini che si caratterizzano per il fatto di negare il loro stesso statuto iconico. Un’an-iconologia, dunque, che intrecciandosi con l’archeologia dei media si pone il problema di quale sia l’effetto di questo duplice movimento del nostro ingresso nel mondo virtuale dell’immagine e di esondazione di elementi del mondo iconico in quello reale.

 

Articolato in sette parti il volume si apre ripercorrendo le avventure del Narciso alla fonte, figura mitologica ed emblematica che già Leon Battista Alberti, nel suo De pictura (1435), poneva all’origine della pittura. Ma l’inganno in cui lo specchio d’acqua cattura il bel giovane, per Pinotti, non ci parlerebbe soltanto dell’ammaliamento efebico verso la propria immagine, né tantomeno dell’amara consapevolezza che lo condurrà alla sua tragica fine cadendo nell’acqua della fonte. Inizialmente, infatti, non è un’esperienza di rispecchiamento quella del credulo giovinetto, egli non sa che la figura specchiata è la sua immagine riflessa; non è consapevole di guardare se stesso ma è convinto di star ammirando l’altro da sé, l’oggetto del proprio innamoramento. C’è però un secondo momento fondamentale nella vicenda, almeno secondo la versione ovidiana, ovvero quello in cui il ragazzo assume la piena contezza che l’amore di cui ardeva era rivolto verso il suo stesso riflesso. Proprio l’incapacità di superare questo dolore, di cui morirà, gli riempì gli occhi di lacrime; e queste, cadendo sul velo d’acqua della fonte, ne incresparono il riflesso e offuscarono l’immagine del suo desiderio. Il ricorso al mito classico, in questo duplice momento tra ingenuità e consapevolezza, può essere allora letto come un’efficace metafora del rapporto tra opacità e trasparenza, tipica di qualunque medium e centrale nelle contemporanee teorie dei media. Una potenza del topos mitologico che infatti si ritrova anche nella celebre metafora di Marshall MchLuhan dello specchietto retrovisore (rearview-mirror).

 

La questione dell’origine dell’immagine è a sua volta centrale anche nel secondo capitolo, in cui viene affrontato il tema dello specchio. Doppi, simulacri, riflessi ed effetti di realtà che vengono prodotti dal dispositivo riflettente. A partire dalle posizioni critiche di Cassirer e Panofsky sull’idea di mimesis platonica, fino alla ripresa del saggio Sugli specchi di Eco, Pinotti si interroga sull’effetto-specchio, su quell’“esperienza promiscua” (Foucault) che è intrinsecamente legata all’illusione del reale, al ribaltamento fra sé e l’altro, fra identità e alterità. Nell’analizzare le molteplici mitologie che si configurano intorno allo specchio viene così messo in luce il duplice movimento che esso rende possibile, come nel caso del racconto Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (1871) di Lewis Carroll. Un’idea di un movimento bidirezionale (dentro/fuori) che il cinema ha ripreso e che in questo capitolo viene ripercorsa nelle sue molteplici tappe: da Le allucinazioni del Barone di Münchhaussen (1911) a Twin Peaks di David Lynch, da Il sangue di un poeta (1930) di Cocteau a Stalker (1979) di Andrej Tarkovskij fino ad arrivare a Inception (2010) o Black Mirror: Bendersnatch (2018). 

 

Ma la questione dello specchio sembra avere una sua mise en abîme anche nella struttura stessa del saggio di Pinotti. Queste riflessioni si pongono infatti come cerniera, come vera e propria soglia tra due parti di un dittico. Se infatti il primo capitolo si interroga sulla figura proto-immersiva del mito di Narciso, dall’“altra parte”, nel terzo capitolo il discorso si sposta sul tema dell’emersione dall’immagine verso la realtà. Come nel caso del mito di Pigmalione, in cui si realizza una metamorfosi inversa dell’immagine attraverso il superamento della soglia dell’iconico. Un passaggio, come si può vedere nell’incisione di Noël Le Mire (1778), che trova la sua forma-immagine nel gesto di ideale sconfinamento attuato da Galatea che scende dal piedistallo (fig.1). Questa animazione dell’inanimato, in quanto simulacro, dal mito si ricongiunge al presente degli androidi di Blade Runner (1982) o di Westworld (2016 –) e alle molteplici declinazioni della Realtà Virtuale. È infatti il travalicamento della soglia “che separa il mondo iconico dal mondo reale, [che] promuove quel processo di progressiva ambientalizzazione dell’immagine” (p.65), verso cui si dirige il lavoro di Pinotti sulla soglia dell’immagine. 

 

Figura 1, Noël Le Mire, copia da Jean-Michel Moreau, Pigmalione, 1778, ©WikiCommons.

 

In questa classe di “immagini che negano se stesse” rientra a pieno titolo anche il tromp l’œil, quella prassi ludica dell’inganno dell’occhio – come direbbe Omar Calabrese – che propone una continuità tra spazio della rappresentazione e spazio dello spettatore. Come per la “fuga dalla critica” di Pere Borrell del Caso (fig. 2) in cui un giovane ragazzo, tenendosi al telaio della cornice, si sporge oltre il limite dell’immagine invadendo il nostro spazio percettivo. 

 

Figura 2, Pere Borrell del Caso, Sfuggendo alla critica, 1874 ©WikiCommons.

 

Quest’indebolimento della natura iconica riconduce all’idea di perdita di autonomia della cornice, oggetto semiotico e dispositivo strategico, il cui statuto di supporto di inquadramento, di soglia tra immagine e non-immagine, sembra venir messo in discussione. Un processo che trova la sua piena legittimazione già a partire dagli ultimi decenni del xx secolo, come nel caso dell’esposizione Ambiente/Arte. Dal Futurismo alla Body Art curata da Germano Celant alla Biennale di Venezia del 1976. Ma non è certo solo il contemporaneo a parlarci di elisione della cornice e di spazi immersivi. Così, in termini genealogici, non si può non pensare alla Sala dei Giganti realizzata da Giulio Romano a Palazzo Tè a Mantova, o ai panorami ottocenteschi e ai Kaiserpanorama in cui è già riconoscibile, dice Pinotti, un “plesso ecoiconologico” (p.116), tra l’iconico e l’ambientale, che giunge ai contemporanei ambienti virtuali immersivi. Questi sono tutti milieux in cui si fa sempre più labile la soglia tra dimensione iconica e lo spazio di fruizione e in cui avviene una riorganizzazione dell’intera esperienza sensibile, multisensoriale e multimodale: non solo la dimensione visiva, ma quella uditiva, olfattiva e tattile, tanto da indurre l’autore a parlare del fruitore di queste immagini come experiencer, immerso a 360 grandi nell’immagine.

 

 

È a questo punto che Pinotti si interroga sul problema dell’istanza di soggetto presupposta da questo processo di ambientalizzazione. Sguardi, abbattimento della quarta parete come nel “teatro immersivo”, il problema dell’interpellazione di chi guarda e della soggettiva filmica. La questione che emerge non è però tanto quella dello sguardo rivolto dallo spettatore all’immagine quanto piuttosto il contrario: quale sguardo ci restituisce l’immagine? L’autore fa ricorso al pensiero di studiosi come Louis Marin, Meyer Schapiro e alla lettura foucaultiana di Las Meninas (1656) di Velázquez chiamando in causa le “prese di parola” da parte dell’immagine, il loro statuto enunciativo – direbbe chi scrive – e la conseguente presupposizione di un’istanza di ricezione a cui esse si rivolgono: “lo sguardo che ci viene indirizzato dall’immagine, interpellandoci, rappresenta un «io» che ci dà del «tu»” a cui “possiamo a nostra volta rivolgerci ricambiando il «tu»” (p. 123). Un’opposizione a cui Pinotti contrappone alternativamente quella figura di spalle, celebre nella pittura romantica à la Friedrich, come figura di cerniera in grado di attivare una “fusione empatica” con il punto di vista del personaggio rappresentato. Un effetto di embodiment che si ritrova anche nel first-person-shot delle riprese in soggettiva o nella storia dei videogames. 

 

Soffermandosi a questo punto sul rapporto in/out, Pinotti connette l’idea di attraversamento dello schermo cinematografico ai topoi orientali delle fiabe cinesi e giapponesi, tematizzandolo come “passo carraio”. Un superamento della soglia tra rappresentazione e realtà che era già stato pensato da registi come Ejsentein – è il caso del progetto mai realizzato della lacerazione della superficie schermica durante la proiezione della Corazzata Potëmkin – fino al cinema del futuro e alla diffusione del 3D (fig.3). Queste sono tutte possibilità, effettivamente realizzate o meno, che ci consentono di riflettere su quelle potenzialità di attrazione dello spettatore, di catalizzazione del suo sguardo.

 

Figura 3 Cinema 3D ©Ipa-agency.

 

Ricapitolando, e concentrandosi sulle potenzialità tecnologiche che ogni epoca dispone, Pinotti parla di come i dispositivi immersivi contemporanei – in termini di coinvolgimento spettatoriale – offrano la possibilità di assunzione della prospettiva empatica dell’altro. L’autore affronta questo tema a partire da quella duplice valenza sia estetica che politica che la realtà virtuale renderebbe possibile. Come già affermato infatti nel prologo del libro, proprio ricorrendo all’etimologia dei termini aisthesis (esperienza sensibile) e polis (come vivere insieme), le nuove tecnologie aprono a possibilità di immedesimazione che motivano le implicazioni umanitarie di operazioni di registi e artisti grazie alla VR. Pinotti affronta la questione di petto nell’ultimo capitolo – emblematicamente intitolato “Empathy Machine?” – passando in rassegna le operazioni di artisti come Ai Weiwei, Milk e Iñárritu tra gli altri, mostrando l’efficacia e l’intensità di quell’effetto di presenza resa possibile da operazioni al contempo percettive e relazionali di scorniciamento e immediatezza.

 

 

In questo cammino sulla soglia delle immagini, Pinotti ci guida insomma attraverso una costellazione di immagini che lungo i millenni delle varie storie (trans)culturali continuano a negare loro stesse. Una genealogia che dà prova di quella storia di profezie di cui ci parla Benjamin, e di quella capacità intrinseca delle opere d’arte – come direbbe Paolo Fabbri – di sollecitare pensieri ancora impensati. Non solo, questo testo di Pinotti sembra animare un invito ben preciso a interrogarsi in modo critico sullo statuto delle attuali teorie delle immagini, a metterle in dialogo con altri approcci e – se necessario – a ripensarle, in virtù delle domande che il presente pone in essere, come sembrano fare i contemporanei dispositivi immersivi di realtà virtuale.

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