Un intervento di Elisa Sighicelli a Palazzo Madama / Doppio sogno
Palazzo Madama di Torino è uno scrigno che racchiude meraviglie. Il Museo Civico di Arte Antica, creato nel 1861 per volontà della Città di Torino, risale al lontano XIII secolo d.C., quando le cronache ne registrano la presenza come Castello di Torino, sede della corte d’Acaia. Le fondamenta poggiano però su mura di epoca romana e proprio la sua lunghissima storia ha permesso la stratificazione di elementi architettonici e lo sviluppo delle collezioni permanenti all’interno della residenza sabauda, trasformandola in quello che oggi possiamo ammirare come una delle realtà espositive più preziose della città.
In occasione di Artissima 2017 e Contemporary 2017, Elisa Sighicelli è stata chiamata a realizzare un progetto site specific che mettesse in dialogo elementi del museo con le proprie opere, creando un ponte tra passato e presente. È nato così Doppio Sogno, progetto installativo dalla lunga gestazione che si articola negli spazi fastosi delle sale barocche, al primo piano dell’edificio.
Sighicelli opera su un piano estetico-percettivo e, per inserirsi nel discorso che i singoli elementi del museo intrattengono tra loro, sceglie di concentrarsi sulla veranda juvarriana. Si tratta di un salotto del piano nobile che affaccia su piazza Castello e, internamente, sulla doppia rampa dello Scalone d’onore, splendido esempio di riqualificazione barocca, opera dell’architetto messinese Filippo Juvarra che completa l’avancorpo del palazzo nel 1721, lasciando però incompiuto il progetto originale. L’ambiente costruito da Juvarra, grazie ai finestroni che permettono un trionfo di luce, è fastosamente scenografico e ricorda una maestosa galleria. Si tratta senza ombra di dubbio di uno degli esempi più alti di architettura barocca settecentesca e la perfetta fusione tra l’apparato decorativo, la luce e gli spazi ha sedotto Sighicelli, che per un anno si è dedicata alla concezione e allo sviluppo del progetto espositivo.
Procedendo con meticolosa pazienza, l’artista torinese ha fotografato le finestre interne della veranda, scattando durante le diverse ore del giorno, studiando l’incidenza della luce e le rifrazioni sulle vetrate e sugli specchi. Le foto selezionate sono diventate il soggetto dei due trittici su raso e di due opere singole su cartongesso. L’irregolarità dei vetri antichi, simili a una superficie liquida, e i giochi di luce sono riprodotti nelle stampe su tessuto, e l’esperienza visiva dell’osservazione delle finestre si traspone nell’apparente fissità delle fotografie. Si tratta di una operazione che richiama la specificità del Barocco, in cui era uso modellare materiali tradizionali come il marmo attraverso il virtuosismo tecnico, evocando materie dalle caratteristiche tattili come soffici cuscini, veli, corde, carni, così da indurre uno stato di meraviglia nello spettatore. L’attenzione per i tessuti inoltre accompagna da sempre la ricerca di Sighicelli, già artista di Gagosian, Giò Marconi e Carbone di Torino, influenzata dall’Arte Povera e da un certo minimalismo. Nel ciclo Untitled del 2014, ad esempio, cattura dettagli di stoffe colorate per poi installarli in galleria inserendo veri chiodi nelle stampe, in corrispondenza dei punti in cui il panneggio si piega. Il risultato è un’immagine volutamente ingannevole, che elide la staticità della fotografia giocando con i differenti piani della rappresentazione, creando un continuum tra ciò che è oltre l’immagine, ciò che è nell’immagine stessa e ciò che è al di qua del piano di rappresentazione. La bidimensionalità delle opere viene contraddetta dall’illusione ottica e da elementi che oltrepassano il limite naturale della superficie della foto.
Osservando l’evoluzione dei lavori dell’artista nel corso degli anni si coglie una precisa intenzione estetica e una volontà anti-narrativa: nelle opere di Sighicelli non ci sono storie da raccontare, piuttosto un intenso invito a osservare. Di formazione scultorea, l’artista conserva un interesse spiccato per il “display” e la relazione che l’oggetto instaura con lo spazio. Passando dal linguaggio plastico a quello fotografico, mantiene viva l’attenzione per ciò che comporta l’installazione e le dinamiche generate dalla presenza della foto intesa come oggetto, nella sua realtà fenomenica, e non come strumento di narrazione. Intenzione pienamente espressa anche nel progetto site specific voluto per Palazzo Madama, che condensa in sé una serie di temi cari all’artista.
Il primo trittico che accoglie lo spettatore è Riflettente trasparente (2017), che inquadra la finestra interna della Veranda Sud, ripresa in un arco temporale che evidenzia differenti condizioni luminose. La morbidezza del raso crea un suggestivo effetto di liquidità che richiama proprio le caratteristiche di riflettenza delle cornici e la viscosità dei vetri, evocando una dimensione sensoriale e pittorica. Collocata all’interno della Sala Quattro Stagioni, l’effetto mimetico dell’opera è impressionante: ad una prima occhiata, è difficile accorgersi che si tratti di un’opera contemporanea e l’effetto sullo spettatore è piuttosto straniante. Anche Uno, trentasei e sei (2017), trittico collocato nella Camera Madama Reale, prosegue letteralmente il gioco di specchi, stavolta scegliendo di inquadrare porzioni differenti della stessa finestra, pur mantenendo invariata la dimensione dei tre singoli elementi dell’opera. L’attenzione si sposta qui alla relazione tra le porzioni dell’elemento fotografato ma la malìa evocata dalle tre opere rimane invariata. Osservandole si è presi in una vertigine dello sguardo, l’effetto “trompe l’oeil” fa sì che le opere rimangano sospese tra staticità e movimento, in una perenne condizione di indeterminatezza che l’occhio cerca di combattere, come se per propria natura necessitasse di una certezza della forma in cui acquietarsi. L’artista però non sembra interessata ad affermare uno statuto degli enti definitivo: sebbene la sua ricerca si manifesti attraverso un registro estetico, si avverte una inquietudine delle cose che contagia lo spettatore e lo induce ad indagare, cercando delle coordinate per comprendere l’attestazione dei piani di realtà e finzione. Si tratta di un tentativo destinato a fallire, perché malgrado le immagini create da Sighicelli non siano mendaci, tuttavia sono volutamente ambigue e elusive. Anche in Through the Single Glass (2017), nella Piccola Guardaroba, e Gyproc Habito Forte 5979 (2017), collocata nel Gabinetto Cinese, benché il supporto della tela venga sostituito dal cartongesso e la stampa venga ripresa dall’artista che sovradipinge la foto con vernici opalescenti, il gioco di mascheramento prosegue.
John Berger scrive “La maschera non era che un trucco per smascherare”. La maschera che ritorna alla mente passeggiando per i saloni barocchi della mostra è naturalmente quella di Eyes Wide Shut, l’ultimo film allucinato (o il sogno lucido?) di Stanley Kubrick. La maschera è ciò che rimane dell’orgia a cui partecipa Fridolin, protagonista del romanzo di Arthur Schnitzler, che diviene Bill nel film che Kubrick trae dalla novella Doppio Sogno, datata 1926. Oggetto che nasconde, viene evocata per disvelare, proprio come accade nel teatro in cui il travestimento dell’attore e l’esercizio della finzione sono propedeutici al raggiungimento della verità. Siamo in un territorio di sogni, nella Vienna di Freud e delle sue incursioni nell’inconscio, e le opere di Sighicelli sembrano rimandarci lì, a quella zona offuscata tra il sonno e la veglia, tra la realtà e la possibilità, giocando a ingannare per svelare qualcosa che avevamo trascurato. Di fronte a ciò che consideriamo come assodato, il dato reale, cosa ci sfugge? Cosa stiamo smarrendo nel momento in cui posiamo il nostro sguardo distrattamente, accontentandoci della visione ammansita, e cosa invece si insinua nella sguardo che scruta e cerca, facendoci vacillare per un attimo, mettendo in discussione le nostre certezze? Come un’ombra che cattura la nostra attenzione nella coda dell’occhio, o una forma familiare che non riconosciamo e ci destabilizza, il fluttuare di queste forme ci interroga. Allusione, invito, ossessione dello sguardo ma anche ironia e una forma sottile di voyeurismo sono tratti che appartengono alla ricerca dell’artista, percorsa da una energia magnetica.
Nella sottrazione del racconto si condensa una forza psichica che diventa reale, e che connette tutte le opere in una rete di cui si avverte la vibrazione. Gyproc Habito Forte 5791 (2017), collocato tra due finestre, sembra riprodurne la forme e mutuarne le ombre, ma è un altro tranello, e anticipa l’ultima opera che da il titolo alla mostra, ovvero Doppio Sogno (2017), collocata proprio nella veranda. Giunti alla fine del percorso, osservando l’incandescenza dell’oro antico e le forme acquose del vetro impresse sul tessuto impalpabile, riemerge quel senso di mistero che accompagna lo spettatore lungo tutta l’esperienza della mostra. Si potrebbe tornare indietro, cedere alla tentazione di cogliere un dettaglio che ci era sfuggito, rimanere in contemplazione ancora di fronte alle opere, in attesa di una risposta. Vero è che nella dittatura dello storytelling, è difficile accettare di lasciarsi andare ad una esperienza visiva fondata sull’incertezza. Sembra che Sighicelli, eliminando l’onere del racconto, intraprenda una strada di condensazione e liberazione delle immagini, alla ricerca di una piena espressione visiva, svincolata dalla zavorra della certezza interpretativa. Una messa in discussione del dato oggettivo e un’operazione che mira a decostruire internamente la cartografia del reale, lavorando con il bisturi dello sguardo. Una lezione importante, per noi spettatori abbagliati da immagini che sbandierano una presunta verità, facendo capolino senza requie da l’infinita messe dei personal device e degli schermi digitali.