Tàpies: il destino nel nome

7 Settembre 2024

«Come Antoni Tàpies diventa Antoni Tàpies?». Inizia da questa domanda Il silenzio della materia. La poetica del Muro di Antoni Tàpies (Marsilio Arte 2024), il saggio che Massimo Recalcati dedica al grande artista catalano. Assieme a Il trauma del fuoco. Vita e morte nell’opera di Claudio Parmiggiani (Marsilio Arte 2023), forma un dittico in cui Recalcati riscrive i rapporti tra arte e psicanalisi. L’artista – diceva Jacques Lacan – apre la strada, l’analista lo segue: impara. E allora, verso quale sapere ci conduce l’opera di Tàpies? Perché Recalcati ne fa un paradigma? E ancora: come Antoni Tàpies diventa Antoni Tàpies? Una domanda o, forse, un indovinello che ricorda gli antichi enigmi. Perché insinua il “divenire” nella fissità del nome: il nome proprio, lo si diventa. Benché esista da sempre, come una membrana simbolica che avvolge ogni nascita, ciascuno dovrà incontrarlo nuovamente. Il già stato e l’inedito vengono trascinati nello stesso segmento sintattico. È una costante di questo saggio: la convivenza di elementi contraddittori quali ripetizione e contingenza, ritorno dell’identico ed evento. Un attrito reiterato che fa cadere ogni tautologia identitaria. Persino il nome proprio è una crepa nell’identità, un luogo spaesante contro cui Tàpies urta suo malgrado. Recalcati ricostruisce il tragitto di questo incontro, segue «la vertigine, l’impatto inatteso con sé stesso» di cui Tàpies fa esperienza. Dimostra come, in questo urto involontario, si compia la sua arte. Un itinerario stretto fra due coordinate: lo specchio e il muro.

Tra i venti e i trent’anni, Tàpies è un artista figurativo, al fondo surrealista, tormentato dalla propria immagine. Dipinge molti autoritratti che lo ritraggono «ispirato, alienato, rapito dall’intensità suggestiva e dilagante del proprio stesso sguardo». Sono opere impaludate nelle reti del narcisismo e nei dispositivi della figurazione. Variazioni di un unico tema: la cattura ipnotica esercitata dai suoi occhi. Eppure, tra le maglie di questa tessitura egoica, comincia una traversata dello specchio che condurrà Tàpies alla poetica del muro. Perché, oltre lo specchio, al di là del proprio Io, l’artista incontra la parte più intima e indecifrabile del proprio essere sotto forma di Muro: in catalano, muro si dice Tàpies. Il passaggio dallo specchio al muro avviene per gradi e si accompagna a un’ascesi pittorica che culmina nell’irruzione della lettera sulla tela. È l’Autoritratto del 1950 a segnare l’«eclissi dello sguardo» e la fine della stagione surrealista. In primo piano, ancora gli occhi dell’artista. Ma l’indice della mano destra attrae l’osservatore su un dettaglio marginale: un foglietto su cui è incisa la lettera T – l’iniziale del suo nome – trasformata in una croce o in una X. La lettera interrompe il dominio dello sguardo: «Il miraggio identitario dello specchio esplode frantumandosi».

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La X riduce il nome «a un’iscrizione elementare», un enigma privo di spessore simbolico. La croce, infatti, non è un simbolo che comunica un messaggio. Non rappresenta il soggetto, ma presenta sulla tela l’essere dell’artista come tessera asemantica (irriducibile, cioè, a un significato), cifra indecifrabile. Non va confusa con la firma che è uno stigma del prestigio autoriale, sospesa alle leggi del mercato. Piuttosto è una autre signature che disloca la messa a fuoco, si mette di traverso, disturba ogni facile accesso a sé stessi spezzando la reciprocità tra nome e identità. È un sisma nella logica della rappresentazione.

La croce, come scrive Tàpies, non è privilegio della crocifissione cattolica ma appartiene a una tradizione millenaria. La troviamo nelle iscrizioni egizie, mesopotamiche e persiane; tra i simboli alchemici e magici. La X è il punto di collisione tra linee divergenti o, di converso, quello in cui precipitano tutte le forze del creato. Sulle mappe designa le coordinate dello spazio mentre, in matematica, è il simbolo dell’incognita. È inoltre la resa grafica di un non-sapere (la firma di un analfabeta), può negare o cancellare un’immagine. Allo stesso tempo, però, questa lettera è un’estensione della T di Tàpies. Insomma: è al crocevia tra universale e singolare. Tra densità semantica e vuoto di senso. È lo scarto tra qualcosa che viene dall’Altro e qualcosa che appartiene solo a lui.

Recalcati descrive la lettera come «un’impronta, un segno calligrafico» che sorge in un istante vuoto, involontario. Possiamo accostarla a un’incisione rupestre di Lascaux. In quei segni parietali, Bataille aveva scorto l’atto d’origine e il miracolo della pittura. Come dimostra l’arte di Tàpies, tra il segno e il muro c’è un legame indissolubile. Secondo Emilio Vedova la pittura è un muro su cui si stratificano segni-impronte. Gli Street-artists, invece, incidono segni ovunque vi sia una superficie lesa dal degrado urbano e dallo scempio industriale: sui pali della corrente elettrica, sui muri dei perimetri metropolitani, nei sottoscala o nei parcheggi, nelle fabbriche abbandonate. Come se i Writers volessero recuperare l’origine segnica della pittura, portando il miracolo dell’arte nei luoghi più feriti della terra, tra le macerie di una guerra o di un terremoto. Dal Cretto di Gibellina alle opere di Bansky in Palestina o a Kiev, sino alle anamorfosi di JR: ovunque ci sia un cratere può sorgere una bordatura. Un ciglio, un muro su cui incidere un segno. Michel Foucault ha definito eterotopie gli angoli remoti dei giardini, le soffitte, il letto proibito dei genitori. Anche il muro è uno spazio di questo tipo, e non per la funzione che svolge, ma perché si presta all’incisione del segno. Quanto a Lacan, diceva di parlare ai muri (specie a quelli degli ospedali psichiatrici). Concepiva il linguaggio come un muro (urto, più che comunicazione di un senso) e ha riscritto l’amore come un a-muro. Ogni incontro incide sui corpi i segni, le marche del desiderio e del godimento degli amanti. Occorre pensare i muri come corpi, come tele, come superfici scrittorie, come trincee… Tàpies resta nei paraggi di Lascaux perché, da questo Autoritratto in poi, nella sua arte si tratterà di segni sul muro. Le sue opere offrono «continue testimonianze iconiche: la T, la A, la croce, la X, le impronte dei propri piedi». Sono tracce enigmatiche, pezzi caduti da una scena inconscia. Valgano da esempio le impronte dei piedi: Tàpies, ricorda Recalcati, era nato da parto podalico e, in catalano, “piede” è un’altra possibile accezione del suo nome.

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La lettera quindi è un liminare, il varco verso una nuova pittura. L’opera smette di rappresentare ma presenta il reale. Sulle tele appaiono sciami segnici composti da elementi isolati, senza alcun rapporto fra loro. Ogni segno è un sasso, un ciottolo, «un punto di resistenza a ogni possibile rinvio ulteriore». Recalcati lo definisce “segno-traccia”, “immagine-segno” – segno, cioè, di una materia inconscia. L’Autoritratto del 1950 è dunque una soglia, il manifesto di una torsione insieme artistica ed esistenziale. Segna la fine di un’epoca (quella dello sguardo-specchio) e l’inizio di un’altra: la rappresentazione fa posto alla scrittura. È un esodo che condurrà Tàpies sempre più lontano dall’immagine, verso la materia. Un passaggio di discorso che provoca uno scisma fra identità e soggetto. La poetica del muro, dice Recalcati, assume liricamente questo passaggio vertiginoso.

Accade nella seconda metà degli anni Cinquanta. Tàpies racconta: «Con mia sorpresa scoprii un giorno che i miei quadri si erano trasformati in muri». È un incontro, casuale e destinale, con l’alterità della materia. Senza averlo cercato né voluto, l’artista s’imbatte nel muro ovvero nel segreto del suo nome. È una visitazione: nessuna intenzionalità autoriale, solo muri che sorgono dall’inconscio. L’opera risponde alla logica dell’evento, della grazia, e porta con sé la dimensione dell’atto. Perché, incidere segni – osserva Recalcati – è inseparabile dalla forza dell’atto. Senza l’elettricità del braccio, «senza la singolarità dell’atto, senza gesto, mano, corpo, senza urto non c’è alcuna arte possibile». Alcune opere, diceva Roland Barthes, sono percorse da una vibrazione pulsionale, dal «passaggio di un vuoto» che nasce dalla tensione dell’oggetto con qualcosa d’Altro – cioè di inconscio. Solo se è attraversata da questa scossa, l’opera dà vita a un incontro. Punctum che scuote non solo l’artista, ma anche lo spettatore, obbligandolo a deporre i suoi strumenti concettuali. È l’urto, lo Stoss di cui parla Martin Heidegger.

Come piega della grazia, l’atto veicola un paradosso: un artista ne è istituito senza averne il dominio. L’atto non è proprietà della coscienza. Semmai, essere nell’atto significa vacillare. Francis Bacon, ad esempio, ha descritto la fase iniziale del disegno come la cattura, attraverso gesti casuali, di qualcosa che si rivelerà dopo necessario e inevitabile. Pollock invece sentiva di perdere il quadro perché il suo non era un atto premeditato. Picasso diceva: «Io non cerco, trovo». Non c’è prima l’idea dell’opera e poi la sua realizzazione. L’artista va incontro a qualcosa che non sa: s’immerge in «un’azione di scrittura» di cui l’opera sarà il portato. Il processo creativo conosce due tempi: un tempo d’intimità con l’opera; e un tempo straniante, in cui l’artista incontra l’opera finita come un evento destabilizzante. Si confronta a una verità inaudita, familiare ed estranea al tempo stesso, che lo riguarda da sempre ma che torna a lui con l’impatto di una novità assoluta. Più che un’autobiografia, l’opera è un’etero-biografia che illumina la sua vita in modo inatteso. Non è il riflesso sapiente di una volontà espressiva, la sede di un affinato esercizio tecnico, ma creatura che disarciona il creatore. Si colloca in questo solco il contrappunto che Recalcati crea tra Tàpies e Joyce. Entrambi hanno messo il nome proprio al centro della loro arte, ma diversamente. Tàpies ha incontrato il suo nome. Il suo tragitto artistico è l’esito di un «disarmo lento e traumatico», di un cedimento dell’io, di una sua resa volontaria, di un’esposizione senza riserve all’inconscio. Joyce invece ha deciso di farsi un nome. Voleva essere il creatore di una nuova lingua e che gli universitari si occupassero della sua arte per secoli. Nessuna Altra scena, ma un esercizio di padronanza capace di restituire consistenza al suo Ego.k

La poetica del muro regge su tre architravi: la trama, la materia e il vuoto. Nel filone dell’astrattismo, scrive Recalcati, dominano la via del colore (Rothko o Kandinskij) e quella della forma (Mondrian e Malevič). Ma Tàpies apre una terza via, quella della trama come «supporto asemantico dell’immagine». La trama è uno spazio vuoto in cui tutto può accadere perché, senza essere colore né forma, determina la loro condizione di esistenza. Così la tela (e non solo per Tàpies) diventa l’epicentro dell’opera. La trama trasmuta in muro. Accade soprattutto nei suoi monocromi, opere che assorbono gli orrori della guerra e della resistenza spagnola a cui Tàpies partecipa attivamente. La tela monocroma – e il ricorso a colori non-colori o a colori neutri – è il muro su cui si si scrive il reale della vita e della morte. Su cui si dissolvono i fasti, i clamori e i colori dell’Io. Le illusioni e gli inganni umani.

Su questo terreno, Tàpies incontra artisti come Yves Klein, Alberto Burri e, soprattutto, Piero Manzoni. Manzoni inizia la serie dei suoi quadri bianchi nell’autunno del 1957. Di lì a poco li chiamerà Achromes. Le sue tele grinzate creano un effetto-muro in cui l’intervento dell’artista è ridotto al minimo. Questa serie di opere – dichiara Manzoni – è pensata come «un’unica superficie ininterrotta» dove la materia diventa protagonista, «una superficie bianca che è una superficie bianca e basta anzi, meglio ancora, che è e basta». La tela «è una superficie d’illimitate possibilità» e non un recipiente da riempire di colori innaturali o di forme e significati artificiali. Perché allora «non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?». Per Manzoni, come per Fontana e Tàpies, la scelta del monocromo si accompagna a un nuovo concetto di spazio. Per l’artista catalano si tratta di uno spazio-scrittura.

Sul muro della tela, si scrivono segni dal denso spessore materico, che danno vita a una spazialità «tortuosa, sedimentata», animata da sporgenze, strappi, scrostamenti, tratti, calchi, graffi, graffiti, ciascuno dei quali è l’indice di «un’erranza della lettera». Uno spazio che ha il profilo inquieto di un deposito disordinato di tracce. Ma non è materia bruta. Piuttosto è una materia «solcata, invasa persino violata da sciami segnici». La trama-muro arrangia una superficie vivente, pulsante, inseparabile dai segni che il tempo vi incide. Tàpies descrive il muro con accenti lirici: «muri del pianto, muri delle prigioni; passare del tempo; superfici lisce, serene, bianche, tormentate», su cui appaiono «segni di impronte umane, di elementi naturali; sensazioni di lotta, di sforzo, di distruzione, di cataclisma o di equilibrio». E poi ancora «detriti di amore, di dolore, di disgusto, di disordine; apporto di materie organiche» e «sensazione di caduta, di affollamento, di espansione, di concentrazione; lacerazioni, torture, corpi squartati; equivalenza di suoni, sfregi, esplosioni, scariche di fuoco, colpi, martellamenti, grida, echi risuonanti attraverso lo spazio; contemplazione della terra, del magma, della lava, della cenere; campo di battaglia, giardino, destino effimero». Queste superfici sono sismografi che registrano la polisemia della vita e la corruzione a cui ogni cosa soggiace. Sono precipitazioni di passato e futuro, spazi corrosi «dalla memoria dell’inconscio e dai ritorni di segni sopravviventi, dal ritmo circolare della ripetizione». D’altro canto, come Fontana, Burri, Pollock o Fautrier, anche Tàpies fa uso di materiali deperibili che modificano l’opera al di là dell’atto artistico. Ma come entrare in uno spazio che fa emergere il reale della materia? Rinunciando a cercare significazioni («cosa vuol dire questo?») e seguendo «le traiettorie eccentriche e contingenti dei rilievi». L’opera contiene il suo altrove, è un piano di assoluta immanenza che si destina all’evento.

Tra queste pieghe, si apre una delle pagine più intense del saggio di Recalcati: il rapporto di Tàpies con il taoismo e il buddhismo zen. La cultura orientale lo ha educato all’unità degli opposti: la trascendenza dimora nell’immanenza, l’assoluto nel dettaglio, la beatitudine del creato nella dimensione modesta, ordinaria e povera dell’oggetto. L’arte orientale gli ha insegnato che l’opera non ospita alcuna epifania di senso, piuttosto lo azzera. Non è un luogo di parola, ma di silenzio. Nessuna semantica significante, solo l’enigma reale della lettera. Gli ha anche insegnato che la matrice prima di tutte le cose non è la Verità, ma il Vuoto. Il suo metodo di riduzione, infatti, mira a fare il vuoto e il vuoto è il punto d’irradiazione della sua arte.

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Opera di Antoni Tàpies.

Così il paradosso della materia coincide «con quello del vuoto». Nella poetica del muro, l’opera è «una porta dischiusa sul mistero del vuoto». Nessuno sguardo autoriale, nessuna prospettiva, nessun rapporto figura-sfondo: la porta è una «cerniera tra il dentro e il fuori, tra l’aperto e il chiuso, tra l’entrata e l’uscita». Fa esistere un nuovo mondo. Ma per riuscirvi – diceva Lao Tzu – occorre fare il vuoto. Il vuoto non è già lì, è l’opera d’arte a crearlo. Anche per Lacan ogni creazione artistica è un orbitale del vuoto. Quel vuoto che la religione evita e riempie di senso e che la scienza nega, suturandolo di sapere. Al vuoto, l’arte arriva in vari modi. Innanzitutto per bordatura: nel costeggiarlo, gli dà forma, lo organizza. Oppure per incisione: incidendo segni, lettere, che fanno sorgere lo spazio vuoto circostante.

La metafora della porta implica che l’atto creativo sia una soglia. Per un verso, ogni atto è un taglio traumatico perché si sgancia da tutto ciò che è già stato fatto. Compiere l’atto, scrive Recalcati, significa «allontanarsi, sbandare, smarrirsi», dissolvere la cornice appaesante dell’Altro (sia essa quella dell’Accademia o della tradizione artistica). Ma, per un altro verso, questo atto ex nihilo «porta con sé la memoria della sua provenienza», di un reale immutabile. Recalcati frequenta questo confine, entra nella solitudine dell’artista e nel coraggio necessario a sostenere la separazione dall’Altro. Solo allora l’opera potrà essere una porta aperta sul vuoto. Non rappresentare, ma creare un altro mondo.

Dopo il transito dallo specchio al muro, l’arte di Tàpies varca una nuova frontiera: quella dal muro al deserto. Questo passaggio coincide con un’esperienza interiore opaca. Tàpies racconta: «Tutto si fondeva in un impasto uniforme. L’occhio non percepiva più le differenze. Ciò che era stato un’ardente ebollizione si trasformava in un silenzio immobile. Poi un giorno ho tentato di attingere direttamente al silenzio». L’incontro con il silenzio della materia è un evento senza ritorno, un enigma che l’artista riversa nella sua arte. Per raggiungere il silenzio, diceva, bisogna passare attraverso un “suono forte”. Lo specchio, l’immagine, il narcisismo, portati al diapason, vengono oltrepassati e la lettera è il relitto di questo naufragio, come mostrano bene la celebre Vasca da bagno (1989) e la Testa (1989). Queste opere sono cristalli che orbitano nel loro vuoto, oggetti indivisi e compiuti in sé stessi, scarni e assoluti, che non rinviano ad altro se non alla loro solitaria immanenza. A partire da questo momento, la figurazione si dissolve completamente e affiora una seconda versione del muro. Non più il muro-crocevia di segni e significazioni, ma «l’esistenza stessa del muro» in cui Tàpies ritrova il nome come marchio letterale, «destino inaggirabile», incontro con la propria «essenza scritta da sempre». Una riduzione estrema che ricorda il lavoro dell’analisi.

L’arte di Tàpies si muove sullo stesso bordo che caratterizza un percorso di analisi. Ci sono due tempi: un tempo di amplificazione (in cui il soggetto scrive il suo sapere inconscio) e un tempo di riduzione che approda al “fine analisi”. Un tornante dall’esito indecidibile, segnato dalla caduta dei sembianti e delle identificazioni narcisistiche; dalla traversata del fantasma su cui poggiava la realtà psichica del soggetto. Si entra in un “deserto”. Lacan conia il neologismo desêtre che porta il deserto al cuore dell’essere. Perché, nel fine analisi, l’essere si spoglia dei suoi orpelli e il soggetto si identifica al reale del proprio sintomo. Va incontro alla sua assoluta singolarità, ritrova in modo inedito quel che è sempre stato. Tàpies ha compiuto lo stesso percorso. Con la sua arte, ha contornato «il segreto del suo nome proprio, dunque la radice ultima della sua biografia. Nel suo atto creativo, egli giunge a vedere davanti a sé, in una forma assolutamente nuova, mai vista prima, quello che in realtà è la sua esistenza da sempre». Così Antoni Tàpies è diventato Antoni Tàpies.

In copertina opera di Antoni Tàpies.

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