Letteratura scientifica e open access

«Quaranta dollari per un articolo di medicina! Ma vi rendete conto?». Un amico ingegnere, abituato a documentarsi sulle questioni che lo interessano, aveva scoperto i prezzi dei periodici scientifici a pagamento e non poteva credere che per un solo articolo servisse quella cifra. Così ci incaricammo di dirgli che un abbonamento annuale a una rivista di fisica o di chimica, per un ateneo, costa alcune migliaia di euro, mentre un anno dell’«Earthquake Engineering and Structural Dynamics» – tanto per fare un esempio – si acquista per circa 8000 dollari. Nelle scienze umane le cose vanno un po’ meglio, ma si sa che gli umanisti sono sempre senza soldi...

 

Tra la metà degli anni ’70 e i primi anni 2000, il prezzo dei periodici scientifici è aumentato del 300 per cento (si veda questo articolo di Guédon del 2001), ben oltre l’inflazione, e negli anni successivi la corsa non si è fermata. Giganti dell’editoria scientifica come Elsevier, Springer o Wiley-Blackwell ne hanno ricavato margini superiori al 20 per cento, ma gli atenei, che devono acquistare centinaia di abbonamenti per i propri ricercatori e studenti, si sono trovati in difficoltà. Quando la crisi economica attuale si è tradotta in nuove riduzioni dei finanziamenti alla ricerca, per la maggior parte degli atenei la situazione è divenuta insostenibile.

 

I ricercatori hanno cominciato a chiedersi per che cosa pagassero: nel processo editoriale di una pubblicazione scientifica sono loro che scrivono il testo, di solito senza percepire diritti per la sua pubblicazione, e provvedono in genere a titolo gratuito al processo di peer review, cioè alla revisione paritaria anonima dei contributi che i loro colleghi propongono agli editori per la pubblicazione (se la valutazione è positiva, si pubblica, direttamente o con le modifiche e le integrazioni proposte dai valutatori; in caso contrario, il testo è respinto). Quando, infine, l’articolo viene pubblicato, gli autori, ossia gli atenei per cui essi lavorano, per leggerlo non di rado devono pagare prezzi esorbitanti. Che cosa giustifica questi prezzi? Gli editori invocano i costi di produzione e di gestione delle infrastrutture informatiche, invero fondamentali per la disseminazione dei prodotti della ricerca scientifica, ma margini come quelli dei grandi editori menzionati sopra, così come gli aumenti progressivi e costanti applicati negli ultimi anni da diversi editori alle proprie pubblicazioni, suscitano più di un interrogativo.

 

La situazione, soprattutto, ha qualcosa di paradossale: la ricerca finanziata con fondi pubblici produce risultati che vengono pubblicati da editori commerciali e i ricercatori, che producono la ricerca, possono accedervi solo attraverso un nuovo esborso di denaro. Il pubblico, in sostanza, paga due volte per lo stesso bene. Se, inoltre, vengono a mancare i fondi per l’acquisto delle pubblicazioni scientifiche – è il caso, ad esempio, dell’attuale stato di grave sottofinanziamento dell’università italiana, le cui biblioteche fisiche e digitali sono state costrette, negli ultimi anni, a tagliare drasticamente gli abbonamenti alle riviste e l’acquisto di monografie –, accade addirittura che lo stato finanzi ricerche di cui i suoi ricercatori non potranno conoscere i risultati.

 

Si potrebbe domandare, allora, perché i ricercatori continuino a pubblicare su queste riviste. Il fatto è che i ricercatori vogliono pubblicare sulle riviste più prestigiose, per garantire una maggiore diffusione al proprio lavoro e perché il numero e la qualità delle loro pubblicazioni incidono sulle loro carriere. Molte di queste riviste sono pubblicate dai grandi editori commerciali e né i ricercatori né le librerie universitarie possono semplicemente ignorarle o abbandonarle. A questo si aggiunge la posizione di vantaggio dei grandi editori, che concentrano nelle proprie mani la proprietà di centinaia di riviste e riescono così a imporre alle librerie acquisti a pacchetto, i quali impediscono una selezione più stretta dei titoli da acquistare.

 

Come ha recentemente spiegato Roberto Caso in un saggio liberamente accessibile nell’Archivio Istituzionale della Ricerca dell’Università di Trento, «queste caratteristiche del mercato si saldano all’esclusività del diritto d’autore sulle pubblicazioni. [...] Una volta effettuata la cessione dei diritti, l’autore non può ripubblicare l’opera presso altre sedi editoriali senza l’autorizzazione dell’editore. L’interazione tra valutazione e diritto d’autore eleva barriere all’entrata del mercato alimentando il potere oligopolistico in capo a un numero limitato di editori. Tale interazione genera una serie di problemi, il più evidente dei quali è la crescita esponenziale del prezzo dei periodici scientifici».

 

Il movimento noto come Open Access (OA), in italiano ‘accesso aperto’ o ‘accesso libero’, nasce anche come forma di reazione, da parte di ricercatori e bibliotecari, nei confronti di un tale sistema chiuso e oligopolistico. Secondo la Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto alla letteratura scientifica (2003), un contributo OA soddisfa tre requisiti: accessibilità, libertà di utilizzo e conservazione (di seguito semplificheremo un po’: per approfondimenti si veda qui):

 

  • Accessibilità: il contributo è sul web e gli utilizzatori – i lettori, tipicamente – vi possono accedere gratuitamente.

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  • Libertà d’uso: attraverso licenze di diritto d’autore come le licenze Creative Commons, meno restrittive del tradizionale full-copyright, gli autori e i detentori dei diritti relativi consentono agli utilizzatori non solo di usare il contributo, ma anche di riprodurlo, distribuirlo o derivarne altri lavori. Lo scopo è massimizzare la diffusione e la crescita della conoscenza scientifica. Il solo vincolo è il riconoscimento della paternità intellettuale.

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  • Conservazione: una versione completa del contributo e di tutti i materiali che lo corredano deve essere conservata presso almeno un archivio digitale che soddisfi certi requisiti tecnici e istituzionali e che, quindi, garantisca l’accesso al contributo nel tempo. Fondamentale a questo scopo è stata lo sviluppo da parte dell’Open Archives Initiative di un Protocollo per la raccolta dei metadati (OAI-PMH: Open Archives Initiative Protocol for Metadata Harvesting): esso fornisce un’architettura logica di interoperabilità a fornitori di dati (gli archivi digitali) e fornitori di servizi. Rendere i propri lavori liberamente disponibili sul proprio blog, sul proprio sito, o su un social network è operazione che può essere meritoria, ma che non si può definire propriamente OA; senza l’adozione di un protocollo di interoperabilità – che tra le altre cose favorisce la ricercabilità e la disseminazione di un documento e delle relative informazioni – e senza appoggiarsi a un’istituzione che garantisca la conservazione dei dati a lungo termine, vengono meno alcuni requisiti basilari dell’accesso aperto.

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Come si vede, le difficoltà economiche hanno agito da sprone per la crescita dell’OA, ma le sue ragioni più profonde sono nella volontà di promuovere l’accesso alla conoscenza, abbattendo le barriere economiche, tecniche e giuridiche che lo ostacolano.

Dai primi anni 2000 a oggi, il consenso della comunità scientifica per l’OA è cresciuto costantemente. Iniziative come la Public Library of Science (PLoS), con le sue numerose riviste, hanno dimostrato che l’accesso aperto è compatibile con una qualità scientifica eccellente e con un alto livello di servizio. Le prese di posizione di atenei come Harvard e di istituzioni come l’Unione Europea o i National Institutes of Health americani hanno fatto il resto.

 

Oggi il dibattito riguarda quali forme di OA usare per quali tipi di pubblicazione e come fare interagire modelli editoriali e di business diversi. Open access, infatti, non significa per forza fare a meno di un editore, né è sinonimo di annullamento dei costi. Tanto l’autoarchiviazione dei prodotti della ricerca scientifica negli archivi istituzionali o disciplinari – la cosiddetta via verde all’OA, o green OA – quanto la pubblicazione su periodici i cui contenuti siano immediatamente disponibili al pubblico – la via d’oro, o gold OA – hanno, per esempio, ineludibili costi strutturali, relativi alla creazione, al mantenimento e all’aggiornamento delle infrastrutture tecniche. Ai ricercatori e ai loro atenei si offre però la possibilità di compiere scelte diverse, invece di soggiacere a oligopoli che ostacolano l’accesso alla conoscenza scientifica, e di agire per il bene comune, in coerenza con il proprio mandato.

 

Controllo scientifico, archiviazione a lungo termine, interoperabilità, disseminazione, immediato accesso libero che permetta, dopo la preliminare peer review, la valutazione ex post da parte dell’intera comunità scientifica, senza restrizioni all’accesso: questi sono gli elementi cardinali che, a nostro giudizio, dovrebbero guidare ricercatori, dipartimenti e atenei nella scelta di un nuovo paradigma di editoria scientifica.

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