Il discorso pubblico sulla Shoah

9 Febbraio 2016

Dalla fine degli anni Settanta, in un costante crescendo di attenzioni e con una lievitante partecipazione, rafforzate infine dall'istituzionalizzazione del Giorno della Memoria, il tema dello sterminio degli ebrei d'Europa per mano nazista e fascista è divenuto, da concreto fatto storico, oggetto di una pluralità di approcci e di una molteplicità di sensibilità variamente articolate. Non solo la platea degli interessati è andata aumentando ma si sono diversificate le aspettative che ruotano attorno alla socializzazione delle grandi questioni culturali, etiche e politiche in qualche modo richiamate e rilanciate dal ricordo delle persecuzioni sistematiche, delle deportazioni in massa e del genocidio razzista. Da aspetti della storia trascorsa, tragici suggelli di un regime non solo dittatoriale ma intrinsecamente criminale, le vicende della Shoah e, più in generale, del sistema di oppressione nazifascista, a partire dai campi di concentramento e di sterminio, hanno quindi investito e coinvolto una pluralità di istanze, di destinatari e di linguaggi. Istanze civili, destinatari collettivi, linguaggi di senso comune.

 

Si tratta di un mutamento di rilievo pubblico, quello che si è registrato in questi decenni, arrivando ad eccedere – nel senso di superarne la peculiarità storica – gli eventi stessi che la vicenda mantiene al suo centro. Al di là della ricerca e della riflessione storiografica, infatti, la sua diffusa eco collettiva si è in parte slegata dalla materialità dei processi ai quali essa, invece, afferma di continuare a volersi ancorare. In tale modo il tema della comunicazione si è per più aspetti trasformato, autonomizzandosi dalle premesse da cui aveva preso avvio, per assumere, passo dopo passo, una fisionomia sua propria, nella quale alla Shoah è attribuita la natura di metonimia assoluta del male e dell'ingiustizia nella modernità. Da tale involucro morale sono così derivate implicazioni di senso come anche aspettative di condotta. Le une e le altre rimandano immediatamente, al di là delle stesse buone intenzioni con le quali possono essere espresse e condivise, non solo alle tentazioni di discutibili usi pubblici della storia, insieme agli effetti dissonanti che a tali esercizi inevitabilmente si accompagnano, ma anche e soprattutto al rischio di profonde manipolazioni nella cognizione e ricezione collettiva del passato.

 

Auschwitz è infatti assurto a paradigma di una condizione universale, quello che rinvia alla vittima priva di difesa. La sua universalizzazione, all’interno dei codici espressivi e delle gerarchie di valore diffuse nei paesi a sviluppo avanzato, se da un lato ha rivelato inedite potenzialità, offrendosi come strumento euristico per l’indagine sul Novecento in quanto secolo accompagnato da una profonda spinta all’emancipazione ma anche intrinsecamente contradditorio nelle sue dinamiche, a tratti barbarico, dall’altro ha concentrato su di sé aspettative di significato destinate a rimanere frustrate. Tale percorso culturale, come anche politico, che ha investito soprattutto l'Europa e gli Stati Uniti, ha comportato non solo un forte investimento di saperi specialistici, con molteplici ricadute, ma anche e soprattutto il costituirsi di una pedagogia pubblica che ruota intorno ai diversi usi della storia, come delle memorie, di quell'evento. Non di meno, nell'affermare un nesso forte, a tratti inscindibile, tra sua conoscenza e coscienza civile, l'attenzione intorno alla Shoah ha alimentato un vero e proprio indotto culturale, composto di linguaggi, simbolismi, raffigurazioni nonché retoriche.

Un po' in tutti i campi disciplinari, come anche e soprattutto nella stessa vita associata, il ricordo della sterminio è divenuto, per molti, una sorta di elemento costitutivo della cittadinanza democratica, definendo la linea di divisione tra “civiltà” e barbarie. Si è così costituito un immaginario che scavalca il dato storico, per offrirsi come un complesso, articolato e stratificato insieme di imperativi, ritenuti insindacabili poiché basati sulla frontiere tra ciò che è parte dell'umanità e quanto, invece, nega il diritto all'esistenza dell'umano. In questo delicato processo di rielaborazione e identificazione, che ha coinvolto perlopiù quanti non sono stati vittime di quella tragedia, il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è stato fondamentale nello stabilire narrazioni, grammatiche, stilemi espressivi del pari ad agende di priorità. Non da ultimo, infine, il discorso pubblico sulle forme della memoria della Shoah si è impropriamente intersecato con la questione delle «identità», soprattutto laddove esso rimanda a conflitti irrisolti, come quello tra israeliani e palestinesi o, in forma più traslata, tra ciò che resta delle sinistre e delle destre in una età, quella in cui viviamo, nella quale non solo la partecipazione democratica ma anche la stessa nozione di conflitto sono stati ridimensionati.

 

La memoria della Shoah, come campo di significati apparentemente non negoziabili, è divenuta quindi anche una sorta di bacino di aspettative e di supplenze etiche che fuoriescono dalla mera fattualità storica, per rivelarsi nella loro natura di manufatto culturale e civile legato alla lunga stagione culturale che stiamo vivendo. Nell’interrogarsi su questa traiettoria, stanno peraltro emergendo non pochi problemi di fondo. La sovraesposizione mediatica di un così dirompente evento storico, anche e soprattutto in ragione della sua complessa dinamica fattuale, rielaborata e quindi ricondotta invece ad una sorta di breviario dei buoni sentimenti, rischia di depauperarne proprio l’intrinseco valore civile. L’effetto inflattivo che deriva dalla numerosità dei rimandi, tanto più quando impropri o inopportuni, se da un lato concorre a sacralizzarne e a monumentalizzarne l’immagine ne svuota progressivamente di rilievo la sostanza. Se Auschwitz è ovunque, ed è il tutto (cosa diversa da essere un tutto), il rischio è che sia anche in nessun luogo e si riduca al nulla, in una sorta di intercambiabilità continua, dove la specificità di fatti, agenti e concatenazioni storiche si perde in una sorta di riproducibilità infinita e pertanto indefinita. Non di meno, la banalizzazione dei richiami, ottenuta per il fatto stesso del loro incauto ripetersi nel corso del tempo soprattutto nell’arena dell’informazione pubblica, decontestualizzandoli e destoricizzandoli, nonché istituendo comparazioni e sovrapposizioni improprie, svilisce irreparabilmente la veracità dell’evento. Il cui problema non consiste nel tutelarne un’inesistente incomparabilità e, con essa, un’unicità erroneamente intesa da certuni come primazia etica nella sofferenza, ma di capire quale sia il vero valore euristico ed ermeneutico di quella che deve rimanere una fondamentale fenditura nella coscienza contemporanea per la globalità degli interlocutori.

 

La complessità di questo trend socioculturale si incontra peraltro con quelli che sono gli assi dell’ideologia corrente, dove all’ipertrofia di attenzione nei confronti della figura della vittima, così come all’onnipresenza del trauma come fondamento identitario, si accompagna l’estinzione della liceità del conflitto nella società, ovvero la sua anestetizzazione e polverizzazione all’interno di una considerazione di sé, come delle relazioni sociali interpersonali, dove il posizionamento è sempre più spesso dato non dalla capacità di fare coalizione d’interessi tra titolari di diritti comuni ma nel definirsi essenzialmente come richiedenti un risarcimento individuale.

 

L’ampia cornice di riferimento è quella che interseca sul piano politico l’antitotalitarismo liberale, celebrando la coincidenza tra ordinamenti liberaldemocratici e storia politica tout court, un umanitarismo consensuale, che fa del rifiuto della violenza nei percorsi di emancipazione il filtro preclusivo ed esclusivo di ogni rivendicazione nonché, infine, la naturalizzazione dell’ordine dominante, presentato come “oggettivo” e quindi immodificabile. Si tratta, come si avrà modo di osservare, di questioni di estrema complessità alle quali, tuttavia va raccordato il più specifico rimando a quell’immaginario sociale che, come una sorta di indotto culturale, si è stratificato intorno alla memoria dello sterminio degli ebrei nell’Europa contemporanea. A tale contesto, infatti, bisogna fare riferimento se si vogliono comprendere le ragioni di un’urgenza, quella di capire il potente impatto dell’identificazione con una tragedia così grande nel momento stesso in cui il suo riscontro civile rischia di perdersi nel dedalo di una storia senza tempo, dove alla forza della liberazione si sostituisce la seduzione dell’impotenza.

Il convegno, chiamando a raccolta studiosi di varia formazione e competenza, ha voluto soffermarsi su alcune dinamiche di fondo, verificando l'impatto che esse stanno esercitando sulla coscienza collettiva nonché sulle forme della comunicazione di quel passato nella cultura popolare. Non è un punto d’arrivo ma un momento di partenza, nella convinzione che il succedersi delle stagioni culturali sia di per sé una sfida per lo studioso ma soprattutto un’opportunità per il cittadino, laddove per entrambi si aprono comunque nuovi orizzonti di riflessione e comprensione.

 

Questo testo, pubblicato per gentile concessione dell’autore e dell’editore, è la prima parte dell’introduzione al volume collettivo Popshoah? Immaginari e pratiche collettive intorno all'uso pubblico della memoria dello sterminio degli ebrei d'Europa.

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