Elementi di schermologia

15 Febbraio 2015

Che cos’è uno schermo? Qual è la natura della nostra relazione con questo dispositivo sempre più centrale nelle nostre vite singolari e collettive? Per Huhtamo da un lato gli schermi sono i supporti dell’apparizione dei fenomeni visivi e, al contempo, superfici sulle quali il soggetto proietta i propri “fantasmi”. Dall’altro lato, gli schermi sono elementi di protezione dalla radiazione luminosa, cioè enti relati alle ombre (le quali da sempre, almeno dalla teatro della caverna platonica in avanti, hanno accompagnato segretamente la forma mediante la quale i filosofi pensano il fenomeno in quanto oggetto separato). L’operazione di Huhtamo è dunque quella di una rilettura – attraverso gli schermi – del raddoppiamento più tipico della filosofia contemporanea: il manifestarsi e l’apparenza (la percezione e il virtuale) colti nella loro interpenetrazione reciproca. A tale sguardo teorico Elementi di schermologia integra, però, una prospettiva di tipo “archeologico”: se vogliamo comprendere gli schermi di oggi, occorrerà uno studio storico-culturale di un set di oggetti del passato (fantasmagorie, lanterne magiche, peep-show e altri ancora) che ne contengono le condizioni di possibilità. Lo schermo è un oggetto misto: un oggetto tecnologico che è sempre, al contempo, l’insieme dei discorsi e dei processi che lo hanno determinato. In Huhtamo (Helsinki, 1958) – tra i pionieri della Media Archaeology – è l’intero percorso biografico a essere interessato dalla tecnologia: formatosi in Finlandia (patria della Nokia), perfezionatosi in Giappone, ora insegna presso la UCLA in California, a due passi dalla Silicon Valley. Non stupisce dunque la qualità teorico-empirica del suo metodo di lavoro, basato su un’esperienza personal-esistenziale della tecnica: una dimensione artigianale e “laboratoriale” nella costruzione del savoir che richiama, in una certa misura, le tesi di Richard Sennett in L’uomo artigiano. L’impressione è che per Huhtamo gli schermi siano anche enti fisici, oggetti toccati, co-protagonisti silenziosi di una relazione viva col corpo del filosofo che li osserva, girandoci attorno.

Igor Pelgreffi

 

 

 

 

Una parte crescente della nostra vita quotidiana viene passata davanti agli schermi. Alcuni di essi, come gli schermi del cinema e i giganteschi schermi esterni tipo Jumbotron, sono collocati in spazi pubblici, mentre altri fanno parte del nostro spazio privato. Dalla metà del XX secolo gli schermi della televisione sono diventati una caratteristica costante per milioni di famiglie nel mondo. Oggi le forme della “cultura televisiva” possono sembrare omogenee e perfino stereotipe. Già durante l’ “invasione delle interfacce” del televisore, il ruolo culturale e anche la “natura” dello schermo televisivo è cambiato continuamente. È stato influenzato dai mutamenti tecnologici, dalle pratiche sociali, dalle politiche di trasmissione e dalle filosofie del design, ma anche dall’aggiunta di nuove periferiche come le console per i videogiochi, i videoregistratori, e le strumentazioni per la connessione ad internet. Dagli anni ’70 lo schermo del personal computer ha cominciato contendere l’attenzione degli utenti, all’interno dell’ambiente domestico, allo schermo della televisione. È stato spesso profetizzato che questi due schermi avrebbero dovuto fondersi in un unico terminale multimediale. La tradizionale distinzione tra “grandi schermi” e “piccoli schermi”, spesso fatta coincidere con la divisione tra “pubblico” e “privato”, resta uno schema diffuso nelle trattazioni divulgative sui media, anche se la sua validità è stata messa in questione da molti studiosi e critici. Nel suo libro Ambient Television, Anna McCarthy nota che associare il televisore semplicemente all’ambiente domestico è fuorviante. Gli schermi televisivi, sia grandi che piccoli, hanno delle storie lunghe e complesse in tutti i tipi di spazi pubblici, come pure in vari spazi intermedi. Un progetto di un’automobile del futuro sarebbe inconcepibile senza la presenza di un’intera varietà di schermi differenti.

 

Un esempio perfino migliore del bisogno di rivedere le idee esistenti riguardo al ruolo culturale degli schermi, ci è offerto dall’importanza crescente assunta dai piccoli schermi portatili per la mobilità personale. Apparecchi come i telefoni cellulari, le console portatili per i giochi, i PDA (Personal Digital Assistants), e le telecamere con schermi a cristalli liquidi a sportello non si inseriscono facilmente negli schemi esistenti. I loro piccoli schermi sono molto più piccoli di quelli di un normale televisore o di un personal computer. Essendo portatili, essi attraversano continuamente la soglia tra pubblico e privato, andando dove vanno i loro utenti, entrando e uscendo dalle case, dai caffè e dagli uffici, trasportati di luogo in luogo in protesi tecnologiche – automobili, treni e jet intercontinentali (anche se i jet già offrono ovviamente una varietà di schermi). Gli schermi miniaturizzati mostrano una notevole quantità di immagini che cambiano rapidamente, di grafica e di testo. Nonostante le loro piccole dimensioni, essi sono spesso divisi ulteriormente in “schermi per software”. Tra le dita dell’utente e il flusso di dati che attraversa il suo palmare si sviluppa una relazione intuitiva e quasi in tempo reale. Gli apparecchi palmari, infatti, sono personali, attaccati al corpo dell’utente come i vestiti, i gioielli o il portafogli (che è essenzialmente un centro multimediale no-tech che contiene foto, numeri telefonici, carte di credito, ecc.). Mentre di tanto in tanto lasciamo da parte i nostri televisori e le Play Station, i piccoli schermi portatili sono divenuti delle estensioni permanenti del corpo dell’utente che li possiede. Vengono sviluppati continuamente schermi perfino più piccoli, che vengono implementati in macchine fotografiche digitali ultrasottili, telefoni cellulari, TV da polso, tele-gioielli, e altri apparecchi.

 

Con l’aumentare dell’importanza degli schermi nella pratica contemporanea dei media, il compito di comprendere il loro ruolo culturale diviene urgente. Però, oltre alle loro manifestazioni presenti, dobbiamo capire le loro prime forme e il modo in cui si sono sviluppate. Io vorrei proporre la creazione di un nuovo campo di indagine che dovrebbe essere chiamato “schermologia”. Sarebbe una specifica branca all’interno dei media studies che si concentrerebbe sugli schermi come “superfici di informazione”. L’attenzione dovrebbe essere concentrata, non solo sugli schermi in quanto artefatti progettati, ma anche sui loro usi, sulle loro relazioni intermediali con altre forme culturali e sui discorsi che li hanno implicati in tempi e luoghi diversi. Un po’ di utile lavoro preparatorio, che getta luce su vari aspetti degli schermi è già stato fatto. Questo include le teorie sull’apparato cinematico; le indagini di Charles Musser sugli inizi del cinema nella “storia della pratica dello schermo”; la ricerca di archeologia dei media di Siegfried Zielinski sulla dialettica storica tra cinema e televisione; l’opera di Margaret Morse sugli schermi televisivi come accesso alle realtà virtuali; l’antropologia della comunicazione domestica di David Morley; e gli studi di Lev Manovich sulla genealogia dello schermo del computer. Ulteriori informazioni possono essere tratte dalle teorie sulla cultura visuale, particolarmente dai testi che parlano della rappresentazione visuale e della contestualizzazione delle immagini. La schermologia sarebbe un modo di mettere in relazione i diversi tipi di schermi gli uni agli altri e di considerare il loro significato all’interno di un quadro di riferimento culturale, sociale e ideologico nel cambiamento.

 

Nam June Paik, Tv-cello, 1971

 

Questo articolo sostiene che i significati dello schermo nella cultura mediale contemporanea non possono essere afferrati completamente se non si esplorano i suoi antecedenti e non li si (re)immettono all’interno del contesto del loro tempo. L’approccio è quello dell’archeologia dei media. Per come la intendiamo qui, l’archeologia dei media pretende di mostrare che dietro i fenomeni che possono sulle prime sembrare senza precedenti e futuristici spesso troviamo modelli e schemi che sono apparsi in contesti anteriori. Di conseguenza, i discorsi riguardanti gli schermi spesso evocano temi e formule che derivano da repertori esistenti (sebbene ciò potrebbe non risultare evidente a quegli stessi soggetti culturali). Le traiettorie di sviluppo degli schermi in quanto artefatti realizzati e le relative manifestazioni discorsive non sempre coincidono. Si potrebbe dire che gli schermi, in quanto nozioni discorsive, talvolta anticipano le loro realizzazioni pratiche, sebbene le anticipazioni non sempre vengano inverate come ci si aspetterebbe. Visto da questa prospettiva, lo “schermo” è un fenomeno culturale complesso, che si sottrae a facili generalizzazioni. L’archeologia dei media può aiutare a tracciare il suo profilo e le sue stratificate manifestazioni storiche. Infatti, scavando nel passato, l’archeologia dei media getta anche luce sul presente. Non è nostra intenzione sminuire gli evidenti mutamenti culturali portati da fenomeni sociali e culturali come il massiccio uso dei cellulari o dalla comparsa dei giochi elettronici. Ma un’enfasi acritica sulla novità e sull’innovazione sarebbe comunque fuorviante. Attraverso la mappatura di fenomeni definiti “senza precedenti” all’interno di un più ampio quadro di riferimento culturale, possiamo essere in grado di andare oltre gli slogan pubblicitari e i cliché perpetuati dai mass-media. Infatti, identificare quanto c’è di ereditato e di convenzionale ci aiuta anche ad apprezzare meglio la vera innovazione e la vera originalità.

 

Per prima cosa qui indagheremo l’etimologia della parola “schermo”, rilevando le migrazioni dei suoi significati. Poi indagheremo brevemente l’emergere delle pratiche relative all’uso di schermi pubblici, quali la Fantasmagoria e la Lanterna Magica. Poi ci concentreremo a lungo sull’archeologia del “piccolo schermo”, portando alla luce i vari modi e le varie forme in cui esso è entrato nella sfera domestica. Infine, si spera di poter offrire alcune considerazioni preliminari per un’archeologia degli schermi portatili. Tale discussione non ha la pretesa di dire l’ultima parola su questo argomento. Piuttosto cerca di offrire una serie di riflessioni teoriche supportate dall’evidenza storica. La natura della ricerca è in gran parte iconografica – porteremo alla luce le manifestazioni dello schermo come esse appaiono nelle rappresentazioni visive e le confronteremo con altri tipi di fonti. Tale approccio è giustificato dalla mancanza di fonti letterarie su molti dei punti che qui andiamo a trattare. Date le brevi dimensioni dello studio in questione, alcune omissioni sono state inevitabili. Alcune questioni, come l’abitudine di incorniciare delle fotografie per mostrarle in contesti sia privati che pubblici è stata trattata solo di passaggio. Sebbene l’immaginario storico riguardo allo schermo dei quadri contenga casi di immagini che “diventano vive” e persino comunicano con soggetti umani, abbiamo scelto di concentrarci qui su quei “proto-schermi” che sono più prossimamente connessi a sviluppi tecnologici. Non limiteremo la nostra ricerca alle cose materiali. Seguendo il percorso intrapreso da storici della cultura come Walter Benjamin, Wolfgang Schievelbusch e Carolyn Marvin, consideriamo le manifestazioni della cultura tanto reali ed importanti quanto quelle materiali. La storia dello schermo fluttua tra immaginazione e mondo fisico. Gli schermi, in quanto accesso all’esposizione e allo scambio di informazioni, sono situati in una zona liminale tra il materiale e l’immateriale, tra il reale e il virtuale.

 

Erkki Huhtamo, Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo, Kaiak Edizioni-youcanprint, Lecce 2015. A cura di Roberto Terrosi, per la collana Estetica e teoria delle arti

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