Da Sanremo a Torino, e ritorno / Identità eurovisionarie, figli reietti, padri snaturati
Chiedersi cosa sia Eurovision significa ripercorrere la storia dei media, della cultura popolare, dei cambiamenti socioeconomici e dei rapporti geopolitici che hanno accompagnato, in forma leggerissima, il progetto di integrazione europea dalla metà del Novecento. Ossia, il mutare dei suoi confini e del senso di appartenenza, l’investimento materiale e simbolico nell’idea stessa di Europa. La guerra fredda, l’esplosione dei consumi, il crollo dell’Unione Sovietica, le pressioni della decolonizzazione e il ritorno dei nazionalismi. Nientemeno: proprio Eurovision, l’evento extra-sportivo più seguito al mondo, quello spettacolo chiassoso ed esteticamente discutibile, rappresenta un osservatorio culturale privilegiato, un laboratorio di sperimentazione di linguaggi scenici e sonori, il contraltare popolare alle dinamiche economiche che fondano l’europeismo contemporaneo, il superamento del localismo e la definizione di un’identità transnazionale, composita ed eterogenea, attraverso la competizione fra brani vincitori delle competizioni nazionali.
È questa storia che racconta con ricchezza di dettaglio storiografico un volume di Dean Vuletic – Eurovision Song Contest. Una storia europea – uscito in questi giorni nella collana SuperTele diretta da Luca Barra e Fabio Guarnaccia per minimum fax. L’occasione, ovvio, è l’edizione del festival in scena a Torino fra il 10 e il 14 maggio 2022, vinta dalla compagine ucraina della Kalush Orchestra. Dove, al netto dell’eco del conflitto in corso, si è visto il consueto, agghiacciante blue turquoise carpet di apertura a una galleria di performance all’insegna della spettacolarità più sfrontata, esibizionista, sopra le righe quando non clamorosamente pacchiana. Altro che lustrini e paillettes. Toro Chippendale di velluto e strass, con cowboy da sexy shop in rodeo di nebbia fucsia, fiamme e cascate d’acqua. Madonna albanese in replica plus size con bikini di diamanti, prese pelviche e coda di cavallo roteante su tourbillon di ballerini sufi; dalla Norvegia, banane che riscrivono la storia di Cappuccetto rosso (“Give that wolf a banana – before that wolf eats my grandma”) per la gioia di lupi e astronauti in lamé dorato. Per dire. In sintesi, un tripudio di scarti: di occhi sgranati, sorprese, eccessi, rifiuti estetici.
Riecco dopo trent’anni il caravanserraglio di Eurovision fare tappa in Italia, premiata dal successo del proprio rappresentante nel 2021. Evento storico. Prima dei Måneskin, un rappresentante italiano aveva trionfato solo due volte: con la Gigliola Cinquetti di Non ho l’età (per amarti) nel 1964 e – qualora l’avessimo rimosso – con Toto Cutugno nel 1990, grazie a un brano (Insieme: 1992) la cui retorica comunitaria cercava di superare, in una sfida impossibile, la catastrofe di cliché di L’italiano (sì, con la chitarra in mano).
D’altro canto, Eurovision intreccia la propria storia con quella italiana in chiave ben più profonda. Prima di diventare una relazione sconveniente, Eurovision è stato una diretta filiazione del Festival di Sanremo. Nasce come Gran Premio Eurovisione della Canzone (o, più semplicemente, Eurofestival) nel 1956 a Lugano, sull’esempio del Festival della Canzone Italiana, con il pieno sostegno economico, tecnico e organizzativo della RAI. È il pendant canoro di Giochi senza frontiere, a sua volta creatura di Eurovisione, l’organismo creato nel 1954 dalla Unione Europea di Radiodiffusione. Associa la visionarietà post-bellica alla ragion pratica della sperimentazione tecnologica: prove tecniche di trasmissione su base internazionale. E ha origine italiana. Ecco perché per cogliere il senso di Eurovision – la sua matrice composita, la sua natura stessa – può essere utile raccontarne il romanzo familiare, la storia che ne intreccia il destino con il suo presupposto: con il localismo di Sanremo, e la sua svolta recente sotto la direzione di Amadeus. Ma procediamo per gradi.
Nasce sotto i migliori auspici e nel migliore degli intenti, Eurovision. E si sa, con le buone intenzioni si finisce spesso all’inferno. La tradizione nobile del pop europeo, a partire da quello britannico, non riconosce mai Eurovision, non vi si esprime. Eurovision non sembra diventare mai una sintesi delle parti. (Neanche l’Unione Europea, in fondo.) Con il passare degli anni vede anzi crescere il contrasto fra sagra paesana e pirotecnia, fra campanilismo e innovazione, fra baraccone rutilante e fantasmagoria. Non onora le aspettative del padre. All’inizio qualche soddisfazione, al buon Sanremo, la dà anche. Nega sì la vittoria a Nel blu, dipinto di blu di Modugno, solo terza nel 1958, ma consegna il brano alla scena internazionale e ne fa un emblema epocale. Si fa perdonare con Gigliola Cinquetti sei anni più tardi.
Poi il tradimento, la distanza, l’indifferenza. Dopo la vittoria nel 1990, dopo l’edizione romana condotta l’anno successivo – di nuovo, nel regime della catastrofe – da Cutugno, negli anni Novanta l’Italia progressivamente abdica al ruolo di madre fondatrice, disconosce il figlio, rinuncia a partecipare alla kermesse. Ragione dichiarata: un crescente disinteresse del pubblico, più che un comprensibile imbarazzo. Come se la fine della guerra fredda, il farsi concreto dell’Unione Europea, l’apertura dei confini a est, rendessero Eurovision obsoleto e irrimediabilmente cheap, cheesy. Non che il padre putativo fosse in forma smagliante, sia chiaro. I vincitori di Sanremo di quegli anni sono tutto tranne che imprescindibili. Ma la progenie meravigliosamente teratomorfa era lì a ricordarlo: l’utopia realizzata si stava dimostrando, banalmente, inguardabile.
Lo era davvero, inguardabile? Il fallimento estetico che ha accompagnato la reputazione di Eurovision è chiave del suo destino: del rifiuto parentale, oltre che della sua popolarità. Il regime del cattivo gusto – che lo si chiami trash oppure Kitsch – è però una chiave al contempo decisiva e inadeguata. Non solo perché, al netto dei giudizi di merito, la sfida di scrittura e organizzativa è straordinaria: in tempi strettissimi, una folla di ospiti con scenografie diversissime e al limite del concepibile. (Bastino gli esempi in apertura.) Più semplicemente perché l’inguardabile, dopo il disconoscimento paterno, viene guardato. Da molti. Nuovi pubblici hanno preso forma e posto del pubblico sanremese. Certo, i nuovi pubblici riflettevano una partecipazione allargata, attingendo a un patrimonio di tradizioni locali che di fatto incrementava il contrasto privo di sintesi, l’eterogeneità irrisolta, la ‘balcanizzazione’ del gusto. Ecco il trash, se si vuole, a fornire l’occasione per un divertimento campanilistico, lo scherno per i vestiti pattoni e le cene sgangherate del vicino di casa. Scagli la prima pietra eccetera. Ma non è solo questo a garantire un seguito all’emancipazione di Eurovision. Del resto, anche dopo il 1997 una parte del pubblico italiano stesso ha continuato a seguire Eurovision, orgogliosamente indie, grazie al satellitare e alle nuove piattaforme mediali. Cosa vi trovava?
Vi trovava quello che eccede i confini cognitivi del Kitsch e del trash. Una chiave più mobile, polisemica, contraddittoria: lo scarto come movimento, avanzo e sorpresa. L’elitarismo del rifiuto meraviglioso, il culto della secondarietà, la favolosità ironica del fallimento. In una parola breve e densa, il CAMP. In un solo esempio, Vjerka Serdjučka, drag ucraina classificatasi seconda nel 2007 con il pastiche ultravisionario, ai confini della realtà, di Dancing Lasha Tumbai (“Hello everybody, my name is Verka Serduchka | Me English, Night versteht | Let’s speak dance”).
Impossibile ridurla al Kitsch o al trash, Nostra Signora del Domopack, assurta a insensata leggenda ben più della drag queen austriaca, Concita Wurst, che trionferà sette anni più tardi. Identità queer che segnano il cambiare dei tempi, certo, ma in una dimensione che inscrive la sessualità fuori norma in un ordine estetico ironicamente perverso. È il camp appunto, gemello eterozigoto del queer, il suo compagno di viaggio novecentesco, la forma di sopravvivenza in clandestinità di un’identità negoziata nelle pieghe dell’ironia, fra le righe e sopra le righe. È il camp che, diceva Susan Sontag in un saggio fondamentale del 1964, Note sul ‘Camp’, adora l’artificio in sé e “le-cose-che-sono-ciò-che-non-sono”, trasforma la realtà in un palco teatrale e l’io in un gesto irresponsabile di narcisismo spudorato.
Il camp trascende le intenzioni. Inesorabilmente ironico, anche dove non si ritrova programmaticamente, distorce e si impone (“la definitiva massima camp: è bello perché è orribile”, scriveva Sontag). Non condanna: sublima. Un pubblico dall’orizzonte prevedibile non si riconosceva più nella manifestazione, così come Eurovision rifletteva la crisi di Sanremo? Il giudizio negativo sul fallimento altrui non forniva più occasione per il piacere dell’autoaffermazione campanilistica? Ecco che vi era pure chi scovava il piacere raffinatissimo di uno sberleffo autoironico, nell’apprezzare e riconoscersi proprio in quel fallimento. Nella trasvalutazione del marginale in paradossale primato estetico. Ma proprio in quanto presenze al margine (del margine), in quanto protagonisti di un apprezzamento aberrante del fallimento che presuppone il giudizio di disvalore (Kitsch!) per trasvalutarlo nel valore metasnob della decodifica aberrante, gli eroi del camp eurovisionario eccedono i propri stessi confini e forniscono la chiave del tutto. Il camp non è una delle tante possibili partecipazioni a Eurovision. È il punto di sintesi dell’eterogeneità eurovisionaria, il suo baricentro mobile. È la logica stessa del suo insieme composito, irriducibile, informe e discutibile.
La logica della moltiplicazione partecipativa, la divisione in parti e fazioni, è ciò che sussume la giustapposizione incongrua delle parti, che presuppone la censura del cattivo gusto e la sua celebrazione perversa. Non solo nell’Eurovision ipertrofico del nuovo secolo, dunque: se camp e queer (quasi una endiadi, più che una coppia) sono il regime dell’eterogeneità non assimilata e non sintetizzabile, del conflitto tradotto in operetta, fin dalle origini Eurovision come archivio di scarti è stato un grande teatro camp, visionario, di costituzione pop dell’identità europea per via di messa in scena dell’errore. Il presente ha solo scatenato il potenziale spettacolare di Eurovision, la sua natura ambiguamente partecipativa (nella ricodifica parodica, dissacratoria, urlata) attraverso meme e social, attraverso cioè dispositivi del nostro nuovo ordine di socialità mediale.
E tuttavia, mentre Eurovision diventava adulto ed entrava nel nuovo secolo, che ne è stato di Sanremo? Il tempo, si sa, lenisce le ferite, elabora i traumi, riavvicina i padri ai figlioli scapestrati. E nel 2011 l’Italia rinnova la sua partecipazione a Eurovision. Quasi furtivamente, Sanremo apre l’uscio e tende la mano. Nel 2015, a Vienna, Eurovision accoglie la performance di Il Volo con entusiasmo. Se ne sente il calore fin qui. E l’abbraccio fra padre e figlio si scatena a Rotterdam nel 2021, con il trionfo del glam scolastico dei Måneskin, che spalanca al gruppo le porte di un successo internazionale senza precedenti. E dimostra concretamente il valore commerciale dello scarto. Eurovision potrà anche essere una discarica, un coacervo di bigiotteria, ma porta con sé valuta autentica. Restituisce quanto ereditato ai propri elementi costitutivi, le competizioni nazionali. Come Sanremo, ad esempio. E quand’anche non si vincesse Sanremo, valga un qualsiasi facente funzione che garantisce l’accesso al palco europeo. Voilà la corsa a iscriversi a Una Voce per San Marino, a chiudere il cerchio dell’utopia cosmopolita, dalla sagra di paese alla metropoli e ritorno.
Beninteso, Eurovision non ha messo la testa a posto. Al contrario. È Sanremo a essere cambiato. A non essere più Sanremo, si sente dire. Dopo l’ubriacatura nostalgica della direzione di Carlo Conti, che sembrava voler trasformare Sanremo in un programma delle Teche RAI, la direzione di Amadeus nell’ultimo triennio ha impresso una svolta inclusiva, un rinnovamento queer. Ad archiviare la noia rassicurante e gli spettri di Pippo Baudo, la performance clamorosa di Achille Lauro nel 2020, che interpreta David Bowie, e ancora David Bowie, e poi, per non ripetersi, la Regina Elisabetta di Bette Davis, 1939. Una minuta ma vistosissima galleria camp. L’anno dopo è ancora Lauro, ancora David Bowie (in Todd Haynes, per cambiare) e i suoi tableaux che aprono la vittoria ai Måneskin, che al camp degli anni Settanta devono molto (a dir poco). Il tutto arricchito dal camp classico di Ornella Vanoni (sopraffino) e di Orietta Berti (ultracamp, popolare e smodatissimo).
E poi, la musica leggerissima di Colapesce Dimartino: gli esempi davvero non mancano, in questo campionario (ops) di varietà. Inutile dire che la vittoria di Eurovision nel 2021 è il detonatore che mancava al camp sanremese. A colpo d’occhio, ecco nel 2022 Drusilla Foer, Achille Lauro (di nuovo, poco di nuovo), Vanoni e Orietta Berti (di nuovo, non basta mai), Donatella Rettore che indica la propria eredità in Ditonellapiaga, il queer pop sguaiatamente raffinatissimo della Rappresentante di Lista, la vittoria consegnata alla coppia ultraqueer Blanco-Mahmood – con tanto di inversione di cliché vestimentari gay/etero. Sotto lo sguardo benevolo di Raffaella Carrà (il Signore l’abbia in gloria) si apre il nuovo decennio, si annuncia la nuova cultura italiana. Se Sanremo, fin dalle origini, manifesta il nazional-popolare, il nazional-popolare degli anni Venti sembra farsi fluido, inclusivo, trasgressivo, ironicamente rosa. Se non altro, accoglie l’altro e fa parlare di sé. La vittoria dei Måneskin a Rotterdam non è casuale e non è priva di conseguenze. Alla fine, il buon padre ha indossato zatteroni retrò e un tubino di lamé, e ha raggiunto il figliolo in Europa. Certo, nella frenesia della svolta, ha dimenticato di saldare alcuni debiti. Ma questa è un’altra storia, un’altra tratta.