Non si leverà nessuna voce a chiedere conto di questa nuova strage? / Gaza

2 Aprile 2018

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Sembrano due immagini diverse e accostate. Nella prima prevale il colore giallo-rosso della terra, su cui camminano in diagonale tre soldati in assetto di guerra con gli zaini sulle spalle. Nella seconda è il colore verde dell’erba, e poi la folla composita di bambini, giovani, adulti, uomini e donne, con le bandiere. In mezzo, a separare le due immagini una rete e il filo spinato. La fotografia è stata scattata venerdì a Gaza dove sono stati uccisi 16 manifestanti palestinesi e feriti altri 1400. Sabato i morti sono invece due, e non sono ancora stati contati i feriti. Una folla di 30.000 persone ha manifestato lungo la recinzione che separa questo territorio dallo Stato di Israele. I manifestanti hanno tirato sassi e molotov contro i reticolati dietro cui stavano acquattati oltre 100 tiratori scelti dell’esercito israeliano. Il ministro della Difesa d’Israele, Avigdor Lieberman, ha sostenuto che questi erano gli ordini e se qualcuno dei manifestanti si avvicinava ai reticolati, i militari avevano l’ordine di sparare. Gli abitanti della striscia di Gaza, egemonizzata da Hamas, vivono in uno stato di segregazione che è stato raccontato in questi anni da diversi giornalisti e scrittori, una condizione di disperazione che non è sempre facile narrare e neppure credere. La fotografia racconta solo in parte questa condizione, ma di sicuro mette a confronto una folla di manifestanti, più o meno pacifici, con quei pochi soldati armati.

 

Abraham Yehoshua, il grande scrittore israeliano, da sempre critico contro i governanti del suo paese – la destra che è al potere da innumerevoli anni – ha condannato queste manifestazioni come una provocazione fomentata da Hamas: “Ce ne siamo andati da Gaza, ci hanno sconfitto nel 2005, adesso cosa vogliono da noi”, ha dichiarato a Antonello Guerrera che lo ha sentito al telefono (“La Repubblica”, 1 aprile). Suad Amiry, scrittrice palestinese che vive a Ramallah in Cisgiordania, è di parere opposto. Sempre a Guerrera, che la intervistava, ha detto che si tratta di un movimento che viene dal basso, dal popolo, e che Hamas c’entra poco. Di certo il popolo palestinese è disperato. L’hanno abbandonato tutti, in particolare i suoi sostenitori del passato, i paesi arabi confinanti, l’Arabia Saudita, l’Egitto. Amiry ritiene che quello che accade è il tentativo di attirare l’attenzione della comunità internazionale riguardo a un popolo che non ha uno stato, e che ha perso gran parte della sua terra. Vuol ricordare al mondo, che si è mobilitato per i rifugiati delle varie guerre, a partire da quella siriana, che dura da otto lunghi anni, che nessuno parla più della questione palestinese. Non è nostra intenzione fare il punto su un problema che dura da decenni e che non ha ancora trovato una soluzione accettabile, e la cui complessità è enorme.

 

Ma è evidente che questo episodio non può passare senza che venga fatta chiarezza su quello che è accaduto lungo il filo spinato di Gaza. Il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, e l’Alto rappresentante della Unione Europea, Federica Mogherini, hanno chiesto una commissione d’inchiesta sui morti e i feriti di venerdì e sabato. Lieberman ha dichiarato che non vi sarà nessuna commissione d’inchiesta (“Non ci sarà nulla del genere”).

 

Non sappiamo se Avigdor Lieberman, nato in Moldavia nel 1958, fondatore del partito di destra Israel Beytenu, abbia mai letto nelle quattro lingue che conosce un passo di La tregua di Primo Levi in cui lo scrittore riflette sull’offesa e sul potere pervertitore che questa riveste. Si tratta di una fondamentale riflessione su cosa produce l’offesa e su quanto accade negli esseri umani che la ricevono. Ha scritto queste parole ricordando i suoi sentimenti al momento della liberazione ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945: “Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”.

Il conflitto israelo-palestinesi ha prodotto un cumulo di offese senza fine, di cui questa, temiamo, non sarà neppure l’ultima, per quanto di una terribile gravità: 18 morti e oltre 1400 feriti.

 

Ma non è questa l’aspetto su cui vorremmo attirare l’attenzione degli attuali governanti d’Israele, paese per cui nutriamo un amore sincero, ma su quelle ultime righe di Levi: cosa provoca la natura insanabile dell’offesa che il popolo ebraico ha subito in modo così tremendo: “spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”.

 

Nessuno è escluso: sommersi, oppressori, superstiti. Pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti: sete di vendetta, cedimento morale, negazione, stanchezza, rinuncia. Solo quando i governanti di Israele si renderanno conto di quanto hanno provocato, e continuano a provocare, forse qualcosa cambierà. Forse. Non ne siamo sicuri. Come fece Primo Levi nel 1982, dopo la strage di Sabra e Chatila, è necessario chiedere conto ai ministri israeliani dei loro atti. Non ai soldati, che salgono quella montagna di terra davanti ai reticolati, o almeno non solo a loro, ma a chi li comanda e che non pare nutrire nessuna remora o vergogna davanti a quanto è accaduto. Non si leverà in Israele nessuna voce a chiedere conto ai propri governanti di questa nuova strage? 

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