Anne Boyer, Non Morire / Dolore, vulnerabilità, mortalità, sfinimento, cura

4 Novembre 2020

“Poi la gente sparisce, gli amici si inabissano, gli amanti si danno alla latitanza, togliendoti ogni possibilità di adorarli di nuovo, i colleghi ti evitano, i rivali diventano indifferenti, i tuoi follower di Twitter non ti seguono più” (p. 71). Voglio cominciare a scrivere a proposito del libro Non morire di Anne Boyer, premiato con il premio Pulitzer 2020 per la non fiction, con queste specifiche parole. Non riesco, infatti, a togliermi dalla mente l’imbarazzo, la colpevolezza e, anche, la sporcizia esistenziale provate, in quanto individuo in buona salute, durante i tre anni che hanno condotto un mio caro amico dalla scoperta di un tumore estremamente aggressivo alla sua morte. Ricordo in maniera nitida le difficoltà comunicative e il senso di profonda inadeguatezza dovute al fatto che i miei problemi quotidiani erano veramente insignificanti e irrisori dinanzi a una lunga e dolorosa trafila di sedute di chemioterapia, diagnosi mediche, perdite di capelli, speranze disattese in pochi minuti e via dicendo. Dopo la sua morte ho pensato costantemente a quanto lo spazio pubblico, in cui cresciamo e da cui ricaviamo i principi che regolano il nostro vivere comune, identifichi in modo impietoso il singolo malato con il suo tumore, emarginandolo come se fosse diventato un errore sociale.

 

Lo sottolinea bene Marina Sozzi, nel libro Non sono il mio tumore (2019), quando applica i riti di passaggio descritti da Arnold van Gennep all’esperienza della malattia, la quale porta il “malato” a essere escluso dal “club dei vivi”, necessariamente performanti e vincenti. “Tumore”, “cancro”: sono parole che cerchiamo di non pronunciare mai. Nella malattia e nella morte altrui ognuno ritrova la possibilità autentica della propria malattia, nonché la certezza della propria morte, tenute quotidianamente a debita distanza da sé. Dunque, è meglio evitare quelle parole, adottando – come fanno spesso i quotidiani – formule linguistiche di un’aggressività da far spavento. Pensate a quanto è inopportuna e violenta l’espressione “stroncato da un male incurabile”, usata per non dire esplicitamente che il morto aveva un tumore. Viene in mente il bellissimo film Truman. Un amico è per sempre, quando due ex colleghi del protagonista, prossimo al decesso a causa di un cancro incurabile, vedendolo a un tavolo del ristorante in cui sono appena entrati, fanno finta di niente. Rimangono quindi silenziosi e in evidente imbarazzo, nel momento in cui lui va a salutarli apposta per sottolineare che non è invisibile, che non è escluso dal club dei vivi solo perché il suo corpo è debilitato. 

 

“A volte fa più male parlare di cancro che il fatto di averlo. È più difficile ricreare l’esperienza e le impressioni di una patologia che sopportarle” (p. 128). Anne Boyer, in Non morire, libro che gode dell’ ottima traduzione di Viola Di Grado, butta addosso al lettore oltre duecentocinquanta pagine di descrizione autobiografica – scrupolosa e impietosa – del significato che assumono la scoperta e il tentativo di cura di un cancro al seno altamente aggressivo nella società capitalistica contemporanea. La sua scrittura estremamente vivida, disincanta e colma di metafore, accompagnata dai costanti riferimenti a Virginia Woolf, John Donne, Susan Sontag e molti altri, ci introduce nell’incubo di una quarantenne nata e cresciuta in Kansas, insegnante di arte e madre single di una ragazzina adolescente, che deve affrontare il tumore al seno. “Essere dichiarati con certezza malati mentre si è certi di sentirsi bene significa crollare nella durezza accidentata del linguaggio senza ricevere nemmeno un’ora di morbida incertezza, in cui fermarsi con preventiva apprensione, ovvero adesso non hai una soluzione a un problema, hai un nome specifico per una vita che si spezza” (p. 24).

 

La durezza accidentata del linguaggio si tramuta nella trappola ordita da Google, a cui si ricorre con apprensione per cercare di capire, di comprendere e di prevedere, rimanendo ingarbugliati in un oceano di dati e di parole; nonché nella trappola dei followers che – per esempio – sulla pagina YouTube di Christina, la quale condivide con Anne la vita in compagnia di un tumore, offrono improbabili consigli sanitari (dai noccioli di albicocca all’olio di canapa), ignorando il fatto che nel momento in cui stanno scrivendo Christina è già morta. 

 

Boyer indugia sul tratto specifico della realtà dei social media, rea di amplificare in modo spesso distorto l’inquietudine di chi si scopre gravemente malato. Lo fa per sottolineare tutti gli aspetti medici, sociali, economici e politici di una società che non ha alcun tipo di vergogna nel trattare il tumore come una fonte di profitto, amplificando le differenze tra le classi sociali (essere, per esempio, una madre single abitante in periferia comporta statisticamente una probabilità di morte molto elevata negli Stati Uniti; se poi sei pure afroamericana, che Dio ti aiuti…). 

 

Innanzitutto, avendo “l’abitudine di mostrarsi di rado senza annunciarsi” (p. 26), il cancro “finisce nella mano ruvida della scienza” (p. 24), nonché “giunge in un’ondata di esperti ed espertissime tecnologie. Giunge attraverso una sorveglianza e una dichiarazione professionale” (p. 26). A noi lettori, fortunati per non aver provato finora questa esperienza, rimane l’ansia derivante dall’immagine del raccoglitore luccicante, dal titolo Il tuo viaggio oncologico, con in copertina la foto di una donna sorridente dai capelli grigi. Raccoglitore dato a Boyer da una infermiera dopo la diagnosi. Ma anche l’ansia derivante dalla tramutazione scientifica della malattia in dati e statistiche (p. 58), a cui fanno seguito le continue incertezze dei medici, l’uno in contrasto con l’altro nella scelta del tipo di chemioterapia da adottare. Boyer, nel corso dell’intero libro, ritorna spesso sugli effetti devastanti della chemioterapia: “qualcuno una volta ha detto che scegliere la chemioterapia è come scegliere di saltare da un edificio mentre qualcuno ti punta una pistola in testa. Salti per paura di morire, o almeno per paura della versione tormentosa e antiestetica della morte che è il tumore, o salti per desiderio di vivere, anche se quella vita sarà fino alla fine una vita penosa” (p. 87).

 

 

Il suo non è, ovviamente, un atteggiamento negazionista; semmai è una lucida descrizione di un metodo di cura doloroso, i cui effetti si protraggono a tempo indeterminato, nel caso di una guarigione dal tumore, mettendo in gioco riflessioni sul nostro modo di intendere il valore della sopravvivenza, il rapporto tra la vita e la morte, l’immagine esterna del corpo martoriato, al cui interno un mix micidiale di farmaci fa un reset di tutti i contenuti. “Forse gli storici della medicina guarderanno alla chemio con la stessa curiosità perplessa con cui i nostri storici osservano le pratiche mediche un tempo comuni, come il salasso” (p. 179). 

 

Il dolore e la spossatezza sono temi ricorrenti del libro. In particolare, colpisce al cuore l’attribuzione di linguaggio e di parola che Boyer dà al dolore tramite la descrizione degli ululati, dei singhiozzi e delle urla dei malati, mettendo quasi rabbiosamente in discussione l’ovvia idea filosofica che il dolore sia “la cosa più privata e meno comunicabile” di tutta l’esperienza umana (Hannah Arendt). Il passaggio da una condizione verticale a una orizzontale, quella del corpo esausto e forzatamente disteso a letto, rappresenta quindi il perfetto collegamento alla critica senza fronzoli rivolta a una società che, in mancanza di adeguate risorse economiche, ti rimanda a casa subito dopo una mastectomia, lasciandoti in balia della tua sofferenza e del tuo copioso sanguinare senza fornirti di un minimo supporto. Anzi, ti obbliga a riprendere la tua attività lavorativa il prima possibile.

 

Bisogna essere sempre performanti, mai fermi, costantemente attivi; non vi è nulla di più fastidioso del dramma fisico e psicologico di chi affronta una malattia destabilizzante. Il corpo è, d’altronde, vivo solo perché funziona, la sua utilità sociale è il suo perfetto funzionamento. Mai desuete risultano le parole di Günther Anders, quando definisce la morte come uno spreco di tempo. Boyer lo sa e lo evidenzia costantemente in modo impietoso, portando alla luce tutte le molteplici storture di un mondo che separa rigidamente la salute dalla malattia, isolando colui che contrae un tumore. “Chi muore e chi no del complesso di patologia chiamate ‘cancro al seno’ lo determina lo stipendio, l’istruzione, il sesso, lo stato familiare, l’accesso alle cure, la razza, l’età” (p. 174). A ciò aggiunge una puntuale analisi e critica degli atteggiamenti comuni che lo spazio pubblico adotta nei confronti del malato: le onnipresenti metafore belliche, i consigli non richiesti di adottare l’atteggiamento giusto e di pensare positivo, la colpevolizzazione della malattia (d’altronde, come ci insegna Bauman, il nostro interesse esclusivo per la causa di morte altrui è direttamente proporzionale al tentativo implicito di escluderla con sicurezza dal nostro modo di vivere). Queste analisi portano alla luce tanto i molteplici dubbi esistenziali sul modo distorto con cui noi pensiamo la nostra vulnerabilità e mortalità quanto riflessioni più concrete e prive di qualsivoglia traccia di ipocrisia: “morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti” (p. 182). 

 

Non morire è, in definitiva, il racconto toccante di una donna sopravvissuta che si interroga sul valore simbolico che attribuiamo alla sopravvivenza. Quindi, che cerca di attutire la spossatezza, la tristezza e il singhiozzare, propri di un periodo drammatico della sua vita, attraverso una scrittura estremamente poetica e vivida, i cui tratti disincantati e disillusi immergono il lettore all’interno di una realtà – quella della malattia e della morte – troppo spesso rimossa dal nostro quotidiano. Mi piace considerare il libro di Boyer come la parte che completa lo splendido Essere mortale del medico Atul Gawande: entrambi i libri ci mettono dinanzi a un destino perlopiù comune senza fronzoli e senza inutili conformismi. “Dimentichi che sono ancora condannata a vivere nel mondo che ti ha fatta ammalare” risponde la figlia ad Anne, dopo che la donna le comunica che il test genetico BRCA è risultato negativo e dunque non deve preoccuparsi di essere geneticamente condannata. Tale risposta spinge Boyer a dire: “ogni persona con un corpo dovrebbe ricevere, al momento della nascita, una guida per morire” (p. 127). 

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